Archivi del mese: agosto 2013

Ma Silvio pare Barabba

ImmagineTutto ci si può aspettare in questi giorni delicati, meno un’uscita di Angelino Alfano che dia un sostegno smaccato ai giudici della Cassazione che hanno condannato in via definitiva Silvio Berlusconi per frode fiscale. Eppure è accaduto (o quasi). Perché chiamato a riflettere sull’esempio di Cristo, Alfano non si è fatto ripetere due volte l’invito e ha detto: «l’esempio di Cristo non poteva essere più pertinente perché evidenzia l’esigenza di un giusto processo e i limiti di un giudizio popolare». Ora, vi ricordate come andò quella volta? Pilato invita la folla a scegliere fra Gesù e Barabba e la  scelta cade su Barabba: il furfante è salvo e l’innocente in croce. Di qui l’acuta osservazione del vicepremier: la giustizia dell’epoca funzionava veramente male, e una bella riforma avrebbe evitato un esito così scandaloso.

(L’Unità, 23 agosto 2013)

L’occasione per il riscatto della politica

ImmagineIn attesa che la Corte d’Appello di Milano ridetermini le pene accessorie, e dunque la durata dell’interdizione dai pubblici uffici, così come richiesto dalla Cassazione, tutto sembra ruotare intorno all’interpretazione della legge Severino: decadenza di Berlusconi dal Senato e futura incandidabilità.  Ermeneutici di tutto il mondo, unitevi! Eppure, non c’è bisogno di essere stati allevati a chissà quale scuola del sospetto per dubitare fortemente che sia davvero una sottilissima questione di ermeneutica giuridica, di interpretazione della legge, a tenere in forse il futuro del governo, la cosiddetta «agibilità politica» del Cavaliere e l’eventualità che il Paese torni nuovamente alle urne, nonostante le parole che si leggono nella nota diramata dal Quirinale qualche giorno fa: le elezioni anticipate sono un’ipotesi «arbitraria e impraticabile».

No, non è una materia per fini giuristi, e non sono le corti di giustizia a dover cavare la politica fuori dall’impaccio. Su questo punto, è comprensibile che persino Berlusconi sia poco convinto dell’idea, che circola in queste ore fra i suoi stessi supporter, di elevare ricorso alla Corte Costituzionale per scongiurare le conseguenze di una legge che, nel suo dettato, parla con sufficiente chiarezza. Certo, non c’è testo di legge intorno a cui non sia possibile imbastire una discussione per tesi contrapposte circa il suo senso, la sua portata, le condizioni della sua applicazione, il suo ambito di validità e chissà cos’altro. Ma quanti chiedono oggi un passaggio attraverso il giudizio della Corte non fanno loro stessi mistero che si tratterebbe soprattutto di guadagnare tempo. Il tempo non è un fattore secondario,  tutt’altro: dal tempo che potrà essere accordato a Berlusconi, prima che scattino decadenza e incandidabilità, possono anzi dipendere non solo le sorti del governo ma più in generale la tenuta del quadro politico attuale. La possibilità di fare una nuova legge elettorale, ad esempio, o la maniera stessa in cui si modelleranno le future leadership, sia a destra che a sinistra. Ma di nuovo, il tempo di cui si tratterebbe è una dimensione essenziale del gioco politico; in punto di giustizia, ogni dilazione, ritardo o differimento vale piuttosto come una sconfitta secca.

Dunque, siamo da capo. La partita in corso è eminentemente politica. I valori in gioco, anche: chi giustamente si preoccupa della stabilità del Paese, che sarebbe messa a repentaglio qualora tutto conseguirebbe come la legge Severino prevede, mette sul piatto un bene essenzialmente politico. Chi, d’altra parte, si chiede se sia possibile che il Pdl sia decapitato per via giudiziaria del suo incontrastato leader, che per circa un decennio ha governato l’Italia e che continua a riscuotere di un vastissimo consenso personale, evidentemente non pone una questione buona per i tribunali e le aula di giustizia, ma, ancora una volta, solleva un problema politico.

Accertato però che la logica politica non coincide con la logica giuridica, perché provare a deformare l’una sotto la spinta dell’altra? Perché mortificare il diritto, piegandolo alle ragioni della politica, invece di esaltare la politica, promuovendone in chiaro le responsabilità? Da che la politica moderna è sorta, ci si è trovato dinanzi a ogni sorta di attrito fra la politica e il diritto. È inutile sciorinare esempi, cercare precedenti, invocare la ragion di Stato o gli «arcana imperii». D’altra parte, è abbastanza ingenuo ritenere che, in un ordinamento liberal-democratico, le frizioni fra i due campi siano scomparse, come se ci fosse un semplice algoritmo per affrontare ogni caso, l’applicazione non controversa di una procedura per superare ogni evenienza. Ivi compreso il meteorite Berlusconi, capitato sul pianeta di Italia non si ricorda più in quale anno di grazia. Non è così. Forse, se l’ethos democratico si distingue dai regimi non democratici è per la possibilità di portare alla luce del giorno l’assunzione delle responsabilità politiche, e di premiarle o punirle in un procedimento pubblico, universale e libero, con la vittoria degli uni o degli altri nelle elezioni. Se dunque la posta in gioco sono le conseguenze o anche solo il significato politico, perfino simbolico, della decadenza e incandidabilità di Silvio Berlusconi, si chieda alle sedi politiche, non alle corti di diritto, di prenderle in esame.

