Archivi del mese: settembre 2013

Barilla, i gay e i maestri dell’indignazione

ImageÈ evidente che nella pubblicità della Barilla c’è una scelta – chiamiamolo pure un pregiudizio – a favore della famiglia tradizionale. Anzi, tutto è talmente tradizionale che persino le galline sono galline di buona famiglia, e il mugnaio è un giovanotto di saldi principi e con la testa sicuramente a posto. «Dove c’è Barilla c’è casa», recitano gli spot dell’azienda, che vanno avanti descrivendo case che, se mai sono esistite in natura, ormai esistono solo negli spot. Quelli che volessero rivivere le passioni e i furori ideologici degli anni Settanta potrebbero allora tirar fuori, per l’occasione, le geniali analisi del principe di tutti i semiologi, Roland Barthes, uno per il quale anche la lingua – la lingua come tale, pensate un po’  – è fascista. E lì la partita con Barilla sarebbe chiusa, ancor prima di arrivare alle dichiarazioni dell’altro giorno, quelle sugli omosessuali che non compariranno mai dalle parti del mulino bianco (e vorrei pure vedere!).

Dopodiché però un’occhiata preoccupata a come monta l’indignazione e la gogna mediatica bisognerà pur darla. Perché Guido Barilla ha solo reso evidente con le sue parole quello che era già sotto gli occhi di tutti, con i suoi spot, ma che tuttavia non aveva mai scatenato una così impetuosa mobilitazione. Ha detto che lui personalmente è contrario alle adozioni ma favorevole ai matrimoni gay, la qual cosa lo colloca peraltro alla sinistra di molti suoi critici, ma che tuttavia nella pubblicità della sua pasta, tutta informata ai valori della tradizione, gli omosessuali non li vuole. Lo scandalo dove sta? Forse nel fatto che Barilla ha reso esplicito che l’omosessualità dichiarata non va d’accordo con i valori della famiglia tradizionale, con una società la cui immagine idealizzata è rappresentata in base alle tradizionalissime e molto conservatrici connotazioni di genuinità, autenticità, purezza? Ma non era tutto così ovvio fin dalla prima comparsa dei gialli campi di grano e del mulino Barilla?

Evidentemente no. Oppure sì, e però quando l’ovvietà  non ti limiti a viverla, ma ci sbatti contro, le cose cambiano. Arrivano i guerrieri del nuovo millennio, le tribù degli hashtag che ti marchiano a fuoco, imprimendo sul tuo nome virtuale un cancelletto che ti espone in rete allo sberleffo, alla derisione, all’insulto, alla riprovazione universale. Quello che è più inquietante, in verità, è proprio l’universalità della riprovazione. Dopo tutto, Barilla è un soggetto privato che decide in autonomia le proprie campagne commerciali, e individua, d’accordo con l’ufficio marketing, i propri target, senza ledere il diritto di nessuno (altrimenti tutti i separati e divorziati d’Italia dovrebbero già sentirsi discriminati da ogni suo spot).

Ora, è chiaro che ci sono sensibilità nei confronti della società che anche i soggetti privati sono chiamati a rispettare: un liberalismo tutto fondato solo ed esclusivamente sui diritti individuali non basta a rimuovere gli ostacoli della discriminazione, che è la formula cardinale stabilita dalla nostra Costituzione. Però non si può nemmeno giungere al punto di imporre al povero Barilla lo spot riparatorio sull’integrazione, come ha proposto Dario Fo, con evidente eccesso di zelo. Né si può pretendere che per ogni pubblicità imperniata su una famiglia di soli bianchi ve ne sia una di colore. Barilla, d’altra parte, non ha mica detto che nelle sue fabbriche non entrano gli omosessuali, o che nei suoi spot non possono recitare attori omosessuali. Eppure la reazione è stata così compatta, la ripulsa così unanime, da far venire qualche dubbio sugli spazi di dissenso che si possono coltivare, soprattutto in rete, e sulla tolleranza che viene riservata alle opinioni diverse. Le quali opinioni diverse sono davvero tali quando danno fastidio, quando urtano l’altrui sensibilità, e non se sono semplici varianti del medesimo pensiero dominante. Bisogna che ciascuno possa coltivare anche i propri pregiudizi, se e finché non hanno conseguenze discriminatorie nei confronti di nessuno, come mi pare che sia questa volta il caso. E invece si gonfiano impetuose campagne che sommergono il malcapitato sotto montagne di sarcasmo, e gettano nella polvere questa volta la reputazione di un marchio, ma altre volte quella di un uomo. Non sono sicuro che questo sia un progresso.

E a proposito: ci sarebbe da dire qualcosa pure su un’opinione pubblica laica, progressista, di sinistra, che ha le antenne sensibilissime quando si tratta della pubblicità della pasta, e fa benissimo, ma non è altrettanto preoccupata e non si indigna con pari furore per cose tipo il prezzo della pasta. Ma questa, si sa, è ormai un’altra storia. Purtroppo.

(Il Mattino e Il Messaggero, 28 settembre 2013)

Un sistema politico da imitare

ImmagineAngela Merkel stravince col 42% circa, conquista il suo terzo mandato di cancelliera ma si ferma a un passo dalla maggioranza assoluta. I suoi alleati di governo, i liberali della FDP, sono sotto la soglia di sbarramento del 5%, e il loro capolista, Rainer Bruederle, ha già ammesso che si tratta della peggiore giornata della loro storia: per la prima volta resteranno fuori dal parlamento. Se questi risultati saranno confermati e la divisione dei seggi lascerà l’Unione di CDU-CSU, guidata dalla Merkel, un filo sotto l’autosufficienza, l’ipotesi di una Grosse Koalition con i socialdemocratici di Peer Steinbrück, fermi intorno al 26%, diviene la più realistica.

