Il trasformismo è peggio del voto

Cosa c’è dopo la crisi? Magari non c’è la crisi, le parole di ieri di Alfano lo fanno pensare (almeno fino alla prossima doccia fredda), e perciò il tentativo di dare risposta a questa domanda si rivelerà un mero esercizio intellettuale. Però va condotto ugualmente, per non arrivare impreparati ad un appuntamento assai difficile, che dovrà essere affrontato con il massimo della lucidità politica.

Non è infatti scontato che, dopo l’eventuale fine del governo Letta, il Paese precipiti verso nuove elezioni. Nel corso di questa difficile estate, il Presidente della Repubblica ha doverosamente e più volte richiamato i partiti ad una valutazione degli scenari che si disegnerebbero qualora la risposta alla crisi economica, in cui il Paese ancora si dibatte restando indietro anche rispetto ai primi segnali di ripresa manifestatisi a livello europeo, fosse una crisi politica al buio, che la mancata riforma della legge elettorale rischierebbe di prolungare. E tuttavia: cosa potrebbe accadere? Nell’attuale ordinamento, lo sbocco elettorale anticipato suppone infatti il previo accertamento dell’impossibilità che si formino maggioranze parlamentari alternative, in grado di assicurare la fiducia ad un nuovo governo.  Allo stato, nessuno è ancora in grado di escludere che, sia pure in maniera raccogliticcia, una nuova maggioranza effettivamente si formi.

Ora, è davvero fuori luogo, di fronte a una simile eventualità, assumere l’atteggiamento moralistico di chi si indigna e scandalizza se, di fronte alla scelta tra il voto e un altro governo, dovesse essere preferita quest’ultima soluzione, e venisse così scongiurato il ricorso alle urne. Tradimento o opportunismo non sono i termini in cui andrebbe analizzato un simile esito. Non basterebbe cioè parlare di infedeltà o di imbroglio, o peggio di compravendita dei parlamentari, o ancora di ghiotte cariche rese disponibili dalle dimissioni dei ministri e sottosegretari pidiellini e di chissà quali altri accordi sottobanco. Il nome sprezzante, per questa pratica invero consustanziale alla natura stessa degli istituti parlamentari, è quello di trasformismo. Ma chi, nella storia del nostro Paese, lo tenne a battesimo, Agostino Depretis (tra l’altro: per formare i primi governi di “sinistra” della storia italiana, segno che la politica ha le sue costanti, le sue stelle fisse), lo presentò con questi forti accenti: «Non è il nuovo, o signori, che noi cerchiamo, noi cerchiamo il vero. E io dichiaro apertamente che le idee buone e vere, le utili esperienze, le prenderò dove che sia, anche dai nostri avversari». Se ci fosse un Presidente del Consiglio dopo Enrico Letta, o magari Enrico Letta medesimo, che fosse in grado di usare simili parole – e poi però di inverarle, aprendo magari una nuova stagione politica, come accadde a Depretis, che dominò la scena politica italiana per circa un decennio –  allora sarebbe persino augurabile un passaggio del genere. Purtroppo però non è quello che sembra si profilerebbe, nell’attuale Parlamento, con le attuali forze in campo ed interessi in gioco.

Restituito perciò  alla politica parlamentare quel che è della politica parlamentare, resta da chiedersi se davvero sarebbe augurabile per l’Italia e per il suo corso politico un nuovo governo, formato grazie a  qualche transfuga del Pdl, qualche grillino di risulta, espulso, epurato o scomunicato, e magari i voti determinati dei senatori a vita (di vecchio e nuovo conio). Ebbene, un simile schieramento  esprimerebbe con ogni probabilità ancora meno energia politica dell’attuale «strana coalizione». Non avrebbe solo il Pdl contro, con tutti i mezzi e in tutti i modi; avrebbe con ogni probabilità anche il Pd assai poco interessato a promuoverne l’azione, soprattutto se ad assumere la guida del partito dovesse essere Renzi. Il quale Renzi dovrebbe peraltro passare in fretta da rottamatore a temporeggiatore: una conversione che non potrebbe non riuscire improponibile ai suoi stessi occhi. L’unica missione politica di una simile maggioranza sarebbe dunque quella di evitare il baratro delle urne, cercando intanto di cancellare il Porcellum. Che è un po’ poco, per affrontare l’incipiente semestre europeo, rinviando necessariamente qualunque proposito di riforma.

In realtà, proprio la stretta di queste convulse giornate dimostra che l’Italia ha bisogno di respiro e prospettiva, non certo di un continuo stop and go, con i suoi inevitabili riflessi negativi non solo sui mercati finanziari e nei consessi internazionali, ma sulla stessa azione di governo e sulla tenuta del tessuto politico complessivo, già sfilacciato e sempre meno credibile. Non è escluso in verità che il governo in carica sappia indicare una prospettiva, se supererà la prova: e sarà allora davvero nel segno di una ridefinizione del sistema politico che potrà procedere, perché non solo il Pdl ma anche il Pd dovranno ridisegnare il proprio profilo tanto più in profondità, quanto più durerà la vita di questo governo. Ma se così non fosse e ci fosse invece la crisi, allora meglio le urne che una maggioranza numerica priva di qualunque collante, e perciò fatalmente meno plausibile anche di quella, «strana», attuale. Saranno allora gli italiani, in quel caso, a determinare col voto la ristrutturazione del sistema e, finalmente, una nuova stagione.

(Il Mattino, 7 settembre 2013)

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