Archivi del mese: ottobre 2013

Il delfino è finito nel secchio

ImmagineNell’ampio mondo delle figure retoriche con cui si racconta la politica italiana, dove svolazzano simbolicamente falchi e colombe, dove Berlusconi resta ancora il Cavaliere per antonomasia e Alfano possiede (nei giorni pari) o non possiede (nei giorni dispari) un certo «quid» dal forte valore metonimico, non ha ancora fatto la sua comparsa la metafora del secchio. La introduciamo ora, a commento di una giornata di forti tensioni non solo per il Pdl ma per il Paese intero, visto che i sommovimenti che si producono sempre più violenti nel centrodestra finiscono inevitabilmente col ripercuotersi anche sul governo.

(L’Unità, 26 ottobre 2013)

I rubinetti chiusi e l’alibi del capitale sociale

ImmaginePer linee molto generali, si può dire che si sono succeduti nel nostro Paese, nel corso di un secolo e mezzo di storia unitaria, tre tipi di culture meridionaliste. In un primo senso, il meridionalismo si è fondato su una logica di riparazione e, quasi, di risarcimento per i danni subiti dall’unificazione (Francesco Saverio Nitti, per fare un nome). In una secondo accezione, meridionalismo ha significato giustificazione di politiche per il Mezzogiorno volte a comare il divario con il Nord in termini di modernizzazione e industrializzazione di un’area depressa e arretrata (Pasquale Saraceno, per farne un altro). In un ultimo senso, purtroppo prevalente negli ultimi anni,la cultura meridionalistica ha dovuto attestarsi su una linea puramente difensiva, contro l’idea che spostare risorse al Sud equivalga puramente e semplicemente a dissiparle, sottrarle al Nord laborioso per sprecarle in un Mezzogiorno fannullone e criminale.

Va da sé che l’idea da contrastare non si presenta solo con questo volto odioso. Ha anche un volto gentile: dopo tutto non siamo ancora diventati tutti leghisti. Viene proposta dunque così: se vuoi un soldo prima devi meritartelo. Chi volete infatti che si metta contro il merito? E siccome il Sud fannullone e criminale quel soldo non lo merita (non lo sa spendere, non ha i requisiti, non ha classe dirigente, ecc. ecc.), meglio dirottarlo altrove che darlo a chi non sa farne tesoro.

Ovviamente, nessuno nutre un pregiudizio così francamente discriminatorio (a parte, al solito, i leghisti): di realtà locali «meritevoli», capaci di percorsi di sviluppo innovativi ve ne sono. Non c’è un solo Mezzogiorno: ce ne sono tanti, tutti diversi tra loro. Ma sminuzzate il Sud in realtà territoriali diverse con problematiche e caratteristiche ogni volta specifiche e proprie, e dell’antica questione meridionale non resterà più nulla, o quasi.

Ora, saremmo davvero ingenerosi se risolvessimo in questo modo l’«equivoco del Sud», per dirla con il titolo di un recente libro di Carlo Borgomeo. Un equivoco che dura da tanti, troppi anni, e che la crisi non ha fatto altro che acuire. L’ultimo rapporto Svimez fotografa una situazione a dir poco drammatica: in termini di calo dei consumi, dell’occupazione, della forza produttiva, di impoverimento generale della società meridionale. Ma il j’accuse lanciato tre giorni fa dal ministro Carlo Trigilia, che ha messo con spietatezza sul banco degli imputati la «manomorta della politica» qualche preoccupazione può destarla. Intendiamoci: l’ingente intermediazione delle risorse finanziarie da parte di un ceto politico meridionale miope e rapace rappresenta un problema, non certo la soluzione. Ma è difficile pensare che il Sud potrà mai farcela se, in base a ciò, si traesse non la conseguenza che c’è bisogno (urgente) di una nuova classe dirigente, ma che basta chiudere i rubinetti della spesa. Come se poi il rigore dei conti pubblici perseguito dagli ultimi governi non avesse finora penalizzato il Sud molto più del Nord.

Non si tratta però soltanto di numeri, ma di filosofie. Cioè nuovamente di culture meridionalistiche, e della convinzione che va purtroppo diffondendosi che il vero gap da colmare non è tanto il divario economico tra Nord e Sud, quasi fosse una falsa ossessione, quanto piuttosto la differenza in termini di capitale sociale, cioè di risorse civiche, di cultura della legalità, di relazioni fiduciarie, di senso delle istituzioni. In mancanza delle quali ogni investimento sarebbe sprecato.

Ecco, di nuovo, il volto gentile di quell’idea solo presuntamente meritocratica, che un meridionalismo senza sensi di colpa deve sforzarsi di contrastare, perché rischia purtroppo di non promuovere lo sviluppo, ma di sanzionare lo status quo: prima infatti devi essere capace di attirare investimenti (il merito), e solo poi è possibile immaginare politiche pubbliche di sostegno (il premio). Ma siccome la capacità di attrarre investimenti non fiorisce da sola – oppure, con diversa fraseologia: siccome l’accumulazione del capitale sociale non è un processo spontaneo ma richiede qualche energico strappo, senza quelle politiche pubbliche di sostegno (senza investimenti in infrastrutture, aiuti al settore produttivo, strategie per l’innovazione, ecc.) quello strappo non si produrrà, e il Sud rimarrà al palo. E sarà pure colpa sua.