Dalle voci che circolano in queste ore, sembra che Berlusconi abbia in animo di far cadere il governo se non si trova una soluzione ad personam. In questo modo, lega il corso politico al suo destino personale. Una specie di muoia Sansone con tutti i filistei. E se invece la cosa dovesse andare a rovescio, e, perché sopravviva qualcuno, dovesse essere il suo destino personale a legarsi alla prosecuzione dell’attuale corso politico? Se infatti il nodo non è affatto giuridico, non chiama in causa anzitutto i giuristi né, ragionevolmente, la Consulta, ma la classe politica e la seconda Repubblica – forse: la sua possibilità di finire, visto che ne abbiamo avuto tutti abbastanza – è la politica che deve compiere atti che valgano non come la disapplicazione delle sentenze, ma come la chiusura di un ciclo e l’apertura di una nuova stagione. Berlusconi può chiedere al governo Letta, magari in una prossima occasione parlamentare, di essere quello che finora non è stato né doveva essere – un governo di pacificazione – solo però se gli dà tempo e scommette sulla sua durata, non certo se ne interrompe bruscamente il cammino.

(Il Mattino, 22 agosto 2013)

I democratici separati in casa e divisi su tutto

ImmagineLa presa di distanza del Presidente del Consiglio dal documento di «blindatura» del governo preparato dal fedelissimo Francesco Boccia si può tradurre anche così: nel variopinto gioco dell’oca in cui il partito democratico è impegnato da diverse settimane, in vista del congresso, il presidente della commissione Bilancio, onorevole Francesco Boccia, deve tornare alla casella di partenza. La via da percorrere è ancora lunga, e, a quanto pare, disseminata di piccole trappole e sottilissimi tranelli (finché qualcuno non fa saltare per aria l’intero tabellone). Boccia ci ha provato, ma le perplessità hanno di gran lunga superato le adesioni, e così Letta ha tolto il documento dal tavolo.

Ma la chiave di lettura del florilegio di dichiarazioni che ha spinto ai margini del gioco l’iniziativa dello zelante Boccia va cercata in una parola del vocabolario psicanalitico: denegazione. Che è sì una negazione, ma è una negazione che afferma. La negazione serve anzi proprio per far affiorare nel dibattito pubblico il contenuto proibito, che altrimenti, senza la clausola negativa, non potrebbe essere affermato. Così, con  Napolitano nella veste del censore superegoico, sullo scacchiere del Pd trapelano le pulsioni non apertamente confessabili dei suoi protagonisti. Renzi vuole andare al governo, e non vuole più aspettare. Ma i renziani possono dirlo solo in forma «denegativa»: essi «non» vogliono la caduta di Letta. Grazie alla negazione, il contenuto libidico, però, tracima. Dopodiché a Renzi non è ancora venuto il tiro che manda a casa Letta e consente a lui di raggiungere l’obiettivo, ma è chiaro che ben difficilmente accetterà di saltare un turno. I renziani si muovono così, in vista del congresso, allo scopo di incrinare tutto quello che può cristallizzare la situazione politica per un paio di anni, fino all’obiettivo 2015, che rappresenta invece la meta indicata da Letta ufficialmente, fin dal suo insediamento.

Altrove serpeggiano preoccupazioni dissimili, ma che possono essere sottoposte allo stesso trattamento analitico. Quando il più autorevole candidato alla segreteria del Pd, di provenienza diessina, Gianni Cuperlo, dichiara che, sia o no il Pd un partito di sinistra, quel che è certo è che senza sinistra un partito democratico non c’è e non ci può essere, indica un’altra linea di confronto: come si scomporranno e ricomporranno le tradizioni politiche e culturali che han dato vita al Pd? Sono definitivamente rinsecchite o hanno ancora linfa vitale? Buona domanda. Ma applicate ora la regoletta di prima, togliete il «non» e rileggete: le parole di Cuperlo danno forma a un’inquietudine inedita,  che cioè il Pd possa effettivamente avviarsi ad essere un partito senza più una traccia riconoscibile di sinistra. Il che sarebbe peraltro un paradosso, anzi il compimento del paradosso italiano (dopo l’anomalia berlusconiana, sulla destra dello schieramento): la costruzione di un bipolarismo che non si avvicini, ma anzi si allontani il più possibile dalla modalità del confronto politico europeo, che vede di regola confrontarsi partiti socialisti e partiti popolari. Eppure, dentro il corpo del partito democratico una pulsione del genere si avverte. E, come nel caso dell’ambizione di Renzi, così anche in questo caso di mezzo, volente o nolente, c’è il governo: chi infatti, soprattutto tra gli ex-margheritini del Pd, coltiva il desiderio di sbarazzarsi definitivamente di quel che resta della sinistra italiana, fa il tifo per un confronto Letta-Renzi per la leadership del partito che difficilmente lascerebbe immutato il quadro politico attuale.