Nel Bundestag entreranno solo quattro forze. Non restano fuori solo i liberali, ma anche la nuova formazione politica di Alternative für Deutschland, contraria all’euro, e i Piraten, quelli che suscitano le simpatie dei nostri grillini. Nel panorama politico tedesco, oltre ai due maggiori partiti, c’è posto solo per la Linke. La sinistra più radicale, e per i Verdi. Ma l’unico governo possibile, se la Merkel non potrà fare da sola, nascerà in Parlamento, da un accordo con l’SPD.

E a questo punto viene il dubbio che invece di invidiare il sistema economico tedesco sarebbe il caso di invidiare anzitutto il sistema politico. Intanto, le larghe intese che dovessero profilarsi non si chiameranno né «inciucio» né «strana maggioranza». Neppure è da presumere che la Merkel, quando dovesse annunciarle, si lamenterà dicendo che non si tratta del governo che voleva. Quanto poi all’SPD, ha impiegato 42 minuti per ammettere la sconfitta: tanti sono occorsi al loro leader, Steinbrück, per andare davanti alle telecamere e fare i suoi auguri alla Cancelliera, quando le proporzioni della vittoria della CDU erano già chiare, ma non la formula politica che governerà la Germania. Bersani impiegò due giorni per raccapezzarsi dopo il voto.

Ma non sono i comportamenti che colpiscono, quanto piuttosto la nuda eloquenza dei dati e la linearità del sistema. Che non è sottoposto a continue quanto inconcludenti pulsioni riformistiche. I tedeschi hanno un sistema parlamentare, e non fa dunque meraviglia che la Merkel trovi in Parlamento e nella trattativa con altri partiti il modo per formare la maggioranza. In Italia abbiamo un sistema parlamentare di cui ci vergogniamo, che fingiamo di riformare con operazioni di make-up tipo il nome del candidato premier sulle schede , e di cui quindi erodiamo la base di legittimazione senza essere in grado di cambiarlo effettivamente. La legge elettorale tedesca semplifica la rappresentazione politica, per via della soglia di sbarramento, ma non regala automaticamente la governabilità. In Italia invece inventiamo automatismi di segno opposto, che con una mano regalano premi di maggioranza spropositati, alla Camera, mentre con l’altra mano assicurano piuttosto l’ingovernabilità, distribuendo al Senato il premio su base regionale.

Poi c’è la questione del leader. Ebbene, è evidente quanto profondamente i sistemi politici moderni siano sempre più segnati, se non addirittura plasmati, dalla forza dei leader. Ma il leader non è necessariamente il meglio figo del bigoncio. È invece chi trasmette chiarezza di visione, chi garantisce affidabilità, chi, infine, può vantare concretezza di risultati. La vincitrice delle elezioni tedesche non sembra avere nessun particolare appeal mediatico, non gode di un’immagine particolarmente accattivante e, per dirla in una sola parola, non è cool. Eppure non si limita a vincere: domina. E domina perché l’economia in Germania va meglio che altrove e perché il Paese ha un ruolo sempre più decisivo nelle dinamiche europee. Dopodiché non è tutto oro quel che luccica: il successo tedesco è il successo di un modello orientato all’export e all’avanzo commerciale verso i Paesi vicini; l’austerità imposta dai tedeschi all’Europa tiene alti i tassi di disoccupazione e l’euro stenta ad essere davvero la moneta dell’Unione, visto che il servizio del debito nazionale non viene percepito ancora come un problema politico di dimensione europea e non di pertinenza dei singoli Stati. Se la Merkel si alleerà con l’SPD, è da credere che, anche solo per la forza dei numeri, continuerà a prevalere la linea rigorista e le critiche socialdemocratiche si ridurranno a sfumature, più che imporre vere e proprie correzioni. Non possiamo farci molte illusioni al riguardo. O forse sarà la crisi stessa dell’euro-zona, che non è affatto ad imporre.

(Il Mattino, 23 settembre 2013)

Il liberalismo e l’eterna incompiuta

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Il fatto è che i tempi verbali sono cambiati. Là dove c’era un indicativo presente stavolta c’è, inevitabilmente, un tempo passato. Quando il Cavaliere ha ricordato, nel messaggio di ieri, la sua discesa in campo («L’Italia è il paese che amo…»), e come in soli due mesi riuscì a riportare al governo i moderati, dopo che una magistratura politicizzata, totalmente irresponsabile, aveva fatto fuori i «cinque partiti democratici» del pentapartito, ha usato con orgoglio la prima persona, ma forse con orgoglio minore ha dovuto usare il verbo all’imperfetto: «ero io». Ero io, Silvio Berlusconi, quello che ha fermato la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, ero io, Silvio Berlusconi, quello che nel ’94 ha impedito alle sinistre di prendere il potere. «Ero io», come se agli occhi degli elettori e del paese non dovesse contare piuttosto quello che è oggi, ma solo quello che era ieri.

L’oggi, infatti, è decisamente più complicato ieri, e non solo per via della sentenza passata in giudicato. La sentenza lo terrà certamente lontano da un ruolo istituzionale, ma non necessariamente lo terrà lontano da un ruolo politico. Anzi: se il Paese dovesse andare di nuovo ad elezioni, il Cavaliere metterebbe sicuramente tutto se stesso in questa nuova impresa (che sarebbe la settima). Ma c’è motivo di pensare che non sarebbe la stessa cosa.