E così, liberatici del vittimismo auto-assolutorio del meridionalismo piagnone, tanto inelegante, finiremo col rimanere schiacciati da una colpevolizzazione più odiosa e almeno altrettanto preconcetta. Niente soldi, insomma, perché non li meritiamo. Che però vuol dire, alla fine, cornuti e mazziati: non so davvero se possiamo permettercelo.

(Il Mattino, 25 ottobre 2013)

Se le regole non bastano

ImmagineNihil sub sole novi. Altro che novità, discontinuità, rottamazione: non c’è niente di nuovo sotto il sole. Un sistema definitivo per tenere imbroglioni e furbastri fuori dai partiti purtroppo non è stato ancora inventato, e si vede. In verità, il regolamento del Pd, che si accinge a celebrare il congresso, ha tutte le cose a posto: i garanti, gli organi di controllo, l’anagrafe degli iscritti, le procedure per i ricorsi e così via. Ma ovviamente non basta, se i candidati si combattono a colpi di pacchetti di tessere. La commissione nazionale per il congresso, con delibera n. 19 dello scorso 10 ottobre, ha fissato i requisiti per il tesseramento: l’iscrizione è individuale, sono esclusi dall’Anagrafe degli iscritti gli appartenenti ad altri movimenti politici, chi partecipa al voto sottoscrive una impegnativa dichiarazione di sostegno al partito democratico. Ma è come svuotare il mare con il secchiello: in omaggio ad una retorica irresistibile che chiede alle organizzazioni di partito, e solo a quelle, di scegliere i propri leader non solo tra i propri iscritti ma anche tra gli aderenti dell’ultimora, le primarie sono aperte ed esposte ad ogni vento. Ed anche, naturalmente, ad ogni colpo basso. Se ne sono avuti esempi, e ancora se ne avranno. A Napoli come nel resto del Paese.

La risposta standard a questo tipo di preoccupazioni nel partito democratico è: noi almeno il congresso lo celebriamo. Noi almeno siamo un partito, non una formazione personale o padronale, non un movimento carismatico, non un raggruppamento estemporaneo. Perciò vigileremo, cercheremo di evitare ogni inquinamento, ma il percorso congressuale deciso resta il più democratico e inclusivo.

Sarà, ma non basta. Non si tratta infatti di regole e formalità da rispettare, ma di funzione e identità da recuperare: quello che i partiti hanno smarrito nel progressivo smottamento della seconda Repubblica, complici anche pessime leggi elettorali, e che stentano drammaticamente a ritrovare. Due anni fa Michael Moore dedicò un film al fascino esercitato sui migliori cervelli di un’intera generazione dalla ricerca di sempre più sofisticati algoritmi finanziari. Di recente, uno dei più grandi intellettuali viventi, George Steiner, ha posto la medesima questione: quale futuro stiamo disegnando, se le menti giovani più brillanti sono attratte non dalle istituzioni politiche di un paese, ma solo dalle sue architetture finanziarie. Di questo infatti si tratta: di come portare intelligenze nuove alla guida del Paese, di come formare una nuova classe dirigente. Non sarà naturalmente il congresso del Pd a invertire l’allarmante tendenza denunciata da Moore e Steiner. Ma se i partiti rinunciano al compito di selezionare funzionari e dirigenti all’altezza, se perdono ogni capacità di visione dedicandosi soltanto al rastrellamento di pacchetti di tessere, se rinunciano alle idee, se si mutano in agenzie di collocamento per aspiranti amministratori, se consentono i più spericolati gattopardismi e ripropongono i più impresentabili notabilati, allora i numeri gonfiati del tesseramento potranno anche essere combattuti a colpi di carte bollate, ma metteranno comunque piombo nel corpo del Pd. E a quello napoletano non basterà certo un quesito referendario per restituirgli il colpo d’ala.

(Il Mattino, 24 ottobre 2013)

La Capria e la sfida al lettore italiano: impara a leggere

ImmagineGiusto cent’anni fa, nel 1913, Marcel Duchamp mise una ruota di bicicletta su uno sgabello, e la espose: era il primo ready-made della storia. Il primo oggetto d’arte che non bisognava fare – concepire, poi realizzare, infine cesellare – perché era già fatto. Cinquant’anni fa, poco più, Andy Warhol espose in una galleria di New York i suoi primi barattoli di zuppa di pomodoro Campbell. Trentadue, per l’esattezza. Tra gli interrogativi più profondi che l’opera di Warhol poneva vi era il seguente: si tratta di un’unica opera composta di trentadue pannelli tutti uguali, o si tratta invece di trentadue opere esposte le une accanto alle altre? Per il resto, quel che c’era da vedere era precisamente il barattolo, riprodotto trentadue volte. Ieri, infine, Raffaele La Capria ha inviato una lettera al «lettore italiano», per il tramite del quotidiano Il Foglio, lamentando con garbo ed ironia quanto poco questa figura, forse ormai in via di estinzione, si sia dato pena, negli ultimi decenni, di leggere i libri dello scrittore napoletano. Libri buoni, ben scritti, con gli aggettivi giusti e uno stile ben definito, che però il lettore italiano ha continuato a lasciare sugli scaffali, continuando a comprare invece libri scritti male, che non valgono niente, che sono un monumento all’ignoranza, e che tuttavia si vendono in quantità industriale. Come la mettiamo? Possibile – si chiede La Capria – che solo un mio libro, Ferito a morte,  abbia venduto bene, e tutti gli altri no?

