Il segno di una doppia debolezza

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Non una soltanto, ma due elezioni primarie: il Pd deve essere in crisi di identità. Bella scoperta, si dirà. Ma il fatto è che questa volta non si tratta di una constatazione, ma di una dimostrazione. Più correttamente di un ragionamento di natura squisitamente abduttiva (i dirigenti democratici non lo sanno, ma ogni tanto abducono). Il ragionamento è il seguente. In primo luogo, il partito democratico ha nello strumento delle primarie un tratto irrinunciabile della propria identità politico-culturale e della propria fisionomia organizzativa. Così lo ha immaginato il suo primo segretario, Veltroni, e così è stato, dal 2007 ad oggi, passando per Franceschini e Bersani e un paio di elezioni politiche generali. Ora però si scopre che all’attuale segretario, Guglielmo Epifani, un solo turno di primarie non basta: ce ne vuole uno per eleggere il segretario, ristretto, e un altro dopo per scegliere il candidato premier, aperto. Se Bersani poteva dire, nella precedente campagna elettorale, che per lui contavano le secondarie, cioè le elezioni politiche vere e proprie, per Epifani le secondarie si allontanano, e le elezioni vengono ormai per terze. Abduciamo, dunque: se al Pd un solo turno di primarie non basta, e se le primarie fanno l’identità del Pd, allora il Pd è così in affanno che per ritrovar se stesso di primarie ne deve fare due, dalla diversa logica, come ha spiegato (si fa per dire) Bersani. Due primarie: l’ossimoro elevato a metodo politico.

Non si capisce? Non è colpa mia, ma vostra: non avete avuto abbastanza incubi negli ultimi tempi. Se infatti non vi è chiaro perché un partito debba stabilire, intervenendo un’altra volta sulle regole statutarie, che il suo segretario non è detto affatto che sia il candidato alla presidenza del consiglio, e che dunque l’elezione che lo riguarda deve essere dimidiata di valore e doppiata da un’altra elezione, è perché non siete stati visitati dal fantasma di Matteo Renzi, che invece ossessiona l’attuale gruppo dirigente del Pd. Pensateci: senza una regola così cervellotica cosa infatti potrebbe accadere? Che il futuro segretario, in prossimità delle elezioni, si proponga di bel bello come il leader della coalizione di centrosinistra. Orbene, delle due l’una: o quel segretario sarà abbastanza forte da rendere naturale la sua aspirazione, e allora non avrà bisogno di appellarsi alle regole statutarie per legittimare la propria candidatura; oppure quel segretario si scoprirà debole, perché nel frattempo gli sarà comparso nel suo stesso campo un altro candidato, e allora non saranno certo regole e regolette a frenare la corsa di un tale avversario. In entrambe le eventualità, regole e regolette sono inutili. Il secondo caso, peraltro, è quel che si è verificato quando Bersani ha (meritoriamente) accettato la sfida di Renzi, nonostante lo statuto del Pd non la prevedesse. E ora che si fa? Dopo che si è dimostrato che non è statuto alla mano che si risolvono i problemi politici, si mette mano a cosa? Ma allo statuto, naturalmente, nella speranza che questa volta invece serva a frenare le ambizioni del sindaco fiorentino. Si stabilisce così che il segretario del Pd non può essere politicamente abbastanza forte da scoraggiare competizioni per la leadership. Lo si stabilisce nientedimeno che per statuto. Lo statuto del Pd deve insomma sancire ufficialmente la debolezza del Pd.

Bisogna allora «abdurre» al contrario: il Pd non può avere un’identità politica forte, marcata, pronunciata: non la regge, non la sopporta. Perciò non ne va neppure in cerca.

Sia chiaro: le obiezioni ci sono. La prima: un segretario forte farebbe ombra al governo Letta, e rischierebbe di farlo cadere. Giusto. Ma questo significa che il Presidente del Consiglio deve allora mettere in campo se non se stesso almeno il proprio peso politico, e soprattutto la propria azione di governo, per determinare la scelta di un segretario che ne condivida e sostenga il percorso. Non significa certo che bisogna escogitare soluzioni regolamentari per scongiurare il pericolo.

La seconda: il Pd non è autosufficiente, e non può decidere oggi, con le percentuali racimolate alle ultime elezioni, il candidato alla premiership di uno schieramento di cui ignora i lineamenti. Giusto anche questo. Ma allora il Pd non dovrebbe procedere alla moltiplicazione dei pani e dei pesci delle primarie, bensì alla loro pura e semplice abolizione, tanto più che la derubricazione delle primarie a primarie di coalizione è una perversione tutta italiana, sconosciuta ai sistemi che con le primarie cerchiamo malamente di scimmiottare. Questo però snaturerebbe l’identità del Pd. O forse sarebbe solo la presa d’atto di quel che il partito democratico è oggi, in via di fatto. Ma chi è oggi in grado di guardare in faccia la realtà senza proseguire in quel gioco di rimozioni e denegazioni che il Pd sta giocando da qualche mese a questa parte?

 (Il Mattino, 27 luglio 2013)

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