Non solo, vale la pena ripeterlo, per il carico giudiziario che appesantisce il Cavaliere. Berlusconi ha rivendicato con forza la sua innocenza, lanciato nuovamente i suoi strali contro la «via giudiziaria al socialismo» e la sinistra «impadronitasi dei collegi giudicanti», preannunciato futuri ricorsi e tentativi di revisione del processo in sede nazionale e internazionale. Ma non c’era, nelle parole di ieri, la minaccia di una crisi. Anzi: il destino del governo da ieri non è più legato alla questione della decadenza, benché le parole sul «bombardamento fiscale» a cui sono sottoposti gli italiani facciano pensare che l’aumento dell’Iva non sarebbe senza conseguenze. La sostanza politica del suo discorso stava altrove, e cioè nell’invito, rivolto a tutti i «cittadini onesti», a impugnare nuovamente la bandiera di Forza Italia, presentata non come un partito ma come un’idea, un «progetto nazionale che unisce tutti». In nome della libertà, certo, e di tutto ciò che conculca la libertà. Ossia: le tasse, lo Stato, la spesa pubblica. L’oppressione giudiziaria, l’oppressione fiscale, l’oppressione burocratica. Si tratta, insomma, della stessa ricetta del ’94, della «strada maestra del liberalismo» che si tratterebbe di imboccare nuovamente. Quasi vent’anni dopo. Sei legislature e qualche governo a guida Berlusconi dopo. Come se nel frattempo non fosse accaduto nulla di riconducibile alla responsabilità del Cavaliere, e tutto quello che è accaduto fosse imputabile esclusivamente al tentativo della magistratura di estrometterlo dalla vita politica.

Ma le vicende degli ultimi anni hanno dimostrato ad abundantiam che non mancano al Paese e nel dibattito pubblico le idee su come sottrarre l’Italia a un declino sempre più accentuato. Si può certo discutere su quale sia la ricetta più efficace, se ad esempio l’Italia abbia  bisogno di uno shock liberale oppure di una robusta ripresa della mano pubblica. Ma in entrambi i casi è alla capacità di far convergere interessi reali e alleanze politiche che si tratta di affidare la costruzione di un disegno riformatore. Su questo terreno, il discorso di Berlusconi non dice nulla, ed anzi attesta un’incompiuta. Quel che presenta infatti come un’attenuante rispetto alle precedenti esperienze di governo – le difficoltà reiterate a tenere insieme alleati e maggioranze – costituiscono purtroppo un aggravante, a cui non è estranea la singolarità politica del centrodestra italiano: coagulato intorno a una persona, e compromesso fin troppo con quella persona.

«Quantum mutatus ab illo!» Com’è diverso il Berlusconi di oggi da quello di ieri, nonostante siano tornano identici gli slogan, le parole d’ordine, i concetti. Nel ’94 quelle parole avevano una indubbia carica espansiva; oggi hanno una valenza prevalentemente difensiva. Ed è ancora nelle stesse parole del Cavaliere che se ne trova una traccia rivelatrice. Nel ’94, al tempo del primo inizio dell’avventura di Forza Italia, i nemici erano gli stessi di oggi: le sinistre, i comunisti, gli statalisti; ma il pentapartito, cioè la vecchia politica affondata sotto i colpi di Tangentopoli, era descritta da Berlusconi come «travolta dai fatti» e «superata dai tempi». Ieri invece il pentapartito è stato evocato come un presidio di democrazia e libertà, per la precisa ragione che la vecchia politica che abbiamo alle spalle, quella degli ultimi anni, non poteva che essere accantonata e anzi rimossa, avendo avuto in Berlusconi il suo più ingombrante (e, ahimè, ormai invecchiato) protagonista. Ma è ragionevole dubitare che gli italiani abbiano vissuto tutti questi anni solo per rivedere lo stesso film di vent’anni fa .

(Il Mattino, 19 settembre 2013)

La buona retorica

ImmagineFare una cosa, e farla bene: ora non è il caso di sbrodolarsi con la retorica, ma la rivendicazione della riuscita dell’operazione Concordia, dopo il disastro dello scorso anno, ci sta tutta. Bene ha fatto Enrico Letta a valorizzare l’immagine di un Paese che sa come agire, e soprattutto di un’amministrazione pubblica che prende finalmente su di sé il peso di decisioni difficili, rischiose, e però le porta a termine con successo, scacciando così il ricordo dell’ignominiosa fuga dalle responsabilità del comandante della nave, l’ineffabile Schettino, la notte del naufragio. E bene ha fatto il ministro Andrea Orlando a tirare il bilancio di una giornata senza danni per l’ambiente: senza sversamenti tossici, senza inquinamenti, senza conseguenze per le acque o per le coste. E, fra qualche mese, finalmente, senza più la nave.

(L’Unità, 18 settembre 2013

Quei dati che non fanno più notizia

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L’ultimo libro di Carlo Borgomeo, «L’equivoco del Sud», comincia così: “bisogna onestamente ammettere che l’antica questione meridionale pare ai più alquanto noiosa”. E finisce così: “come dicevo all’inizio quella per il Sud appare ormai una battaglia persa, persino noiosa”. Evidentemente, non basta un libro intero per appassionare al problema del Mezzogiorno. Non un libro, forse nemmeno mille libri, sicuramente non la sfilza impietosa dei dati che, trimestre dopo trimestre, anno dopo anno, l’Istat continua a snocciolare con innegabile monotonia. E così una noia mortale assale il lettore di quelle cifre, che sente già levarsi, mentre il suo sguardo scorre tra percentuali, numeri, tabelle, il rosario delle lamentazioni. Ci siamo di nuovo con il Mezzogiorno, con l’«antica questione», con i problemi annosi di un’Italia che da 150 anni si interroga sul divario tra il Nord e il Sud, senza cavare un ragno dal buco.