Il direttore del giornale, Ferrara, dà la risposta che ci si aspetta da lui, e salta a piè pari il problema. Io, caro La Capria, ti leggo – assicura Ferrara – come mai non ti basta? Ovvero: perché ti ostini a pretendere, anche adesso che hai novant’anni, che la qualità si incontri con i gusti della maggioranza? Perché vuoi gettare le perle ai porci?

Già: perché ostinarsi? Perché non dovrebbe bastarci che da una parte se ne stiano gli artisti, i letterati, gli intellettuali, gli unici in grado di toccare le più alte sfere dello spirito umano, e da un’altra parte invece rimangano tutti gli altri, con i loro gusti triviali, con le loro preferenze dozzinali, con la loro estetica degradata di massa?

Io sospetto che almeno una parte di questa ostinazione discenda dalla ruota di Duchamp e dal barattolo di Warhol, cioè dal tentativo di forzare i rispettivi confini di quelle regioni: mettere una ruota di bicicletta in un museo significa costringere i visitatori a lasciar perdere la bellezza e a guardare finalmente il museo, il fatto stesso che si sia in quel luogo e che lì l’arte vi venga esposta. Che significa? Cosa rende possibile una simile fruizione dell’arte, e soprattutto a chi la rende possibile? A cosa serve, e soprattutto a chi serve, l’algida distanza fra arte e vita? Allo stesso modo, riprodurre un oggetto di uso assolutamente comune, senza nessun lavorio artistico, senza nessuna particolare ingegnosità, senza l’aiuto del mestiere o l’assistenza di una divina ispirazione significa farla finita con l’ideale, farla finita con la profondità, finirla anche con la sublimazione, e dipingere né più né meno quello che siamo: gente che beve Coca-Cola e mangia zuppa di pomodoro.

Warhol stessa vedeva bene, in realtà, quello che sarebbe potuto capitare, se si fosse presa sino in fondo una simile strada. Un anno dopo la mostra che lo consacrò ad icona dell’arte americana e mondiale, in un’intervista rilasciata nel 1963,Warhol disse: un giorno succederà che ciascuno sarà felice di pensare soltanto a quello che vuole lui, e proprio così, probabilmente, tutti finiranno col pensare le stesse cose. Questo mi sembra quello che sta accadendo, concluse; e questa è anche la ragione per cui La Capria non sarà molto contento di vedere comprese le sue ragioni con i barattoli di Warhol: non è forse l’esito che vorrebbe scongiurare, con i suoi testi, evitare che il mercato editoriale sia dominato da libri prodotti in serie, privi di qualunque differenziazione estetica, tutti uguali come i barattoli al supermercato?  O forse: evitare almeno che si sia persa qualunque percezione del problema? In fondo Ferrara vede bene dove sia il problema, però lo dichiara irresolubile, si limita a leggere La Capria lui solo e a evitare come la peste il supermercato del libro. Ma La Capria no, non si è rassegnato, il suo spirito illuministico lo porta ancora a dire che una via di mezzo fra la letteratura come prodotto squisito per pochissimi eletti e il banale contrabbandato come letteratura ci deve essere, deve essere ancora cercato (siamo sicuri infatti che La Capria non finirà affatto di pubblicare: o almeno ce lo auguriamo).

Non occorre, ora, prendere partito: basta, ripeto, vedere il problema. E poi magari ascoltare il governatore di Bankitalia, Visco, osservare ieri come in Europa vi sia una differenza sensibile, in termini di occupazione, fra diplomati e laureati, mentre in Italia no, le percentuali sono identiche. E in attesa che la teoria estetica si interroghi ancora e sempre su cosa sia arte e cosa no, provare almeno a mettere mano a quest’ultimo problema. Non per far vendere più libri a La Capria, ma per far lavorare qualche laureato in più. E per non rassegnarsi all’estetismo e al cinismo di Ferrara.

(Il Mattino, 20 ottobre 2013)

La verità storica parla da sé

Torno su un argomento che ho già affrontato qualche anno fa («Left Wing», La sinistra che ha paura del relativismo, 27 marzo 2006)

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Vorrei provare a togliere un po’ di evidenza alla diffusa convinzione che l’introduzione del reato di negazionismo sia un atto dovuto, oppure una misura di civiltà, e in ogni caso una misura auspicabile. Dopo il caso dei funerali del boia delle fosse Ardeatine, e nell’anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma, può sembrare decisamente inopportuno imbastire una simile discussione, e tuttavia vorrei provarci lo stesso, convinto come sono di poter sostenere la mia tesi a onore della democrazia, e non in spregio della verità o della morale. Preciso subito cosa sia in discussione: non l’apologia o l’istigazione, che l’emendamento presentato da Felice Casson (Pd) tratta come aggravanti, ma il semplice fatto di «negare l’esistenza di crimini di genocidio o contro l’umanità». Il tema è dunque se debba essere considerato un reato, punibile con la reclusione fino a cinque anni, chi nutrisse ad esempio l’opinione che le camere a gas non sono mai esistite.

