Archivi del giorno: settembre 10, 2013

La voglia di riscatto

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Con il decreto scuola varato ieri un primo, importante segnale è dato. Per anni, scuola e università sono scivolati a margine dell’attenzione pubblica e delle politiche di governo, oppure sono stati interessati da propositi di riforma confusi, accompagnati immancabilmente da un sempre più accentuata diminuzione delle risorse disponibili, a sua volta coperta da una aggressiva quanto velleitaria ideologia meritocratica. Come se il problema della scuola italiana stesse esclusivamente nel permettere ai migliori di eccellere, con buona pace di tutti gli altri, e non invece nella necessità di recuperare la centralità della vita scolastica nei processi educativi, nella considerazione delle famiglie, nel tessuto sociale del paese. 

(L’Unità, 10 Settembre 2013)

Il trasformismo è peggio del voto

Cosa c’è dopo la crisi? Magari non c’è la crisi, le parole di ieri di Alfano lo fanno pensare (almeno fino alla prossima doccia fredda), e perciò il tentativo di dare risposta a questa domanda si rivelerà un mero esercizio intellettuale. Però va condotto ugualmente, per non arrivare impreparati ad un appuntamento assai difficile, che dovrà essere affrontato con il massimo della lucidità politica.

Non è infatti scontato che, dopo l’eventuale fine del governo Letta, il Paese precipiti verso nuove elezioni. Nel corso di questa difficile estate, il Presidente della Repubblica ha doverosamente e più volte richiamato i partiti ad una valutazione degli scenari che si disegnerebbero qualora la risposta alla crisi economica, in cui il Paese ancora si dibatte restando indietro anche rispetto ai primi segnali di ripresa manifestatisi a livello europeo, fosse una crisi politica al buio, che la mancata riforma della legge elettorale rischierebbe di prolungare. E tuttavia: cosa potrebbe accadere? Nell’attuale ordinamento, lo sbocco elettorale anticipato suppone infatti il previo accertamento dell’impossibilità che si formino maggioranze parlamentari alternative, in grado di assicurare la fiducia ad un nuovo governo.  Allo stato, nessuno è ancora in grado di escludere che, sia pure in maniera raccogliticcia, una nuova maggioranza effettivamente si formi.

Ora, è davvero fuori luogo, di fronte a una simile eventualità, assumere l’atteggiamento moralistico di chi si indigna e scandalizza se, di fronte alla scelta tra il voto e un altro governo, dovesse essere preferita quest’ultima soluzione, e venisse così scongiurato il ricorso alle urne. Tradimento o opportunismo non sono i termini in cui andrebbe analizzato un simile esito. Non basterebbe cioè parlare di infedeltà o di imbroglio, o peggio di compravendita dei parlamentari, o ancora di ghiotte cariche rese disponibili dalle dimissioni dei ministri e sottosegretari pidiellini e di chissà quali altri accordi sottobanco. Il nome sprezzante, per questa pratica invero consustanziale alla natura stessa degli istituti parlamentari, è quello di trasformismo. Ma chi, nella storia del nostro Paese, lo tenne a battesimo, Agostino Depretis (tra l’altro: per formare i primi governi di “sinistra” della storia italiana, segno che la politica ha le sue costanti, le sue stelle fisse), lo presentò con questi forti accenti: «Non è il nuovo, o signori, che noi cerchiamo, noi cerchiamo il vero. E io dichiaro apertamente che le idee buone e vere, le utili esperienze, le prenderò dove che sia, anche dai nostri avversari». Se ci fosse un Presidente del Consiglio dopo Enrico Letta, o magari Enrico Letta medesimo, che fosse in grado di usare simili parole – e poi però di inverarle, aprendo magari una nuova stagione politica, come accadde a Depretis, che dominò la scena politica italiana per circa un decennio –  allora sarebbe persino augurabile un passaggio del genere. Purtroppo però non è quello che sembra si profilerebbe, nell’attuale Parlamento, con le attuali forze in campo ed interessi in gioco.