(L’Unità, 16 Settembre 2013)

La notte di Napoli senza guida e senza politica

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Sul Corriere del Mezzogiorno di ieri Paolo Macry ha messo in evidenza un dato, emerso già, peraltro, nelle cronache politiche di questi mesi: al Comune di Napoli la maggioranza si è frantumata. Dopodiché il sindaco De Magistris è riuscito a incollarne un’altra, ma la compagine che attualmente lo sostiene ha ben poco a che vedere con quella che è uscita dalle urne due anni fa. La bandana arancione è sbiadita: prevalgono assai variegate pezze a colori. Ed ha ragione Macry quando sostiene che la frammentazione dei gruppi consiliari e delle sigle politiche dimostra «una grave crisi di leadership», perché è indubbio che la capacità del sindaco di attrarre a sé forze, gruppi, persone, ha subito duri colpi nel corso di questi mesi. Il feeling del sindaco con la città si è parecchio appannato. Sul piano politico, d’altra parte, è rimasto ben poco. Di Italia dei Valori (che a Napoli, nel 2011, ha raccolto ben quindici consiglieri) i giornali ci dicono che alla Festa nazionale, conclusasi ieri a Sansepolcro, ha adottato un nuovo logo, togliendo dal simbolo il nome di Di Pietro, perché «la nuova IdV deve avere la forza, il coraggio e l’umiltà di non essere più un partito personale». Il che equivale a dire, in soldoni, che provano a ripartire da zero. Quanto all’altro contenitore politico, di estrema sinistra, inventato da Antonio Ingroia e fortemente sostenuto dal sindaco, se ne sono perse le tracce subito dopo le disastrose elezioni di febbraio: la rivoluzione civile non s’è mai vista, e il progetto politico non è mai decollato. Logico dunque che alcuni dei personaggi coinvolti si siano messi in cerca di altri autori.

Se dunque l’esito di questo  processo è la polverizzazione della rappresentanza e un alto tasso di trasformismo, c’è da chiedersi però come sia possibile che, nonostante l’evidente affanno di De Magistris, il calo di popolarità e l’assenza di prospettive politiche, una maggioranza rimanga comunque in piedi, per raccogliticcia che sia. Come mai Pd e Pdl non sono in grado di determinarne la crisi. Come mai «l’anatra zoppa» De Magistris riesce ancora a legare, in Consiglio, i pezzi che i partiti perdono o non riescono più a tenere uniti.

Il fatto è che anche il Partito Democratico o il Popolo della Libertà, passati pure loro attraverso cambi di simboli e rifacimenti di logo, non esprimono più una forza di attrazione minimamente apprezzabile: non solo sui consiglieri comunali che a Napoli navigano a vista, ma anche sui voti degli italiani. Che infatti perdono a milioni. È tutto il quadro politico attuale che attende di essere superato, insomma, e la vicenda napoletana è in fondo spia di un malessere più generale che investe la complessiva credibilità del sistema politico italiano. O forse, più che la spia, la lente di ingrandimento, perché qui le insufficienze dei partiti sono inversamente proporzionali ai bisogni e alle necessità. Nel centrodestra, il Pdl è in preda alle convulsioni che precedono l’inevitabile uscita di scena del Cavaliere, mentre in Campania il partito è ancora commissariato e il governatore è tenuto sotto tiro dalla sua stessa maggioranza. Sull’altro versante dello schieramento, il Pd ha invece rinunciato – sia a Roma che a Napoli – a capire perché ha perso le elezioni, preferendo credere di averle «non vinte» per non dover portare responsabilità troppo onerose. Il congresso prossimo venturo  rischia poi di essere non il luogo di elaborazione di un progetto per l’Italia, né tantomeno per il Sud, ma solo l’ultima trincea scavata per contenere l’avanzata di Matteo Renzi. Succede così che il rinnovamento si fa, eccome se si fa: gli attuali gruppi parlamentari sono infatti i più nuovi che si possano desiderare, e, si chiami o no rottamazione la prossima ondata, la voga siamo sicuri che continuerà. Ma col risultato opposto a quello desiderato: più si rinnova, infatti, e più la politica mostra tutta la sua debolezza, tutta la sua impreparazione. E in Campania più che mai.

Questa promette di essere purtroppo la stessa parabola del più nuovo dei sindaci entrati in carica, Luigi De Magistris. Se perciò non si vuole che dopo una rivoluzione inconcludente si apra la stagione plumbea della restaurazione, bisogna smetterla di pensare che i partiti non servano, ma smettere anche di fingere che possano mai servire a tutti, indistintamente. Che è la retorica più insopportabile di questi vent’anni di seconda Repubblica. Se non si vedono più le parti in conflitto, infatti, sarà sempre più facile accasarsi da una parte o dall’altra a seconda delle convenienze del momento, e tanto più facilmente quanto più si sarà nuovi, nuovissimi, praticamente mai usati. Ma anche, prima che lo si immagini, assolutamente inutili.

(Il Mattino, 16 Settembre 2013)

La voglia di riscatto

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Con il decreto scuola varato ieri un primo, importante segnale è dato. Per anni, scuola e università sono scivolati a margine dell’attenzione pubblica e delle politiche di governo, oppure sono stati interessati da propositi di riforma confusi, accompagnati immancabilmente da un sempre più accentuata diminuzione delle risorse disponibili, a sua volta coperta da una aggressiva quanto velleitaria ideologia meritocratica. Come se il problema della scuola italiana stesse esclusivamente nel permettere ai migliori di eccellere, con buona pace di tutti gli altri, e non invece nella necessità di recuperare la centralità della vita scolastica nei processi educativi, nella considerazione delle famiglie, nel tessuto sociale del paese. 