Accanto alle due principali linee di frattura – quella che passa intorno alla selezione della leadership e quella che investe la cultura politica del partito democratico – altre microfratture rendono complicato lo spostamento delle pedine sullo scacchiere del Pd. A cominciare dall’araba fenice della riforma elettorale: che si faccia ognun lo dice, come far nessun lo sa. Ma è chiaro che, in qualunque direzione si vada, per semplici ritocchi o per organiche revisioni dell’attuale porcellum, una nuova legge elettorale disegnerà un nuovo scenario politico.

E non finisce qui. Perché nel Pd c’è ancora chi, nonostante il deludente esito elettorale (e la pessima figura nell’elezione del presidente della Repubblica), non vuol saltare un giro, e anzi volentieri ripeterebbe la partita di febbraio. E c’è chi, invece, vuole lanciare due volte i dadi: per prendersi in un colpo solo il partito ed il governo. Anche queste diverse ambizioni difficilmente saranno contenute entro gli attuali equilibri.

Per cui, da qualunque parte si guardi l’avvicinarsi del congresso democratico, non si può non registrare l’accumularsi di tensioni, e il governo come un muro di contenimento solcato da piccole crepe che minacciano di allargarsi. Forse, se la situazione non precipita, è perché nessuno ha ancora il coraggio, forza o anche solo la visione di quel che potrà esserci oltre quel muro.

(Il Mattino, 20 agosto 2013)

Moreno spiazza la festa Pd. Encomio del rapper

ImmaginePuò il figlio di una commessa e di un venditore ambulante salire sul palco della festa dell’Unità, chiuderla addirittura, il prossimo 7 settembre? Può uno che faceva il parrucchiere per raggranellare qualche soldo partecipare alla festa del partito democratico, chiuderla addirittura, con un concerto nella sua città, Genova? Sì, se le sue note caratteristiche finiscono qua. No, se ad esse si aggiunga la trionfale partecipazione all’ultima edizione di Amici, che ha consacrato Moreno Donadoni, in arte Moreno, tra i più seguiti cantanti dell’anno. Certo, è un rapper. Ma in attesa che un nuovo Pasolini metta sotto la storia di un pappone di borgata il coro finale de La passione secondo Matteo di Johann Sebastian Bach – o più semplicemente in attesa di un nuovo Bach – forse non si fa peccato se si ascoltano anche i campionamenti, i ritmi e gli scioglilingua che spopolano oggi in radio e in Rete. 

(L’Unità, 18 agosto 2013)

La filosofia dell’ombrellone

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A Ferragosto è facile strappare un consenso generale intorno a questa proposizione: sotto il sole agostano, l’ombrellone è un bisogno naturale. Chi volete infatti che resista senza un po’ d’ombra? In realtà, nulla è meno ovvio. Qualcuno per esempio potrebbe accontentarsi di un cappellino. Più in generale, si potrebbe contestare che sia naturale l’esposizione prolungata al sole e lungo le spiagge. Il bisogno dell’ombrellone insorgerebbe allora in una condizione non naturale ma storicamente determinata, quella del turismo di massa tipica del secondo Novecento. «L’ombrellone» di Dino Risi, girato nel ’65 sulla riviera romagnola, con l’ingegnere in vacanza fra bellimbusti e altri tipi da spiaggia, costituirebbe il documento inoppugnabile di una ben precisa epoca storica, che con la crisi di questi anni si mostra purtroppo assai lontana. Meno ombrelloni, meno lettini, meno bagnini. Esattamente 50 anni dopo, nel 2005, ma senza intenzioni celebrative, il leader dell’Unione e futuro vincitore delle elezioni (lontani pure quei tempi), Romano Prodi, ebbe a dire che si augurava un Paese con meno yacht e più ombrelloni, non sospettando evidentemente che di lì a poco sarebbe venuto meno il principio stesso della scelta: non meno di una cosa e più dell’altra, ma, purtroppo, meno di entrambe.

(L’Unità, 15 agosto 2013)

I miei figli e il dramma. «Oggi si resta a riva»