Restituito perciò  alla politica parlamentare quel che è della politica parlamentare, resta da chiedersi se davvero sarebbe augurabile per l’Italia e per il suo corso politico un nuovo governo, formato grazie a  qualche transfuga del Pdl, qualche grillino di risulta, espulso, epurato o scomunicato, e magari i voti determinati dei senatori a vita (di vecchio e nuovo conio). Ebbene, un simile schieramento  esprimerebbe con ogni probabilità ancora meno energia politica dell’attuale «strana coalizione». Non avrebbe solo il Pdl contro, con tutti i mezzi e in tutti i modi; avrebbe con ogni probabilità anche il Pd assai poco interessato a promuoverne l’azione, soprattutto se ad assumere la guida del partito dovesse essere Renzi. Il quale Renzi dovrebbe peraltro passare in fretta da rottamatore a temporeggiatore: una conversione che non potrebbe non riuscire improponibile ai suoi stessi occhi. L’unica missione politica di una simile maggioranza sarebbe dunque quella di evitare il baratro delle urne, cercando intanto di cancellare il Porcellum. Che è un po’ poco, per affrontare l’incipiente semestre europeo, rinviando necessariamente qualunque proposito di riforma.

In realtà, proprio la stretta di queste convulse giornate dimostra che l’Italia ha bisogno di respiro e prospettiva, non certo di un continuo stop and go, con i suoi inevitabili riflessi negativi non solo sui mercati finanziari e nei consessi internazionali, ma sulla stessa azione di governo e sulla tenuta del tessuto politico complessivo, già sfilacciato e sempre meno credibile. Non è escluso in verità che il governo in carica sappia indicare una prospettiva, se supererà la prova: e sarà allora davvero nel segno di una ridefinizione del sistema politico che potrà procedere, perché non solo il Pdl ma anche il Pd dovranno ridisegnare il proprio profilo tanto più in profondità, quanto più durerà la vita di questo governo. Ma se così non fosse e ci fosse invece la crisi, allora meglio le urne che una maggioranza numerica priva di qualunque collante, e perciò fatalmente meno plausibile anche di quella, «strana», attuale. Saranno allora gli italiani, in quel caso, a determinare col voto la ristrutturazione del sistema e, finalmente, una nuova stagione.

(Il Mattino, 7 settembre 2013)

La Tav, De Luca e l’ «orgoglio del sabotaggio»

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Se domandi come, Erri De Luca non si tira indietro e risponde: anche con azioni di sabotaggio. C’è una parte delle dichiarazioni dello scrittore napoletano che riguarda la realizzazione del Tav Torino-Lione: per De Luca, il Tav è uno stupro del territorio, è un’opera mastodontica, inutile anzi dannosa. C’è poi un’altra parte delle sue dichiarazioni che riguarda la maniera di opporsi alla decisione di proseguire con i cantieri, e completare il tracciato. E a questo riguardo De Luca non si limita a dichiararsi vicino ai cittadini della val di Susa, non si accontenta di appoggiare le manifestazioni, i cortei, le proteste più o meno rumorose che da anni impegnano cittadini e associazioni, della valle e non. No, Erri De Luca va oltre: sostiene che le azioni di sabotaggio sono indispensabili per fermare il tunnel: «Quando si tratta della difesa della vita e dei propri figli qualunque forma di lotta è ammessa». Qualunque, dice De Luca. Chissà se mentre lo diceva gli passavano per la mente, come lampi improvvisi, tutte le forme di lotta che nella storia italiana sono state condotte per opporsi all’ingiustizia, e, naturalmente, ogni volta a forme di ingiustizia che si reputavano intollerabili, inaccettabili, inammissibili. In ogni caso, De Luca “continua a pensare che sia giusto sabotare quest’opera”. Siccome però, giusto o ingiusto che sia, il codice penale in vigore non mostra di apprezzare particolarmente le azioni di sabotaggio e anzi commina sanzioni piuttosto severe al riguardo, la società Ltf, cui è affidata l’opera, ha annunciato che denuncerà lo scrittore.

De Luca si è fatto beffe dell’annuncio: un conto è infatti sabotare, un altro è dire, dire soltanto che è giusto sabotare. Opportuna distinzione. Ma un uomo che ha deciso, da un certo momento in avanti, di dedicare la sua vita alle parole, alla scrittura, alla responsabilità del dire e del pensare, dovrebbe essere al contrario felice che si attribuisca tale peso alle sue parole, da richiedere l’interessamento della giustizia penale. Platone voleva tenere fuori dalla sua città ideale gli artisti, perché ne avrebbero corrotto i costumi: in tal modo, ne riconosceva, insieme con la pericolosità, il rilievo e l’importanza. Che era tale da potere secondo lui sommuovere l’ordine costituito. De Luca invece fa dell’ironia sui propositi della società che vorrebbe denunciarlo, il che rischia di essere un modo per svilire il valore (assai grave) delle sue stesse parole. Come dire che sì, forse gli abitanti della valle fanno bene a lottare per le loro vite e quelle dei figli, ma lui, che si limita a parlarci su, non va poi preso troppo sul serio, come se davvero incitasse all’azione violenta. Lui è uno scrittore, perbacco: parla in maniera figurata.