(L’Unità, 10 Settembre 2013)

Il trasformismo è peggio del voto

Cosa c’è dopo la crisi? Magari non c’è la crisi, le parole di ieri di Alfano lo fanno pensare (almeno fino alla prossima doccia fredda), e perciò il tentativo di dare risposta a questa domanda si rivelerà un mero esercizio intellettuale. Però va condotto ugualmente, per non arrivare impreparati ad un appuntamento assai difficile, che dovrà essere affrontato con il massimo della lucidità politica.

Non è infatti scontato che, dopo l’eventuale fine del governo Letta, il Paese precipiti verso nuove elezioni. Nel corso di questa difficile estate, il Presidente della Repubblica ha doverosamente e più volte richiamato i partiti ad una valutazione degli scenari che si disegnerebbero qualora la risposta alla crisi economica, in cui il Paese ancora si dibatte restando indietro anche rispetto ai primi segnali di ripresa manifestatisi a livello europeo, fosse una crisi politica al buio, che la mancata riforma della legge elettorale rischierebbe di prolungare. E tuttavia: cosa potrebbe accadere? Nell’attuale ordinamento, lo sbocco elettorale anticipato suppone infatti il previo accertamento dell’impossibilità che si formino maggioranze parlamentari alternative, in grado di assicurare la fiducia ad un nuovo governo.  Allo stato, nessuno è ancora in grado di escludere che, sia pure in maniera raccogliticcia, una nuova maggioranza effettivamente si formi.

Ora, è davvero fuori luogo, di fronte a una simile eventualità, assumere l’atteggiamento moralistico di chi si indigna e scandalizza se, di fronte alla scelta tra il voto e un altro governo, dovesse essere preferita quest’ultima soluzione, e venisse così scongiurato il ricorso alle urne. Tradimento o opportunismo non sono i termini in cui andrebbe analizzato un simile esito. Non basterebbe cioè parlare di infedeltà o di imbroglio, o peggio di compravendita dei parlamentari, o ancora di ghiotte cariche rese disponibili dalle dimissioni dei ministri e sottosegretari pidiellini e di chissà quali altri accordi sottobanco. Il nome sprezzante, per questa pratica invero consustanziale alla natura stessa degli istituti parlamentari, è quello di trasformismo. Ma chi, nella storia del nostro Paese, lo tenne a battesimo, Agostino Depretis (tra l’altro: per formare i primi governi di “sinistra” della storia italiana, segno che la politica ha le sue costanti, le sue stelle fisse), lo presentò con questi forti accenti: «Non è il nuovo, o signori, che noi cerchiamo, noi cerchiamo il vero. E io dichiaro apertamente che le idee buone e vere, le utili esperienze, le prenderò dove che sia, anche dai nostri avversari». Se ci fosse un Presidente del Consiglio dopo Enrico Letta, o magari Enrico Letta medesimo, che fosse in grado di usare simili parole – e poi però di inverarle, aprendo magari una nuova stagione politica, come accadde a Depretis, che dominò la scena politica italiana per circa un decennio –  allora sarebbe persino augurabile un passaggio del genere. Purtroppo però non è quello che sembra si profilerebbe, nell’attuale Parlamento, con le attuali forze in campo ed interessi in gioco.

Restituito perciò  alla politica parlamentare quel che è della politica parlamentare, resta da chiedersi se davvero sarebbe augurabile per l’Italia e per il suo corso politico un nuovo governo, formato grazie a  qualche transfuga del Pdl, qualche grillino di risulta, espulso, epurato o scomunicato, e magari i voti determinati dei senatori a vita (di vecchio e nuovo conio). Ebbene, un simile schieramento  esprimerebbe con ogni probabilità ancora meno energia politica dell’attuale «strana coalizione». Non avrebbe solo il Pdl contro, con tutti i mezzi e in tutti i modi; avrebbe con ogni probabilità anche il Pd assai poco interessato a promuoverne l’azione, soprattutto se ad assumere la guida del partito dovesse essere Renzi. Il quale Renzi dovrebbe peraltro passare in fretta da rottamatore a temporeggiatore: una conversione che non potrebbe non riuscire improponibile ai suoi stessi occhi. L’unica missione politica di una simile maggioranza sarebbe dunque quella di evitare il baratro delle urne, cercando intanto di cancellare il Porcellum. Che è un po’ poco, per affrontare l’incipiente semestre europeo, rinviando necessariamente qualunque proposito di riforma.

In realtà, proprio la stretta di queste convulse giornate dimostra che l’Italia ha bisogno di respiro e prospettiva, non certo di un continuo stop and go, con i suoi inevitabili riflessi negativi non solo sui mercati finanziari e nei consessi internazionali, ma sulla stessa azione di governo e sulla tenuta del tessuto politico complessivo, già sfilacciato e sempre meno credibile. Non è escluso in verità che il governo in carica sappia indicare una prospettiva, se supererà la prova: e sarà allora davvero nel segno di una ridefinizione del sistema politico che potrà procedere, perché non solo il Pdl ma anche il Pd dovranno ridisegnare il proprio profilo tanto più in profondità, quanto più durerà la vita di questo governo. Ma se così non fosse e ci fosse invece la crisi, allora meglio le urne che una maggioranza numerica priva di qualunque collante, e perciò fatalmente meno plausibile anche di quella, «strana», attuale. Saranno allora gli italiani, in quel caso, a determinare col voto la ristrutturazione del sistema e, finalmente, una nuova stagione.