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Com’è difficile spiegare a una nidiata di marmocchi, che no, non è il momento di fare il bagno. Il mare è agitato. – Ma lo era anche ieri, papà! -. Scalpitano. Hanno camminato sotto il sole e tra i sassi per raggiungere quel tratto di mare dove il fondo marino è sabbioso e ora vogliono tuffarsi tra i cavalloni. Ma non sono solo le onde del mare. Sulla spiaggia c’è più assembramento del solito. C’è il camion che reca l’insegna di un’importante radio nazionale, in giro per l’Italia con le sue trasmissioni e da qualche giorno fermo sulla spiaggia delle Saline, a Palinuro. Ma ieri c’era anche la musica, l’acqua-gym, le risate dei conduttori; oggi, no. Ci sono gli stand degli sponsor; c’è la fila dove distribuiscono gratis lattine personalizzate (“condividi la tua bibita con…”). Ma ieri c’erano voci e scherzi nell’aria; oggi, niente del genere. Oggi c’è un uomo steso sulla riva: bianco in volto, le labbra livide. Piegato su di lui, un uomo grande e grosso, un medico, gli preme con forza il petto. Per diversi minuti. Una striscia di plastica legata a un paio di ombrelloni tiene lontani i curiosi, che sono tanti. Tutt’intorno c’è un’agitazione trattenuta. Qualcuno si copre il viso con le mani, qualcun altro si allontana sconsolato- – Cosa è successo, papà? Perché non ci facciamo il bagno? –. Oggi non facciamo il bagno perché un uomo coraggioso si è gettato in acqua per salvare due ragazzi, ed è annegato. – È morto? –. No. Non lo so. Non ancora. So che stanno tentando di salvarlo. Hanno chiamato i soccorsi: più tardi arriverà il motoscafo della Guardia Costiera, il 118, l’elicottero. Non ce la faranno. Ma noi non lo sappiamo. Siamo sulla spiaggia, mischiati tra la folla, con i bambini che fremono, scappano verso il mare, non vogliono aspettare. – Vedi, papà: lui si fa il bagno! Non è pericoloso! Ieri il mare era grosso come oggi! -.  In acqua, poco prima del punto in cui le onde si rifrangono sulla riva, c’è un bambino coi braccioli azzurri: avrà otto o nove anni. Il padre lo tiene d’occhio a distanza. Ogni tanto lo invita a riavvicinarsi. La madre è sul lettino con un bimbo più piccolo. Mentre lì a fianco, a pochi metri, un uomo coraggioso è aggrappato alla vita con un filo sottilissimo, che si spezzerà, e la musica tace, e le voci si abbassano, e sui volti dei soccorritori si dipinge la paura e lo sgomento di non farcela, il bambino coi braccioli azzurri, lui solo, continua a giocare tra le onde e gli spruzzi del mare. Finché qualche bagnante non comincia a gridare all’indirizzo del padre: – Incosciente! Fallo uscire! Non vedi che è successo? –. Allora la madre si alza, dà una voce al marito che finalmente richiama il figlio dall’acqua. Non so se o quanto fosse incosciente: forse il mare non era così agitato. Non più di ieri, almeno. Forse le correnti non sono così forti. Non più di ieri, almeno. Gli stabilimenti hanno esposto la bandiera rossa, è vero, ma se sposti lo sguardo poche decine di metri più in là ci sono giovani che si tuffano, altri che giocano a pallone, altri ancora che sfidano le onde andando persino un po’ più a largo. Scene ordinarie, piccole deroghe alla prudenza richiesta. Però qui c’è steso sulla sabbia un uomo coraggioso, che è entrato in mare per aiutare due ragazzi ed è stato male, forse ha avuto un malore, ha bevuto, è stato travolto dalle onde. Intorno lottano per tenerlo in vita: gli praticano il massaggio cardiaco, gli sollevano le gambe, sperano e pregano che arrivi presto il defibrillatore. Perciò non possiamo e non dobbiamo fare il bagno. Dobbiamo sperare e pregare anche noi. E se anche nella tua mente corre come una nuvola scura il pensiero che tu non puoi farci niente, che tanto non cambia niente, che ormai non c’è nulla da fare, non mettere il broncio: sappi che gli uomini non sono indifferenti come il mare, ignari come il mare, dimentichi come il mare, che continua a gonfiarsi e a rovesciarsi sulla spiaggia come se non avesse strappato una vita ai suoi cari, a una moglie incinta e un bambino piccolo. Che hanno portato via, perché non vedessero, perché non sapessero. Non ancora. Non subito. Bisogna aver pietà: non di quest’uomo o di questa donna, ma di tutti gli uomini e di tutte le donne e di noi stessi.

In cielo si disegna la sagoma chiara dell’elicottero, che infine è arrivato. Agita gli alberi lungo la costa e i pennoni degli sponsor che delimitano lo spazio di una tragedia improvvisa, inattesa e sommamente ingiusta. Atterra quasi sulla riva, sollevando mucchi di polvere e sabbia. Ripartirà vuoto. L’uomo coraggioso volerà in cielo da solo. Noi torneremo a piedi sotto il nostro ombrellone senza aver giocato con le onde, e con la piccola speranza che quell’uomo coraggioso abbia legato il suo nome non solo al salvataggio di una vita umana, ma anche ad una piccola lezione a sette o otto marmocchi sul valore della vita, e sul rispetto e sul silenzio che, a volte, deve custodirla.