A tal proposito, mi sia consentito accantonare la questione, pur rilevante, di come le società contemporanee tendano a «penalizzare», a sottomettere cioè a norme penali,  una quota via via crescente di comportamenti, con risultati spesso assai discutibili. Vorrei prendere infatti la cosa da un altro lato, dal lato del rapporto, in democrazia, fra verità e opinione. Qualche anno fa la condanna dello storico inglese David Irving a tre anni di detenzione, in Austria, per aver sostenuto che le camere a gas non sono mai esistite, sollevò infatti, a questo riguardo, un vivace dibattito, fra quanti consideravano giusta la condanna e quanti invece la criticavano, in nome della fondamentale libertà di opinione, che intendevano dovesse estendersi anche ad opinioni non solo scomode ma addirittura repellenti come quella difesa da Irving, e tanto più repellenti quanto più ammantate di presunta scientificità. Altrettanto repellente – non posso non notarlo – è stato l’atteggiamento fintamente critico esibito solo pochi giorni fa da Piergiorgio Odifreddi, in questi orrendi termini: «non entro nello specifico delle camere a gas, perché di esse “so” appunto soltanto ciò che mi è stato fornito dal “ministero della propaganda” alleato nel dopoguerra. e non avendo mai fatto ricerche al proposito, e non essendo comunque uno storico, non posso far altro che “uniformarmi” all’opinione comune”». In Italia, la filosofa Luisa Muraro fece osservare a suo tempo che, come a scuola non accettiamo che uno studente usi il «secondo me» per fatti storici assodati, così non dobbiamo accettare che nel dibattito pubblico si introduca ogni e qualsiasi opinione, con la medesima auto-assolutoria clausola. Allo stesso modo, aggiungo, non accetteremmo uno studentello che, in stile Odifreddi, si rifiutasse, che so, di affermare, temendo la propaganda «latina», che Cesare passò il Rubicone, non avendo mai fatto ricerche in prima persona. Come dunque tuteliamo e insegniamo la verità nella sede scolastica, così non dovremmo rinunciarvi neppure nel più ampio spazio pubblico, in nome di una libertà laica ma sin troppo rinunciataria: «Si ha paura di dare esca a una concezione autoritaria e fanatica della verità – scriveva la Muraro – ma si deve anche avere paura di lasciare la verità esposta all’uso demagogico e strumentale, e di finire così tutti nel relativismo e nell’indifferenza».

Ecco allora il punto che vorrei sostenere: non c’è ragione di pensare che la libertà di opinione, non assistita dalla norma penale sanzionatoria, ci esponga tutti a un relativismo indifferente e arrendevole. Si può essere meno paurosi e più fiduciosi nella capacità della democrazia di relegare ai margini opinioni come quelle di Irving (o di Odifreddi). In linea di fatto è proprio quel che fa: anche senza la sanzione penale, non tutte le opinioni ricevono uguale accoglienza. È un fatto importante, che dovrebbe stare a cuore a chiunque abbia una concezione robusta della democrazia, come di quel regime che non si affida semplicemente alla conta delle opinioni, ma che proprio attraverso quella conta seleziona verità.  La democrazia non ha cioè solo un fondamento negativo (liberale): nessuno possiede la verità, per questo tutte le opinioni sono lecite; ne ha anche uno positivo: tutti, insieme, scambiandoci opinioni, restringiamo progressivamente lo spazio del falso e camminiamo verso la verità. È la mancanza di questa fiducia (ed eventualmente degli istituti e delle formazioni politiche e sociali che debbono nutrirla) a rendere imbelle una democrazia, e inerme il carattere dell’homo democraticus. Ma, in tal caso, state pur certi che non sarà una norma penale a proteggerlo dalla falsità e dalla menzogna.

(«Il Mattino», 17 ottobre 2013  –  Lo stesso articolo è anche su «Il Messaggero», con titolo Negazionismo, lite sulla legge. Qualche dubbio sul nuovo reato)

Travaglio, Premio Volpone 2013

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Il premio Volpone 2013 è di Marco Travaglio, Dio non voglia lo meriti alla carriera.  Ieri ha deliziato i suoi lettori con una splendente supercazzola giornalistica. Ha scritto: «il noto pensatore dell’Unità Massimo Adinolfi ha confessato: è favorevole all’amnistia e all’indulto sebbene “Berlusconi la sfanghi se in futuro sarà condannato”. Ci voleva tanto a dirlo? Dopo avere intasato intere colonne dell’Unità per tentar di dimostrare che amnistia e indulto non si applicano a Berlusconi, ora si arrende: si applicano e a lui va benissimo così». E poi: «l’Adinolfi scrive che quanti sostengono la verità, cioè che l’indulto si applicherà anche a Berlusconi, è portatore [sic] di una “livorosa morale contra personam”». Il Travaglio ha così creduto (o finto di credere) di poter riprendere in questo modo il mio pensiero, che riporto qui, senza ulteriore commento, perché si veda di quali manipolazioni il noto inquisitore satirico de Il Fatto sia capace: «Seguite, se ne avete lo stomaco, come il suo [di Travaglio, non mio] unico e universale principio etico (chi sbaglia paga) si tramuti in una livorosa morale contra personam: Travaglio sostiene che non debbo preoccuparmi delle condizioni dei detenuti e discutere una proposta di indulto e amnistia per non fare che uno, Berlusconi, la sfanghi, se in futuro sarà condannato. “Se”. Ora, mi pare evidente che Travaglio ne sa più di me su quello che faranno le procure; posso quindi capire il suo grido di dolore, ma non per questo mi convincerà a infliggere pene supplementari a tutta la popolazione carceraria per quel che in futuro potrà accadere. “Potrà”». E a scanso di equivoci avevo aggiunto: «Le lunghe citazioni di cui mi onora dimostrano invece soltanto una cosa, che io non ho mai desiderato che Berlusconi o chiunque altro potesse farla franca». Siccome al Travaglio dà palesemente fastidio dover ammettere di non riuscire a stare dietro agli argomenti altrui, non lo invito a ripetizione sui testi di Platone o di Kant. Non gli ripropongo nemmeno un veloce ripasso di lingua italiana su tipi e significato dei periodi ipotetici. Lo lascio alle Santanché o ai Capezzone con cui è abituato a confrontarsi, e conferisco al Catone de noantri il premio Volpone 2013 per la capacità di imbrogliare e manipolare il pensiero altrui.

