
Il partito democratico, istruzioni per l’uso. Si potrebbe prendere in prestito il titolo del capolavoro di Georges Perec (La vie mode d’emploi), e copiarne anche la struttura, per rappresentare la situazione del Pd alla vigilia di una direzione nazionale crucialissima. In fondo, tolti il preambolo e l’epilogo, il romanzo è diviso in sole sei parti (e novantanove capitoli): più o meno ci siamo. Ma più interessante ancora è che il libro è corredato di una dettagliata «pianta dello stabile»: le infinite microstorie che vi sono trapunte cadono dentro i diversi appartamenti di un unico palazzo, senza peraltro che si abbia mai l’impressione che incrocino davvero la grande storia. Anche il Pd ha finora mancato il suo appuntamento, e qualcosa di fortuito e, insieme, fatale, aspetta ancora di accadere, proprio come nel romanzo. E così, più che le tracce che vi lasciano i suoi abitanti, rischia di rimanere «aere perennius» soltanto l’edificio, e la miriade di oggetti piccoli e grandi, curiosi ed inutili, che con mille, antiquati fili sono legati ad esso.
È il rischio che corre il Pd? Forse. Ma vediamo intanto chi sale e scende per le sue scale.
Anzitutto i proprietari dell’appartamento principale, il segretario Guglielmo Epifani e i bersaniani che, dopo la «non-sconfitta» del leader democratico alle elezioni di febbraio, lo avevano proposto come soluzione-ponte, in vista del congresso del prossimo autunno. Nulla però in Italia è più vicino alla definitività del provvisorio. E così, complice la condanna di Berlusconi, si è cominciata a far strada l’ipotesi che, in caso di elezioni, si potrebbe congelare la situazione attuale: riproponendo Letta alla guida del governo e mantenendo Epifani alla testa del partito. Ufficialmente, nel Pd, fatta eccezione per Civati e pochi altri, son tutti “governisti”, tutti convinti che non c’è alternativa a questo governo, tutti allineati e coperti dietro la determinazione del Presidente Napolitano a difendere la stabilità dell’attuale Esecutivo. In realtà, però, l’attuale dirigenza del Pd potrebbe risparmiarsi la fatica di un congresso assai difficile se la situazione politica precipitasse, o se qualcuno facesse il favore di farla precipitare.
Sulla strada fra lo status quo e lo scossone che cambi la geografia politica del Pd ci sono gli aspiranti segretari, in primis Matteo Renzi e Gianni Cuperlo (poi Pittella e ancora Pippo «Pierino» Civati). Per frustarne le aspirazioni, Epifani ha pensato bene di proporre un percorso congressuale che rinvii il più possibile la presentazione delle candidature nazionali: prima dunque i congressi locali, in cui si discuterà – è da presumere – solo di municipalizzate e isole pedonali, poi, e soltanto poi, le candidature ufficiali alla guida del Pd. Se ne riparlerebbe insomma a novembre, o giù di lì. Le possibilità che questo schema dilatorio vada in porto sono poche: oltre a Cuperlo e Renzi, sono anche altri – Matteo Orfini, ad esempio – a chiedere invece che, visto il momento, la crisi e tutto quanto, si anticipino piuttosto i tempi e si rinunci ai tatticismi esasperati. Sta poi il fatto che lo stesso Letta (e Franceschini con lui) sarebbe assai poco convinto dell’ipotesi di competere per la futura candidatura alla premiership, in caso di elezioni: lui al governo c’è già, perché mai dovrebbe rimetterlo in palio, andando a sbattere (presumibilmente) contro Renzi?
Nell’appartamento di quest’ultimo, intanto, si sta stretti e si pensa già di traslocare altrove: al governo, se appunto Letta dovesse cadere, o a Sant’Andrea delle Fratte, se non dovesse liberarsi subito la casella di Palazzo Chigi. Nell’uno e nell’altro caso, conta per lui fare in fretta. Anche il sindaco di Firenze si è imposto infatti una linea ufficialmente governista, ma è evidente che ha tutto l’interesse a interpretare ancora – come già lo scorso anno con la «rottamazione» – il ruolo quasi sfrontato di chi apre una fase nuova, per il Pd e per il Paese: non può rimanere indefinitamente sulla soglia, perché alla fine la porta potrebbe chiudersi anche per lui, senza che l’abbia mai veramente varcata. E di sicuro, fra le due strade: quella che porta diritti al portone di Palazzo Chigi (Marina Berlusconi o chi altri per lei permettendo) e quella che fa tappa invece presso la sede del Pd, potendo scegliere Renzi sceglierebbe la prima. E così, anche nelle file dei suoi avversari, cresce la voglia di lasciargli via libera, pur di tenerlo lontano dal partito.
L’ultimo appartamento che conviene tenere d’occhio è quello di Gianni Cuperlo. Ce ne sono altri, naturalmente: il loft semi-sfitto dei veltroniani, in procinto di trasferirsi chez Renzi, o quello dei bindiani residui, che giurano e spergiurano di non aver alcuna intenzione di lasciare vuoto il loro piccolo bilocale. In ogni caso, non è con i loro millesimi che si forma la maggioranza del condominio. Cuperlo si è candidato avendo invece l’ambizione di coagularla, il che ha voluto dire: distinzione fra segretario di partito e candidato alla premiership (cosa che spiace ai renziani), ma primarie aperte (cosa che spiace ai bersaniani). Mettendosi così a mezzo tra bersaniani e renziani, ma anche tra il vecchio patto di sindacato (che con D’Alema lo sostiene) e le spinte di una nuova generazione, quella dei giovani turchi di Rifare l’Italia. Per ora, però, Cuperlo non si trova a metà rispetto ad un altro spartiacque che ancora attraversa il Pd: quello fra ex-Ds e ex-Margherita. Troppo gauchiste, secondo questi ultimi, che evidentemente non riconoscono Renzi come “loro” e perciò non accettano l’idea di equilibrio che Cuperlo porterebbe con sé, lasciando aperta a Renzi o ancora a Letta la strada per il governo.
Ecco: La vie mode d’emploi, novantanovesimo e ultimo capitolo. Esergo: «io cerco in una volta l’eterno e l’effimero». Magari, viene da dire. Nello stabile del Pd, nella discussione di questi giorni, dell’effimero c’è ampia traccia. Dell’eterno, o almeno di qualcosa che duri oltre le prossime scadenze politiche e i posizionamenti relativi, per il momento non ancora. Non molto, almeno.
(Il Mattino, 6 agosto 2013)