(Il Mattino, 12 agosto 2012)

Chi parlava di agibilità politica

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Quando, nel 2008, Francesco Caruso parlò, sul Corriere della Sera, di «spazi di agibilità politica» che andavano chiudendosi fu facile pensare che, con la sua uscita, l’ex parlamentare di Rifondazione comunista cercava malamente di mimare il linguaggio degli anni Settanta, quando in Italia il problema dell’agibilità politica veniva sollevato da gruppi e formazioni extra-parlamentari che misconoscevano, quando non rifiutavano apertamente, i valori della democrazia liberale. Francesco Caruso usava parole gravi, ma, dopo tutto, fuori tempo massimo: parole che erano appartenute ad un’altra stagione politica, che inutilmente (ma minacciosamente) cercava di richiamare in vita. Ma Caruso proveniva proprio da quel mondo lì, o almeno dalle sue ultime propaggini: dai centri sociali antagonisti. Non faceva dunque troppa meraviglia che per descrivere i propositi di riforma della legge elettorale da parte del centro-destra e i suoi possibili effetti sulla rappresentanza politica di una «soggettività di sinistra», rievocasse cupamente il clima degli anni di piombo, le frange della contestazione più violenta al sistema imperniato sui due grandi partiti della prima Repubblica, la Dc e il Pci. E parlasse, per questo, di «diffidenza, odio e aggressività politica» fomentata dalle forze di maggioranza, e poi di quei famosi «spazi di agibilità politica» negati a una generazione che si sarebbe perciò data prima alla «illegalità diffusa» e poi, purtroppo, alla lotta armata.

(L’Unità, 11 agosto 2013)

Razzismo: il calcio squalifica, la politica no

Immagine«Quando vedo l’immagine di Caleb Ansah Ekuban non posso non pensare alle sembianze di un orango»: purtroppo le immagini non consentono di leggere il labiale, e quindi non sappiamo se davvero il giocatore del Matera Gaetano Iannini, nel corso dell’incontro che opponeva la formazione lucana alla squadra del Sudtirol, abbia davvero pronunciato quelle parole. Sta di fatto che il referto dell’arbitro, sulla base del quale Iannini è stato condannato a dieci giornate di squalifica, parla di «epiteto insultante espressivo di discriminazione razziale». Com’è noto, secondo il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli, se le parole di Iannini fossero quelle che abbiamo ipotizzato, non costituirebbero offesa: lui infatti le ha già impiegate all’indirizzo del ministro dell’integrazione Cécile Kyenge, e nessun giudice, sportivo o no, si è permesso, al momento, di comminargli alcuna sanzione. Iannini salterà dieci incontri di calcio di fila, Calderoli invece non salterà nessuna seduta parlamentare. Poi dice che non ci vuole la riforma della giustizia.

Naturalmente, è possibile che Iannini non abbia avuto la squisita delicatezza di Calderoli, che da navigato politico ha saputo impiegare le giuste sfumature: un conto è parlare infatti di mere sembianze, un altro è scavalcarle in direzione della figura intera; un conto è dire papale papale che Tizio sembra un orango, un altro è affermare che il proprio pensiero corre irresistibilmente a raffigurarsi l’animale, magari persino contro la propria volontà. Sono differenze importanti, che, però, nella concitazione di una partita, in pieno furore agonistico, dopo che un giocatore di origine ghanese ti ha pure segnato un gol, non riesci a fare. Iannini ha così già pronta una robusta linea difensiva. Si scriva il ricorso! Se a ciò si aggiunge che non deve essere parso vero a un giocatore di origini napoletane di recarsi lassù, nel Sudtirolo, per imbattersi in qualcuno palesemente più meridionale di lui, si comprenderà bene come i dirigenti del Matera Calcio potranno facilmente accampare attenuanti di ogni tipo.

E in effetti hanno già provato a farlo: se il giocatore ha sbagliato pagherà, siamo pronti anzi a infliggergli una multa, come si fa in questi casi, però l’applicazione della nuova normativa è stata troppo severa, dieci giornate sono troppe, si tratta in fondo solo del primo caso da quando è entrata in vigore e i giocatori non sono ancora abituati a non usare espressioni di odio razziale, e così via. Nessuno ha ancora impiegato l’esimente Calderoli, ed è un peccato. Funzionerebbe così: possibile che Calderoli può insultare un ministro e cavarsela con qualche impacciata scusa telefonica e un giocatore di calcio di una serie minore, giunto ormai sulla soglia dei trent’anni, non può, in pieno «eretismo podistico» e sotto il sole di agosto, lasciarsi scappare una parolina di troppo? Quale delle due vicende vi sembra più grave?