(L’Unità, 16 ottobre 2013 – In risposta a “Adinolfi confessa“, di Marco Travaglio, Il fatto quaotidiano, 15 ottobre 2013)

Se Travaglio non capisce

non capisce

Pensavo fosse malafede, e invece sono proprio limiti di comprensione. Ieri il «giornalista» Marco Travaglio è tornato ad avventurarsi pericolosamente sul terreno dell’argomentazione, a lui totalmente sconosciuto, a proposito dell’indulto. Ci sono tre cose che mi obietta (al netto degli insulti): vediamo se posso aiutarlo su tutte e tre, con parole piane e comprensibili a tutti. La prima: siccome mi ero permesso di scrivere, nella mia breve replica di venerdì scorso, che è meglio un colpevole fuori che un innocente dentro, il «giornalista» mi obietta trionfante che quelli che stanno dentro (e che indulto e amnistia metterebbero fuori) non sono affatto innocenti ma colpevoli. Ma che scoperta! Il fatto è che sono stato cattivo, e gli ho giocato un piccolo tiro. Gli ho nascosto le tre righe – pubblicate solo sul blog – in cui spiegavo di quale innocenza parlassi: qual è infatti la colpa o il reato per cui nelle carceri italiane i detenuti devono subire trattamenti e condizioni al limite della tortura? Non mi sognavo dunque di dire (e non ho detto) che i detenuti sono tutti innocenti, ma solo che non meritano trattamenti disumani. Gliela riformulo così, aiutandolo: meglio un colpevole fuori che un trattamento disumano dentro. Ovviamente, il lettore medio e non prevenuto poteva ben arrivarci da solo, anche senza leggere il blog. Ma Travaglio non ci è arrivato, e le tre piccole righe che gli ho celato hanno potuto dispiegare tutta la loro cattiveria, indicando con esattezza il punto oltre il quale la capacità di comprensione del “giornalista” non può andare.

Seconda obiezione: avevo scritto che appoggio la proposta Manconi, che esclude la cumulabilità dell’indulto. Quindi l’indulto non si applica a Berlusconi. Ora, Travaglio obietta anzitutto che Manconi ha un solo voto, al che gli rispondo: bene, ha anche il mio (per quel che vale). In secondo luogo, e soprattutto, il «giornalista» obietta che il nuovo indulto si applicherà a tutte le altre condanne che dovessero piovere sul capo di Berlusconi per gli altri procedimenti in corso. Seguite, se ne avete lo stomaco, come il suo unico e universale principio etico (chi sbaglia paga) si tramuti in una livorosa morale contra personam: Travaglio sostiene che non debbo preoccuparmi delle condizioni dei detenuti e discutere una proposta di indulto e amnistia per non fare che uno, Berlusconi, la sfanghi, se in futuro sarà condannato. «Se». Ora, mi pare evidente che Travaglio ne sa più di me su quello che faranno le procure; posso quindi capire il suo grido di dolore, ma non per questo mi convincerà a infliggere pene supplementari a tutta la popolazione carceraria per quel che in futuro potrà accadere. «Potrà». Tanto più che, a proposito di futuro, non sempre ci prende, quando si avventura su altri terreni. Aveva scritto che una condanna avrebbe avuto conseguenze fatali sul governo: non è andata così. Aveva scritto che saremmo andati alle elezioni quando Berlusconi avesse voluto staccare la spina: non è stato così. Aveva scritto che l’avrebbe fatta da padrone nel governo di larghe intese: non sta andando così.  Aveva scritto che il Cavaliere non uscirà dal Parlamento: non andrà così.

Terza obiezione, la più gustosa. Travaglio mi accusa di incoerenza, causata peraltro dalla spiacevole situazione per cui mentre lui è uomo libero io invece, scrivendo sull’Unità, non lo sarei. Sicché avrei prontamente cambiato opinione e da inflessibile difensore del principio della certezza della pena (in agosto, dopo la condanna del Cavaliere), sarei diventato favorevole al suo oltraggio (adesso, a proposito di indulto e amnistia). Ora, lascio perdere quanto Travaglio avrebbe potuto comprendere se solo avesse letto con un po’ di attenzione la mia replica di venerdì, e mi limito a fargli notare che la clamorosa contraddizione che trova nelle mie posizioni sta in realtà in altro luogo: nella Costituzione italiana. Se infatti essere favorevole a un provvedimento di indulto e all’amnistia significasse calpestare il principio della certezza della pena, sarebbe la Costituzione italiana a calpestare il principio, visto che all’articolo 79 prevede la possibilità di atti di clemenza (a certe condizioni). Le lunghe citazioni di cui mi onora dimostrano invece soltanto una cosa, che io non ho mai desiderato che Berlusconi o chiunque altro potesse farla franca, mentre Travaglio, come ho scritto, desidera che, pur di non fargliela fare franca, non importa chi ci vada di mezzo, se uno cento o mille altri detenuti.