Ora, in una società liberale, il diritto di espressione del pensiero è un diritto fondamentale, e quanto più esso si estende tanto più una società dimostra di essere forte, riconosciuta nei suoi titoli di legittimità democratica e perciò capace di ospitare il dissenso senza reprimerlo. Se nello spazio pubblico compaiono anche le prese di posizione tardo-sessantottine di De Luca, c’è solo da augurarsi che ci si possa dimostrare ospitali abbastanza da non dover affatto adire le vie legali per un’intervista sopra le righe. Ma De Luca, lui: è uno scrittore liberale? Fa lui professione di liberalismo quando invita a condurre “qualunque forma di lotta”? Temo proprio di no. Ora, non è che ci si debba dispiacere che De Luca non sia un liberale a tutto tondo. Figuriamoci: lui può venire da Lotta continua e può pure tornarci, o magari non essersi mai mosso di lì. Ma il fatto è che c’è un punto della cultura giuridica e politica delle società contemporanee, per cui possiamo, se non dobbiamo, dirci tutti liberali, anche se poi riempiamo il liberalismo di contenuti diversi: più o meno sociali, più o meno moderati o più o meno progressisti. E riguarda, quel punto, la capacità di tirare una linea di demarcazione tra quello che si può fare “con metodo democratico”, come dice la Costituzione, e quello che invece proprio non si può fare. Nelle parole di De Luca, invece, non c’è alcuna linea di demarcazione del genere, non c’è alcun limite, nessun «non plus ultra»: «qualunque forma di lotta» è ammessa, perché la vita stessa è in gioco. La trama del diritto è strappata, e il confronto con lo Stato, con i suoi poteri legittimi, è affidato piuttosto allo scontro, anzi al sabotaggio.

Ora il merito dell’opera, la sua opportunità, la sua economicità, la sua compatibilità con l’ambiente e con la salute può e deve essere discussa. Si può anche ritenere che le diverse maggioranze succedutesi negli anni hanno mancato di coinvolgere adeguatamente le popolazioni locali e hanno commesso gravi errori di valutazione. Ma nessuno di questi errori (veri o presunti: ognuno avrà la sua opinione) può giustificare il sabotaggio. Che, se le parole hanno un senso, e per uno scrittore non possono non averlo, è qualcosa in più persino dell’esasperazione, della protesta accesa o del tumulto improvviso. È invadere o occupare o danneggiare, scientemente e secondo un piano preordinato.

Ebbene, se De Luca mostra così la sua pericolosa solidarietà ai cittadini della valle, c’è da dubitare che giovi loro una simile radicalizzazione della questione. E, se anche fosse, certo è che non giova affatto al nostro Paese. Che ha sicuramente un ambiente naturale da tutelare, ma, forse, anche un ambiente intellettuale da rinverdire.

(Il Mattino, 6 Settembre 2013)

La rottura che conviene solo a Grillo

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“Tutto il mondo è un palcoscenico”, diceva Shakespeare, uno che di teatro se ne intendeva. Ora che grazie ai mezzi di comunicazione di massa la politica torna ad essere prevalentemente rappresentazione, spettacolo, forse se ne comprendono meglio le dinamiche guardando al modo in cui un tempo si scrutavano le vite a teatro. C’è una data, il 9 settembre, giorno in cui si riunirà la Giunta per le elezioni. E ci sono protagonisti e deuteragonisti che a quella scadenza si avvicinano recitando ciascuno la parte assegnata dal copione. Il Pdl non può mostrare alcuna acquiescenza verso la posizione dei Democratici: per il centrodestra, è come se la condanna di Silvio Berlusconi si apprestasse ad essere doppiata da un intollerabile giudizio politico. Bisogna invece attenersi al merito – dicono da quelle parti – le considerazioni squisitamente giuridiche devono prevalere, la legge Severino presenta dei profili di dubbia costituzionalità, non si può processare politicamente il Cavaliere. Il Pd sta sulle stesse assi, calca lo stesso palcoscenico e recita però la parte opposta: non può dunque mostrare alcuna condiscendenza verso un atteggiamento che giudica lesivo del principio di legalità, e che lo esporrebbe alle ire della base: le sentenze vanno rispettate, dicono i democratici, non vi possono essere quarti gradi di giudizio, la legge è chiara e lo era anche per il Pdl che l’ha votata non più di qualche mese fa.