In verità, non crediate, la risposta giusta è: sono gravi tutte e due. L’una non è meno grave dell’altra. Avere trent’anni o averne il doppio, essere giocatori o essere senatori (addirittura!) non cambia di una virgola la gravità del caso. Non so se lo si possa dire a maggior gloria dello sport o a maggior vergogna del Parlamento, per apprezzare in un caso l’applicazione della pena e nell’altro l’inosservanza di un minimo di decoro civile da parte di un suo membro autorevole, ma sta il fatto che l’inaccettabilità dell’insulto a sfondo razziale è e resta la medesima. E non ci si può fare l’abitudine, non si può graduare l’indignazione, perché troppi sono gli episodi, e troppo esteso ancora il pregiudizio discriminatorio. I cori razzisti si odono sia sui campi di periferia che nelle sfide di cartello tra grandi squadre, e le offese a sfondo razziale sporcano tanto la politica nazionale quanto quella locale. Ci si illude che i processi di civilizzazione, che l’educazione, che la legislazione, che la politica democratica depositino più di uno strato sottile sopra le passioni, gli usi e i costumi degli uomini, ma capita troppo spesso che quello strato si riveli invece soltanto una pellicola superficiale, e che sempre di nuovo si debba provare a ricostruirla. Per questo, in tempi in cui ci si vuole far dubitare che vi sia un giudice a Berlino, che ci sia un giudice almeno nella Federazione Gioco Calcio è una buona notizia. E un punto di partenza.

(Il Mattino, 8 agosto 2013)

È più crudele violare il diritto

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“La clemenza dunque, quella virtù che è stata talvolta per un sovrano il supplemento di tutti i doveri del trono, dovrebbe essere esclusa in una perfetta legislazione”: ma dove si troverà mai una perfetta legislazione? Per questo, a distanza di più di due secoli dal capolavoro di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, negli ordinamenti giuridici trova ancora posto il diritto del Presidente della Repubblica di concedere la grazia o commutare la pena. Rispetto però ai nuovi fondamenti del diritto penale, posti dal libro di Beccaria, l’istituto della grazia e l’esercizio di un atto di clemenza rimangono un residuo del passato, di un’altra epoca del diritto e di un’altra concezione della legge. Non perché il diritto della moderna civiltà giuridica sia più crudele del diritto pre-moderno. Al contrario: perché lo è meno. Dove infatti regnano l’arbitrio e l’incertezza, lì cresce il timore di essere non sotto l’impero della legge, ma alla mercé di qualcuno. Quanto poi alla funzione della pena, Beccaria spiegava che “il far vedere agli uomini che si possono perdonare i delitti, o che la pena non ne è la necessaria conseguenza, è un fomentare la lusinga dell’impunità, è un far credere che potendosi perdonare, le condanne non perdonate sian piuttosto violenze della forza, che emanazioni della giustizia”. Il principio è chiaro, ed è un principio di giustizia: se le pene possono essere cancellate dopo che sono state comminate, allora è perché s’intende che provenivano non dalla fonte legittima del diritto, ma dall’esercizio discrezionale e violento di un potere.

Pd, dietro i rinvii la strategia del non cambiare

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Il partito democratico, istruzioni per l’uso. Si potrebbe prendere in prestito il titolo del capolavoro di Georges Perec (La vie mode d’emploi), e copiarne anche la struttura, per rappresentare la situazione del Pd alla vigilia di una direzione nazionale crucialissima. In fondo, tolti il preambolo e l’epilogo, il romanzo è diviso in sole sei parti (e novantanove capitoli): più o meno ci siamo. Ma più interessante ancora è che il libro è corredato di una dettagliata «pianta dello stabile»: le infinite microstorie che vi sono trapunte cadono dentro i diversi appartamenti di un unico palazzo, senza peraltro che si abbia mai l’impressione che incrocino davvero la grande storia. Anche il Pd ha finora mancato il suo appuntamento, e qualcosa di fortuito e, insieme, fatale, aspetta ancora di accadere, proprio come nel romanzo. E così, più che le tracce che vi lasciano i suoi abitanti, rischia di rimanere «aere perennius» soltanto l’edificio, e la miriade di oggetti piccoli e grandi, curiosi ed inutili, che con mille, antiquati fili sono legati ad esso.

È il rischio che corre il Pd? Forse. Ma vediamo intanto chi sale e scende per le sue scale.

Anzitutto i proprietari dell’appartamento principale, il segretario Guglielmo Epifani e i bersaniani che, dopo la «non-sconfitta» del leader democratico alle elezioni di febbraio, lo avevano proposto come soluzione-ponte, in vista del congresso del prossimo autunno. Nulla però in Italia è più vicino alla definitività del provvisorio. E così, complice la condanna di Berlusconi, si è cominciata a far strada l’ipotesi che, in caso di elezioni, si potrebbe congelare la situazione attuale: riproponendo Letta alla guida del governo e mantenendo Epifani alla testa del partito. Ufficialmente, nel Pd, fatta eccezione per Civati e pochi altri, son tutti “governisti”, tutti convinti che non c’è alternativa a questo governo, tutti allineati e coperti dietro la determinazione del Presidente Napolitano a difendere la stabilità dell’attuale Esecutivo. In realtà, però, l’attuale dirigenza del Pd potrebbe risparmiarsi la fatica di un congresso assai difficile se la situazione politica precipitasse, o se qualcuno facesse il favore di farla precipitare.