Concludo per sottolineare l’unico punto che mi sta a cuore, non volendo proseguire oltre con questa polemicuzza.  Io non giudico né inaccettabile né vergognoso il parere di chi è contrario a indulto e amnistia. Lo giudico anzi comprensibile, ragionevole, degno di essere discusso, anche se non è il mio. (Lo giudico anche politicamente più accorto, ma non è l’accortezza politica che è in discussione qui). È invece Marco Travaglio che giudica moralmente indecente, supino e prono ai voleri di Napolitano e in siffatte altre maniere il parere di chi non la pensa come lui. Si è impancato a giudice della morale mia personale e del Paese intero, e cade al primo argomento che gli buttano tra i piedi.

(L’Unità, 14 ottobre 2013 – In risposta a “Medaglie” di Marco Travaglio, Il fatto quotidiano, 13 ottobre 2013)

Anche la pietas deve avere i suoi confini

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In questo mondo, vi sono poche cose chiare come il diritto canonico. E sulla celebrazione delle esequie il diritto canonico lo è ancor di più. Canone 1177: “Per qualsiasi fedele defunto, le esequie devono essere celebrate di norma nella chiesa della propria parrocchia”. Canone 1184:  Se prima della morte non diedero alcun segno di pentimento, devono essere privati delle esequie ecclesiastiche: […] i peccatori manifesti, ai quali non è possibile concedere le esequie senza pubblico scandalo dei fedeli”. Nei casi dubbi, deciderà l’Ordinario del luogo.

Ora, dubito che Erich Priebke sia mai stato, in vita, in odor di santità, ma non so, e non tocca a me giudicare, se sia stato fino all’ultimo dei suoi giorni, un “peccatore manifesto”. Quello che so, è quello che la storia racconta sulla sua vita, quello che tribunali hanno stabilito delle sue responsabilità, condannandolo all’ergastolo, e quello che le parole del suo testamento scolpiscono per sempre nella vergogna: l’Olocausto non c’è mai stato, le camere a gas non sono mai esistite.

Nessuna considerazione ulteriore può attenuare questo giudizio. Ma ogni ulteriore considerazione può decidere del modo in cui si giudica non l’altrui disumanità, ma la propria umanità. Fin dove possiamo essere umani? Fin dove possiamo avere pietà? Non si tratta beninteso, di perdonare o anche soltanto di comprendere. Non credo che a nessuno riesca davvero di comprendere non solo l’enormità dei crimini nazisti, ma anche l’irriducibile ostinazione con cui è possibile rimanere ciechi dinanzi ad essi, e mentire agli altri o mentire a se stessi per una vita intera. È possibile però guardare con sgomento il volto di un vecchio, che davanti al mondo rivendica fedeltà al proprio orribile passato, e riconoscere in quei lineamenti ancora e pur sempre il volto, per quanto moralmente sfigurato, di un uomo. Vedere, con il più grande disagio, una inconfessabile ed incancellabile somiglianza. La vergogna e l’infamia non sono cadute infatti soltanto su un uomo, e neppure soltanto su un popolo, ma sulla specie umana. È della specie umana che bisogna inorridire e avere pietà. Kant, il più inflessibile dei filosofi, diceva che la legge morale ci chiama a rispettare non semplicemente l’altro uomo ma l’umanità che è in lui ed è più alta di lui. Ma se più ancora dell’uomo è l’umanità che nell’altro siamo chiamati ad onorare, di essa siamo anche chiamati, con il massimo pudore, a rispondere.

Ora, i funerali sono atti di culto con i quali “la Chiesa impetra l’aiuto spirituale per i defunti e ne onora i corpi, e insieme arreca ai vivi il conforto della speranza” (Canone 1176).  Quando lo fa, quando sussistono le condizioni “ a norma del diritto”, allora la Chiesa celebra le esequie senza imbarazzo. Non si può tendere la mano al peccatore, o andare a casa della prostituta, e provare imbarazzo. Ma la morale laica: come può essa intendere il medesimo compito? Chiedere aiuto per i defunti significa, laicamente, accenderne il ricordo. Arrecare ai vivi il conforto della speranza significa invece, laicamente, augurarsi che qualcosa dei defunti rimanga di valido, di esemplare. Ma se per il boia delle Fosse Ardeatine non vi può essere nessun aiuto spirituale da chiedere, né ai vivi speranza da arrecare – e su quest’ultimo punto concordano non solo il Vicariato e il Comune di Roma ma anche l’avvocato di Priebke, che esclude qualunque cerimonia pubblica, qualunque omaggio che i vivi vogliano rendere al morto – che dire però dell’ultimo compito? Onorare il corpo di un uomo è rendergli sepoltura. E di nuovo siamo interrogati: fin dove possiamo essere umani? Fin dove possiamo avere pietà? Possiamo avere pietà di un corpo, o dobbiamo spingerci fino al punto di negare non solo un funerale, ma anche qualunque sepoltura a un uomo macchiatosi di orrendi delitti e non pentito? O non dobbiamo invece, senza comprendere né perdonare, deporre lo spirito di vendetta? Nessuna domanda ha una risposta certa, né una risposta che valga per tutti. Ognuno decide del modo in cui ne va per lui dell’essere uomo, del modo in cui confessare la propria umanità. Ma, quale che sia la risposta, non possiamo non ascoltare almeno la domanda: non saremo più uomini, non dico affatto moralmente superiori, ma semplicemente più uomini quando avremo saputo raccogliere le spoglie di un vecchio di cento anni, in cui per così lungo tempo ha abitato il male, e provvedere con somma vergogna alla sua sepoltura?