(Il Mattino, 7 settembre 2013)

La Tav, De Luca e l’ «orgoglio del sabotaggio»

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Se domandi come, Erri De Luca non si tira indietro e risponde: anche con azioni di sabotaggio. C’è una parte delle dichiarazioni dello scrittore napoletano che riguarda la realizzazione del Tav Torino-Lione: per De Luca, il Tav è uno stupro del territorio, è un’opera mastodontica, inutile anzi dannosa. C’è poi un’altra parte delle sue dichiarazioni che riguarda la maniera di opporsi alla decisione di proseguire con i cantieri, e completare il tracciato. E a questo riguardo De Luca non si limita a dichiararsi vicino ai cittadini della val di Susa, non si accontenta di appoggiare le manifestazioni, i cortei, le proteste più o meno rumorose che da anni impegnano cittadini e associazioni, della valle e non. No, Erri De Luca va oltre: sostiene che le azioni di sabotaggio sono indispensabili per fermare il tunnel: «Quando si tratta della difesa della vita e dei propri figli qualunque forma di lotta è ammessa». Qualunque, dice De Luca. Chissà se mentre lo diceva gli passavano per la mente, come lampi improvvisi, tutte le forme di lotta che nella storia italiana sono state condotte per opporsi all’ingiustizia, e, naturalmente, ogni volta a forme di ingiustizia che si reputavano intollerabili, inaccettabili, inammissibili. In ogni caso, De Luca “continua a pensare che sia giusto sabotare quest’opera”. Siccome però, giusto o ingiusto che sia, il codice penale in vigore non mostra di apprezzare particolarmente le azioni di sabotaggio e anzi commina sanzioni piuttosto severe al riguardo, la società Ltf, cui è affidata l’opera, ha annunciato che denuncerà lo scrittore.

De Luca si è fatto beffe dell’annuncio: un conto è infatti sabotare, un altro è dire, dire soltanto che è giusto sabotare. Opportuna distinzione. Ma un uomo che ha deciso, da un certo momento in avanti, di dedicare la sua vita alle parole, alla scrittura, alla responsabilità del dire e del pensare, dovrebbe essere al contrario felice che si attribuisca tale peso alle sue parole, da richiedere l’interessamento della giustizia penale. Platone voleva tenere fuori dalla sua città ideale gli artisti, perché ne avrebbero corrotto i costumi: in tal modo, ne riconosceva, insieme con la pericolosità, il rilievo e l’importanza. Che era tale da potere secondo lui sommuovere l’ordine costituito. De Luca invece fa dell’ironia sui propositi della società che vorrebbe denunciarlo, il che rischia di essere un modo per svilire il valore (assai grave) delle sue stesse parole. Come dire che sì, forse gli abitanti della valle fanno bene a lottare per le loro vite e quelle dei figli, ma lui, che si limita a parlarci su, non va poi preso troppo sul serio, come se davvero incitasse all’azione violenta. Lui è uno scrittore, perbacco: parla in maniera figurata.

Ora, in una società liberale, il diritto di espressione del pensiero è un diritto fondamentale, e quanto più esso si estende tanto più una società dimostra di essere forte, riconosciuta nei suoi titoli di legittimità democratica e perciò capace di ospitare il dissenso senza reprimerlo. Se nello spazio pubblico compaiono anche le prese di posizione tardo-sessantottine di De Luca, c’è solo da augurarsi che ci si possa dimostrare ospitali abbastanza da non dover affatto adire le vie legali per un’intervista sopra le righe. Ma De Luca, lui: è uno scrittore liberale? Fa lui professione di liberalismo quando invita a condurre “qualunque forma di lotta”? Temo proprio di no. Ora, non è che ci si debba dispiacere che De Luca non sia un liberale a tutto tondo. Figuriamoci: lui può venire da Lotta continua e può pure tornarci, o magari non essersi mai mosso di lì. Ma il fatto è che c’è un punto della cultura giuridica e politica delle società contemporanee, per cui possiamo, se non dobbiamo, dirci tutti liberali, anche se poi riempiamo il liberalismo di contenuti diversi: più o meno sociali, più o meno moderati o più o meno progressisti. E riguarda, quel punto, la capacità di tirare una linea di demarcazione tra quello che si può fare “con metodo democratico”, come dice la Costituzione, e quello che invece proprio non si può fare. Nelle parole di De Luca, invece, non c’è alcuna linea di demarcazione del genere, non c’è alcun limite, nessun «non plus ultra»: «qualunque forma di lotta» è ammessa, perché la vita stessa è in gioco. La trama del diritto è strappata, e il confronto con lo Stato, con i suoi poteri legittimi, è affidato piuttosto allo scontro, anzi al sabotaggio.

Ora il merito dell’opera, la sua opportunità, la sua economicità, la sua compatibilità con l’ambiente e con la salute può e deve essere discussa. Si può anche ritenere che le diverse maggioranze succedutesi negli anni hanno mancato di coinvolgere adeguatamente le popolazioni locali e hanno commesso gravi errori di valutazione. Ma nessuno di questi errori (veri o presunti: ognuno avrà la sua opinione) può giustificare il sabotaggio. Che, se le parole hanno un senso, e per uno scrittore non possono non averlo, è qualcosa in più persino dell’esasperazione, della protesta accesa o del tumulto improvviso. È invadere o occupare o danneggiare, scientemente e secondo un piano preordinato.