Sulla strada fra lo status quo e lo scossone che cambi la geografia politica del Pd ci sono gli aspiranti segretari, in primis Matteo Renzi e Gianni Cuperlo (poi Pittella e ancora Pippo «Pierino» Civati). Per frustarne le aspirazioni, Epifani ha pensato bene di proporre un percorso congressuale che rinvii il più possibile la presentazione delle candidature nazionali: prima dunque i congressi locali, in cui si discuterà – è da presumere – solo di municipalizzate e isole pedonali, poi, e soltanto poi, le candidature ufficiali alla guida del Pd. Se ne riparlerebbe insomma a novembre, o giù di lì. Le possibilità che questo schema dilatorio vada in porto sono poche: oltre a Cuperlo e Renzi, sono anche altri – Matteo Orfini, ad esempio – a chiedere invece che, visto il momento, la crisi e tutto quanto, si anticipino piuttosto i tempi e si rinunci ai tatticismi esasperati. Sta poi il fatto che lo stesso Letta (e Franceschini con lui) sarebbe assai poco convinto dell’ipotesi di competere per la futura candidatura alla premiership, in caso di elezioni: lui al governo c’è già, perché mai dovrebbe rimetterlo in palio, andando a sbattere (presumibilmente) contro Renzi?

Nell’appartamento di quest’ultimo, intanto, si sta stretti e si pensa già di traslocare altrove: al governo, se appunto Letta dovesse cadere, o a Sant’Andrea delle Fratte, se non dovesse liberarsi subito la casella di Palazzo Chigi. Nell’uno e nell’altro caso, conta per lui fare in fretta. Anche il sindaco di Firenze si è imposto infatti una linea ufficialmente governista, ma è evidente che ha tutto l’interesse a interpretare ancora – come già lo scorso anno con la «rottamazione» – il ruolo quasi sfrontato di chi apre una fase nuova, per il Pd e per il Paese: non può rimanere indefinitamente sulla soglia, perché alla fine la porta potrebbe chiudersi anche per lui, senza che l’abbia mai veramente varcata. E di sicuro, fra le due strade: quella che porta diritti al portone di Palazzo Chigi (Marina Berlusconi o chi altri per lei permettendo) e quella che fa tappa invece presso la sede del Pd, potendo scegliere Renzi sceglierebbe la prima. E così, anche nelle file dei suoi avversari, cresce la voglia di lasciargli via libera, pur di tenerlo lontano dal partito.

L’ultimo appartamento che conviene tenere d’occhio è quello di Gianni Cuperlo. Ce ne sono altri, naturalmente: il loft semi-sfitto dei veltroniani, in procinto di trasferirsi chez Renzi, o quello dei bindiani residui, che giurano e spergiurano di non aver alcuna intenzione di lasciare vuoto il loro piccolo bilocale. In ogni caso, non è con i loro millesimi che si forma la maggioranza del condominio. Cuperlo si è candidato avendo invece l’ambizione di coagularla, il che ha voluto dire: distinzione fra segretario di partito e candidato alla premiership (cosa che spiace ai renziani), ma primarie aperte (cosa che spiace ai bersaniani). Mettendosi così a mezzo tra bersaniani e renziani, ma anche tra il vecchio patto di sindacato (che con D’Alema lo sostiene) e le spinte di una nuova generazione, quella dei giovani turchi di Rifare l’Italia. Per ora, però, Cuperlo non si trova a metà rispetto ad un altro spartiacque che ancora attraversa il Pd: quello fra ex-Ds e ex-Margherita. Troppo gauchiste, secondo questi ultimi, che evidentemente non riconoscono Renzi come “loro” e perciò non accettano l’idea di equilibrio che Cuperlo porterebbe con sé, lasciando aperta a Renzi o ancora a Letta la strada per il governo.

Ecco: La vie mode d’emploi, novantanovesimo e ultimo capitolo. Esergo: «io cerco in una volta l’eterno e l’effimero». Magari, viene da dire. Nello stabile del Pd, nella discussione di questi giorni, dell’effimero c’è ampia traccia. Dell’eterno, o almeno di qualcosa che duri oltre le prossime scadenze politiche e i posizionamenti relativi, per il momento non ancora. Non molto, almeno.

(Il Mattino, 6 agosto 2013)

Il sistema politico italiano davanti a un bivio

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Proviamo a ragionare in via ipotetica, anzi: a formulare addirittura ipotesi del terzo tipo, quello dell’irrealtà, degli asini che volano o delle nonne con le ruote. Certo, una sentenza definitiva, passata in giudicato, coi bolli della Suprema Corte, non si risolve facilmente in una nuvola di «se»: va anzi senz’altro rispettata, eseguita e applicata, come ha dichiarato Epifani. E la via maestra resta sempre il rispetto delle decisioni della magistratura, come si legge nel comunicato del Quirinale e com’è nella ordinata fisiologia di un sistema costituzionale, liberale e democratico. Ma l’argomento ex hypothesi non è interdetto neppure dal pronunciamento della Cassazione: non rende ineseguibile la sentenza, non risparmia al Cavaliere nemmeno un grammo di pena, ma aiuta, forse, a capire. È il luogo in cui si esercita l’immaginazione politica, e, se le cose funzionano, si prepara pure un futuro possibile. Se invece non funzionano si sarà almeno evitato di spandere dappertutto il senno di poi, e ci si sarà attenuti al più stimolante, oltre che onesto intellettualmente, senno di prima: di prima che certi fatti accadessero, precipitando il Paese nel difficilissimo momento attuale.