(Il Messaggero, 13 ottobre 2013)

La mia replica alla polemicuzza con Travaglio

TRAVCAT

«Caro Direttore,

rubo un po’ di spazio per una breve replica all’editoriale che Marco Travaglio, con la sua solita squisitezza, ha voluto dedicarmi. Siccome risulto professore, come Travaglio non ha potuto non riconoscere, nel mio articolo gli citavo Platone: meglio subire ingiustizia che commetterla. Siccome Travaglio non è professore, come mi deve concedere, della citazione non si è accorto. Né si è accorto del fatto che il principio morale che gli citavo confligge non, in astratto, con la sua unica, granitica certezza in campo morale – «chi sbaglia paga» – ma in concreto con la sua applicazione, quando essa dovesse comportare ingiustizia, com’è nel caso delle condizioni carcerarie nel nostro paese. Però Travaglio, il Catone de noantri, è convinto che «“chi sbaglia paga” è la base di ogni morale, punto, senz’aggettivi». Bravo, bene, bis. Siccome però risulto professore, dovrei dargli in lettura qualche libro di dottrine morali, per ampliargli gli orizzonti. Ma sono buono, e mi limito a citargli il Vangelo (se non riconosce Platone, riconoscerà Gesù):  “ero carcerato e siete venuti a trovarmi”. Siccome Travaglio buono non è, ma spiritoso sì, magari ora replicherà che io non voglio andare a trovare i detenuti, voglio proprio mandarli liberi. Nel caso, lo rinvio volentieri ad altro professore, questa volta di esegesi biblica.

Quanto al merito: l’altra sera Travaglio sosteneva in tv che potenti e corrotti usano i detenuti, il sovraffollamento, la mole dei procedimenti giudiziari, per restare impuniti. E non si accorge che lui invece non li usa, i detenuti: li sacrifica semplicemente, pur di farla pagare a quegli altri. E tuttavia: «meglio un colpevole fuori che un innocente dentro» è un altro principio morale che uno qualsiasi di sicuro capisce, ma che invece Travaglio, che purtroppo non è affatto uno qualsiasi, non capisce. Però ci scrive sopra lo stesso, con spreco di aggettivi ed epiteti sprezzanti. Siccome sono filosofo non me curo; siccome lui non lo è, sono certo che continuerà.

P.S. Nel finale Travaglio mi invita a dedicare poche righe per rispondere a una sua domanda a proposito di un nuovo indulto per Berlusconi. Me ne basta una: la proposta Manconi esclude la cumulabilità dell’indulto».

Siccome Travaglio stupido non è, ma in malafede forse sì, mi dirà: “quelli dentro non sono innocenti”. E invece lo sono rispetto alle pene aggiuntive inflitte dalla condizione carceraria, ai limiti della tortura secondo l’Unione europea.

(L’Unità, 12 ottobre 2013 – In risposta a “L’amorale della favola” di Marco Travaglio,  Il fatto quotidiano, 11 ottobre 2013)

Indulto e amnistia: Travaglio e quella morale un po’ reazionaria

ImmagineC’è un argomento che si può sempre mettere avanti, per contrastare qualunque proposta di indulto e amnistia, in ogni tempo e in ogni luogo: chi ha sbagliato deve pagare. Va formulato proprio così, senza giri di parole, senza neppure rivestimenti giuridici di sorta: al fondo, non si tratta che di questo. Un bisogno di giustizia non elaborato, a cui anzi ogni ulteriore elaborazione toglierebbe chiarezza, limpidità, rigore. Ed è un peccato che Marco Travaglio giri tanto intorno al nocciolo vero della questione, tirando in ballo Berlusconi, e il tentativo di mandarlo libero, non potendolo più mandare assolto. È un peccato, perché il pezzo condito dal sarcasmo, dalla derisione e dall’indignazione Travaglio lo detta ogni giorno, lo ripete da anni, e sarebbe in grado di scriverlo anche in caso di collisione di un meteorite sulla Terra: tutti scappano, vuoi vedere che il meteorite è precipitato per consentire a Berlusconi di farla franca? Neanche l’orbita di un meteorite potrebbe sfuggire alla vigilanza di Travaglio, figuriamoci il Presidente Napolitano. Ma sfrondate l’articolo di Travaglio di tutto quello che appartiene al repertorio, e vi troverete quella dura, elementare invendicata verità morale: chi ha sbagliato deve pagare. Punto.