Ebbene, se De Luca mostra così la sua pericolosa solidarietà ai cittadini della valle, c’è da dubitare che giovi loro una simile radicalizzazione della questione. E, se anche fosse, certo è che non giova affatto al nostro Paese. Che ha sicuramente un ambiente naturale da tutelare, ma, forse, anche un ambiente intellettuale da rinverdire.

(Il Mattino, 6 Settembre 2013)

La rottura che conviene solo a Grillo

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“Tutto il mondo è un palcoscenico”, diceva Shakespeare, uno che di teatro se ne intendeva. Ora che grazie ai mezzi di comunicazione di massa la politica torna ad essere prevalentemente rappresentazione, spettacolo, forse se ne comprendono meglio le dinamiche guardando al modo in cui un tempo si scrutavano le vite a teatro. C’è una data, il 9 settembre, giorno in cui si riunirà la Giunta per le elezioni. E ci sono protagonisti e deuteragonisti che a quella scadenza si avvicinano recitando ciascuno la parte assegnata dal copione. Il Pdl non può mostrare alcuna acquiescenza verso la posizione dei Democratici: per il centrodestra, è come se la condanna di Silvio Berlusconi si apprestasse ad essere doppiata da un intollerabile giudizio politico. Bisogna invece attenersi al merito – dicono da quelle parti – le considerazioni squisitamente giuridiche devono prevalere, la legge Severino presenta dei profili di dubbia costituzionalità, non si può processare politicamente il Cavaliere. Il Pd sta sulle stesse assi, calca lo stesso palcoscenico e recita però la parte opposta: non può dunque mostrare alcuna condiscendenza verso un atteggiamento che giudica lesivo del principio di legalità, e che lo esporrebbe alle ire della base: le sentenze vanno rispettate, dicono i democratici, non vi possono essere quarti gradi di giudizio, la legge è chiara e lo era anche per il Pdl che l’ha votata non più di qualche mese fa.

E, proprio come a teatro, quando il dramma è tutto agito dalle parole, si succedono dichiarazioni e comunicati in cui gli uni rimbalzano sugli altri accuse e controaccuse: per il Pdl, è l’irrigidimento del Pd e quasi una volontà di vendetta a mettere seriamente in pericolo il governo Letta; per il Pd, è l’incapacità di tenere distinti il piano politico generale da una vicenda giudiziaria strettamente personale a mettere a repentaglio la vita del governo.

Ora però le parti sono così ben recitate, che la rappresentazione rischia di rovesciarsi bruscamente in realtà. Proprio come accade al patrono dei teatranti, San Genesio: mimo alla corte di Diocleziano, mise in scena un battesimo cristiano per il divertimento del truce imperatore. Ma nel corso della rappresentazione, toccato dalla grazia, si convertì realmente. Lo spettacolo proseguì, fino alla farsa del martirio. Solo che ormai Genesio, convertitosi,  era diventato cristiano per davvero, e Diocleziano gli riservò perciò la sorte dei veri martiri, facendolo flagellare e decapitare.  La farsa mutò in tragedia.

Ora, all’Italia non auguriamo nuovi flagelli e tragedie, naturalmente, ma se ci risparmiassimo anche uno spettacolo così caparbiamente eseguito da tutti gli attori politici non sarebbe male. Il rischio è infatti che, a furia di tirare la corda, tenere le posizioni, mostrarsi intransigenti, lanciare ultimatum, difendere principi  e mostrare la faccia feroce, si faccia la fine del santo, senza essere stati nemmeno toccati dalla grazia, che difficilmente visita la scena politica. In queste vicende, poi, c’è sempre qualcuno che si distingue per eccesso di zelo. Qualcuno che scherza col fuoco, qualche altro che inciampa casualmente su una miccia o schiaccia per sbaglio il pulsante del detonatore. Si rischia insomma di precipitare davvero nello scenario che tutti dicono di voler evitare: una crisi al buio, senza che il Paese sia uscito dalla recessione più lunga del dopoguerra, e con un Porcellum ancora tra i piedi con cui scegliere il nuovo Parlamento e magari riprodurre il medesimo stallo. Uno spettacolo che in verità non vorremmo veder replicato.

Tutti o quasi, in verità. L’unico che non vuole affatto evitare il voto ma lo chiede esplicitamente è Grillo (qualunque cosa pensino i suoi parlamentari al riguardo, la cui autonomia, a proposito di spettacoli, è inferiore a quella di una marionetta). Ma Grillo vuole il voto proprio perché vuole la crisi al buio, proprio perché vuole votare con il Porcellum, proprio perché insomma vuole spazzare via ogni continuità politica e istituzionale con l’attuale sistema di democrazia parlamentare, non avendo alcun ruolo da giocare in esso.

A teatro, una volta, quando il viluppo della trama si ingarbugliava a tal punto che persino l’autore non sapeva più come risolvere l’intrico, spuntava fuori il deus ex machina che rimetteva le cose a posto. Non pare però che le forze politiche dispongano oggi di una simile risorsa. Il Presidente Napolitano ha già provato a esercitare quel ruolo, ma siamo purtroppo daccapo: in prossimità di una crisi, e con sempre meno mezzi per evitarla. Invece dei colpi di scena, ci vorrebbe allora un supplemento di responsabilità politica, se almeno si ritiene di dover seguire l’interesse generale di evitare la crisi, non quello particolare di addossarla agli altri. Ma lo spettacolo continua, il giorno nove si avvicina, e l’autore della pièce ha così ben nascosto la soluzione del dramma che nessuno al momento sa se tutto finirà col martirio oppure con un salvataggio in extremis.