(L’Unità, 3 agosto 2013)

Il Paese nella trappola della diretta televisiva

ImmagineDopo aver fatto per secoli da messaggeri, avere annunciato Dio agli uomini, e aver coadiuvato gli uomini nel loro sforzo di risalire a Dio, gli angeli hanno rinunciato al loro ufficio. Più nessuna apparizione fiammeggiante, più nessuna manifestazione splendente. Ormai essi vagano anonimi e non visti tra gli uomini, ne ascoltano i pensieri, passano loro accanto e attendono. Attendono per un tempo indefinito.

Così almeno li ritraeva Wim Wenders nel film «Il cielo sopra Berlino», e così deve essere andata ieri, ed anche ieri l’altro, e l’altro ieri ancora (e in verità chissà da quanto tempo), quando tutto il paese s’è fermato in attesa della sentenza della Cassazione su Silvio Berlusconi. Sotto lo sguardo di questi angeli disincantati, privi di ogni aureola, tutto si è svolto in slow motion. Certo, nel film del regista tedesco Damiel e Cassiel, i due angeli percorrono gli spazi vasti di una città, mentre ieri avrebbero potuto sistemarsi più comodamente su una poltrona, mettersi a fianco di uno spettatore e da lì seguire lo speciale, vagonate di ore di diretta televisive, cornucopie piene zeppe di interviste agli ospiti di turno. Poi le prime reazioni, i commenti, il profluvio di dichiarazioni. Tutto però avviene in uno stato di sospensione surreale. Come in un acquario: alcuni pesci nuotano pigramente, altri si acquattano sul fondo, altri ancora cambiano improvvisamente direzione, ma sempre nel riflesso torpido di una  vasca piena d’acqua. Che rallenta tutti i riflessi, attutisce i suoni, allunga i tempi. Ritarda, sospende, differisce: queste dirette sono fatte apposta, in realtà, per proseguire indefinitamente.

Ora, può ben darsi che la sentenza precipiti il Paese verso una crisi, oppure verso nuove elezioni: ma intanto, almeno ieri, non s’è avvertita nell’aria nessuna particolare precipitazione. Non il senso di una tragedia incombente, non quello di una finale liberazione. Piuttosto, l’ennesimo episodio di una serie televisiva che va avanti ormai da anni, e che si continua a seguire non perché appassioni davvero, ma perché si è ormai fatta l’abitudine ai personaggi, alla storia, agli intrecci. Si è messo un punto fermo, però: c’è stata una sentenza definitiva. Certo, ma dal punto di vista di gran lunga dominante, quello della grammatica televisiva che ha dettato e imposto l’attenzione all’evento, è difficile affermare che si è celebrata davvero la fine di alcunché. E già il rinvio in appello per la determinazione delle pene accessorie offre almeno la possibilità di un sequel.

Questa difformità fra, da una parte, i contorni reali della vicenda giudiziaria (e le sue conseguenze politiche) e, dall’altra, la sua slabbrata ma ovunque e comunque imperante confezione televisiva descrive forse meglio di ogni altra cosa in quale stallo si trovi il nostro Paese, da un bel po’ di tempo in qua. Tra senso di impellenza per riforme ineludibile che vengono sistematicamente eluse, e senso di responsabilità con il quale invece si frena ogni passo, al quale il Paese non sembra mai veramente preparato.

Prima o poi è da credere che qualcosa passerà anche attraverso le maglie di una simile attenzione: massiccia e diffusa, ma anche distratta e vagamente ipnotica. In attesa però del brusco risveglio, lo speciale di sicuro continua. Anche a costo di mandare in onda, nell’attesa, com’è successo ieri, l’inquadratura delle porte chiuse della camera di consiglio. Ma si noti bene: con l’ausilio di immagini di repertorio, perché tanto le porte chiuse quelle sono, e riempiono altrettanto bene lo schermo sia che si tratti del verdetto sul Cavaliere che di qualunque altro verdetto. Sembra comunque una faccenda degna del contrappasso dantesco: il signore delle televisioni condannato ad aspettare in tv, insieme a tutti gli italiani, la lettura della sentenza. Che fosse quella la vera condanna?

Nel film di Wenders gli angeli decidono infine di abbandonare la loro esistenza puramente spirituale, prendono un corpo, e sperimentano finalmente le asprezze e le passioni della vita terrena. Orbene, questo, c’entri o no la sentenza di colpevolezza, ma di percorrere un tratto ruvido  di vita reale fuori dalla rappresentazione distante e puramente spettatoriale osservata finora, e con un senso nuovo dell’urgenza e dell’azione, sia detto francamente: non possiamo mica lasciare che accada solo a Berlino, sotto il suo cielo. Almeno questo: no.

(Il Mattino, 2 agosto 2013)