E, proprio come a teatro, quando il dramma è tutto agito dalle parole, si succedono dichiarazioni e comunicati in cui gli uni rimbalzano sugli altri accuse e controaccuse: per il Pdl, è l’irrigidimento del Pd e quasi una volontà di vendetta a mettere seriamente in pericolo il governo Letta; per il Pd, è l’incapacità di tenere distinti il piano politico generale da una vicenda giudiziaria strettamente personale a mettere a repentaglio la vita del governo.

Ora però le parti sono così ben recitate, che la rappresentazione rischia di rovesciarsi bruscamente in realtà. Proprio come accade al patrono dei teatranti, San Genesio: mimo alla corte di Diocleziano, mise in scena un battesimo cristiano per il divertimento del truce imperatore. Ma nel corso della rappresentazione, toccato dalla grazia, si convertì realmente. Lo spettacolo proseguì, fino alla farsa del martirio. Solo che ormai Genesio, convertitosi,  era diventato cristiano per davvero, e Diocleziano gli riservò perciò la sorte dei veri martiri, facendolo flagellare e decapitare.  La farsa mutò in tragedia.

Ora, all’Italia non auguriamo nuovi flagelli e tragedie, naturalmente, ma se ci risparmiassimo anche uno spettacolo così caparbiamente eseguito da tutti gli attori politici non sarebbe male. Il rischio è infatti che, a furia di tirare la corda, tenere le posizioni, mostrarsi intransigenti, lanciare ultimatum, difendere principi  e mostrare la faccia feroce, si faccia la fine del santo, senza essere stati nemmeno toccati dalla grazia, che difficilmente visita la scena politica. In queste vicende, poi, c’è sempre qualcuno che si distingue per eccesso di zelo. Qualcuno che scherza col fuoco, qualche altro che inciampa casualmente su una miccia o schiaccia per sbaglio il pulsante del detonatore. Si rischia insomma di precipitare davvero nello scenario che tutti dicono di voler evitare: una crisi al buio, senza che il Paese sia uscito dalla recessione più lunga del dopoguerra, e con un Porcellum ancora tra i piedi con cui scegliere il nuovo Parlamento e magari riprodurre il medesimo stallo. Uno spettacolo che in verità non vorremmo veder replicato.

Tutti o quasi, in verità. L’unico che non vuole affatto evitare il voto ma lo chiede esplicitamente è Grillo (qualunque cosa pensino i suoi parlamentari al riguardo, la cui autonomia, a proposito di spettacoli, è inferiore a quella di una marionetta). Ma Grillo vuole il voto proprio perché vuole la crisi al buio, proprio perché vuole votare con il Porcellum, proprio perché insomma vuole spazzare via ogni continuità politica e istituzionale con l’attuale sistema di democrazia parlamentare, non avendo alcun ruolo da giocare in esso.

A teatro, una volta, quando il viluppo della trama si ingarbugliava a tal punto che persino l’autore non sapeva più come risolvere l’intrico, spuntava fuori il deus ex machina che rimetteva le cose a posto. Non pare però che le forze politiche dispongano oggi di una simile risorsa. Il Presidente Napolitano ha già provato a esercitare quel ruolo, ma siamo purtroppo daccapo: in prossimità di una crisi, e con sempre meno mezzi per evitarla. Invece dei colpi di scena, ci vorrebbe allora un supplemento di responsabilità politica, se almeno si ritiene di dover seguire l’interesse generale di evitare la crisi, non quello particolare di addossarla agli altri. Ma lo spettacolo continua, il giorno nove si avvicina, e l’autore della pièce ha così ben nascosto la soluzione del dramma che nessuno al momento sa se tutto finirà col martirio oppure con un salvataggio in extremis.

(Il Mattino, 5 Settembre 2013)