(Il Mattino, 5 Settembre 2013)

Tra populismo e liberalismo: la parabola del Pdl

ImmagineMa non era il Pd un «amalgama mal riuscito»? Ora stessa sorte tocca al Pdl. O al Polo del buon governo, o al Partito dell’amore, o a Forza Italia, prima e magari seconda versione prossima ventura, e insomma a tutta la parabola del berlusconismo alla quale Giovani Orsina, storico autorevolissimo, ha dedicato un libro denso e interessante per spiegare come esso sia stato, al di là della sorte personale del Cavaliere, a cui ancora in queste giornate tutto sembra appeso, «un’emulsione di populismo e liberalismo». La parola non è scelta a caso. In nota l’autore spiega infatti che un’emulsione non è una soluzione: i due elementi che si combinano insieme non si sciolgono l’uno nell’altro; sono rimaste sostanze distinte anche se «si sono compenetrate l’una nell’altra fino a restare inseparabili». 

(L’Unità, 1 settembre 2013)

Se al premier non piace il suo governo

ImmagineUna lieve vertigine provocano le parole pronunciate ieri dal Presidente del Consiglio. Non è la prima volta, in verità, che Enrico Letta le usa per definire il rapporto col governo da lui stesso presieduto, e forse non sarà l’ultima. Ma ogni volta si prova un leggero stupore, un piccolo offuscamento alla vista e una perdita, per fortuna momentanea, di stabilità. Di solito, infatti, non va così: non succede che il Capo del governo metta una distanza fra sé e il proprio dicastero, precisando che non è certo il governo per il quale ha fatto la campagna elettorale (ma omettendo di aggiungere che, peraltro, la campagna elettorale non la si è fatta neppure perché a guidare il governo fosse lui). Che sia insolito e anche controproducente è subito evidente, se solo ci si chiede che cosa accadrebbe e quanto  Letta stesso sarebbe contento dei suoi ministri, se ciascuno di loro sentisse in ogni circostanza di doversi giustificare, per aver parte in un governo di cui non avrebbe voluto far parte. E così via: anche i parlamentari non siedono, presumibilmente, nel Parlamento in cui avrebbero voluto sedere, e magari sono finiti nelle commissioni in cui non sarebbero voluti finire. Persino il Presidente della Repubblica è ad un secondo mandato che non avrebbe voluto ricevere (e per cui il Pd di Enrico Letta ha invece qualche responsabilità), ma per fortuna ha abbastanza saggezza da non diramare dal Quirinale note in cui si dichiara dispiaciuto di dover rimanere ancora sul più alto Colle.

Perché c’è un senso in cui la puntualizzazione di Letta rasenta l’ovvietà, ed è dunque superflua, e un altro per cui puzza di tatticismo, e rischia perciò di essere dannosa. Per un verso, infatti, è del tutto ovvio che non solo Letta, ma nessuno degli attori politici in campo si trova nella situazione che aveva sperato si determinasse con le elezioni di febbraio. Per di più, l’Italia è un Paese talmente abituato a governi di coalizione che forse non c’è mai stato Presidente del Consiglio che abbia avuto l’appoggio della maggioranza che sognava. Il più diretto predecessore della lagnanza di Letta è, per giunta, proprio Silvio Berlusconi, che anche quando ha goduto di larghi sostegni parlamentari si è sempre lamentato di non aver avuto il 51% e di essersi dovuto alleare con questo o con quello, in stato di necessità. Certo, le larghe intese che si sono disegnate col voto dello scorso febbraio tengono insieme addirittura forze contrapposte, ma si tratta anche in questo caso di un esercizio di responsabilità e realismo politico che o si rivendica, nell’interesse generale del Paese, oppure si finisce col contraddire ad ogni passo, ogni volta cioè che si chiede alle forze politiche di avere quella stessa responsabilità e lungimiranza che si mostra invece di accettare malvolentieri, «obtorto collo». Ma se il collo è piegato in una posizione innaturale, che si sopporta a fatica, come si può tenere diritti il capo? Come si può guardare lontano, pretendere cioè di tirarsi fuori dalla crisi, indicando al Paese una direzione?

Per altro verso, la presa di distanza da se medesimi, ovvero dall’esercizio delle proprie funzioni, sembra figlia di una scaltrezza tattica che riguarda meno le sorti del governo, e più la collocazione politica presente e futura del Presidente del Consiglio. Che evidentemente non vuole essere identificato, agli occhi almeno dell’elettorato di centrosinistra, come l’uomo che ha governato con Berlusconi. Sul piano politico si tratta di una posizione legittima, che è però quella di Sel, che non è al governo e soprattutto non è il partito a cui Letta appartiene. Per il Pd, non può invece non essere un merito avere scongiurato che la paralisi parlamentare sfociasse in  nuove elezioni, e probabilmente in un nuovo stallo. Così come coerenza vorrebbe che il Pd considerasse un merito anche contribuire a un’opera di svelenimento del clima – tanto più necessaria dopo il verdetto della Cassazione – che invece parole come quelle di Letta, di nuovo, contraddicono. Come se ogni volta che Letta stringesse la mano ad Alfano fosse chiamato a sottolineare che lo fa perché proprio non può non farlo. Non si chiede, in definitiva, al Presidente del Consiglio di pronunciare a petto in fuori un sonoro «hic manebimus optime». Ma non occorre neppure appellarsi ogni volta al principio di realtà per sottintendere che non si ha piacere a governare. Forse Letta tiene alla precisazione per convincere l’opinione pubblica che mediazioni e compromessi sono necessari. Messa così, è un’opera meritoria. Il timore è però che l’opinione pubblica capisca al contrario che neppure Letta è convinto di quei compromessi, e si voglia perciò semplicemente tenere libero per altro.

(Il Mattino, 1 settembre 2013)