Walter Benjamin scomodava il mito per spiegare in quale vicinanza questo ruvido e inflessibile senso di giustizia si tiene con la vendetta, ma non c’è bisogno di alcun corredo di favole mitiche per avvertire questa inquietante prossimità: basta tenere ben desto tutto ciò che nella coscienza moderna del diritto ha portato il senso di umanità e il rispetto della dignità della persona. Ma se umanità e dignità vi appaiono semplici imbellettamenti, formule da azzeccagarbugli, meri pretesti, pallide scuse o addirittura veri e propri imbrogli, e insomma maniere per sottrarre alla giustizia la sua inesorabile severità, allora ritroverete un’altra volta, nella sua forma più pura, la verità di Travaglio: chi ha sbagliato deve pagare. Punto. La troverete dove la trova chi accantona qualunque considerazione moderna di filosofia della pena: e cioè dalle parti della più cieca reazione a codesta modernità. E  così non c’è sovraffollamento delle carceri che tenga. Non c’è trattamento degradante, non c’è condizione al limite della tortura, non c’è contrasto coi principi costituzionali che valga un messaggio del Presidente della Repubblica alle Camere: chi ha sbagliato deve pagare. Punto. È così semplice, così evidente: deve stare in carcere. Deve marcire in galera (perché non c’è espressione più appropriata, viste le condizioni detentive dei nostri penitenziari).

Purtroppo però di verità morali ce n’è più d’una, altrimenti i filosofi non avrebbero di che campare. Così, per ogni implacabile giustizialista che brandisce con la necessaria spietatezza la sua verità, e quindi pure per il principe di tutti loro, Travaglio in persona, si troverà sempre qualcuno che di verità ne conoscerà almeno un’altra: è più ingiusto commettere ingiustizia che subirla. E dunque non si può commettere ingiustizia neanche per riparare a un’offesa, o vendicare un torto.

Ma il giustizialista non vuol sentir ragioni: vuol vedere tutti in galera, tutti quelli che hanno «grassato e depredato l’Italia». Questo sentimento è così prepotente, che perfino Berlusconi diventa uno dei tanti. Agli occhi di Travaglio, il che è tutto dire. E se per tenerli tutti in galera bisognerà sacrificare l’umanità della condizione carceraria tanto meglio: in fondo non si tratta che di delinquenti (o detenuti in attesa di giudizio, anche se Travaglio questi poveri cristi nemmeno li menziona): E se poi nei toni, nell’immagine di un’Italia «paradiso dei delinquenti» dove gli immigrati clandestini vengono a frotte perché sanno che possono «farla franca», si finisce col cadere nei luoghi comuni del leghismo più becero o della destra più reazionaria, poco importa: chi ha sbagliato deve pagare. Punto.

(L’Unità, 10 ottobre 2013)

Tasse, il PD sbanda

ImmagineUna cosa di sicuro gli italiani l’hanno capita: a torto o a ragione, il Pdl vuole l’abolizione dell’Imu. Non si può dire invece che abbiano capito che cosa, al riguardo, vuole il Pd. Ieri è stato ritirato l’emendamento a firma Pd, con il quale si reintroduceva la tassazione per le dimore di lusso, ma il concetto di lusso sotteso alla proposta del partito democratico era così largo e comprensivo che chi scrive, con l’occasione, ha scoperto improvvisamente di vivere per l’appunto nel lusso, dal momento che la rendita catastale dell’appartamento di proprietà supera, sia pure di poco, il tetto dei 750 Euro indicati nell’emendamento. Poco male: bisognerà che me ne convinca, e rifaccia i pavimenti. Ma resta che nel giro di pochi mesi i democratici sono passati dalla ferma contrarietà all’abolizione totale dell’Imu all’accettazione di un compromesso col Pdl e al rinvio della prima rata; poi di nuovo alla contrarietà e al tentativo di reintrodurre la tassazione sugli immobili di maggior pregio, infine ad una frettolosa e non proprio onorevole ritirata.

Ora, un andamento così curvilineo ben difficilmente può essere attribuito ad un sapiente disegno strategico. Ma se non è strategia, di cosa si tratta? Due  sono le ipotesi. La prima è che si tratti di semplice insipienza di singoli deputati, o della difficoltà a governare un gruppo parlamentare decisamente più ampio della forza effettiva del partito (non solo elettorale) e profondamente rinnovato: sia detto, questo, a futura memoria dei laudatori a tutti i costi del rinnovamento della politica. Poiché però anche Monsieur de La Palice capirebbe senza sforzi che se c’era una cosa che il Pd non avrebbe mai potuto ottenere, in questo frangente, da Alfano e dai «governisti» del centrodestra, era proprio la riproposizione dell’Imu, allora è ragionevole propendere per la seconda ipotesi. La quale dice che: non sono pochi, nel Pd, quanti si propongono di gettare scompiglio non solo o non tanto nel campo del centrodestra – che anzi ha potuto ricompattarsi dietro lo slogan del rifiuto della tassa sulla casa – quanto nel governo e nel Pd stesso.

Naturalmente, le proposte puramente tattiche (e di una tattica mal riuscita, visti i risultati non brillantissimi) prosperano nelle fasi precongressuali, prosperano quando più attori si contendono il campo con opposte ambizioni, prosperano infine quando manca una chiara visione politica. Ora, che la prima condizione sussista è fatto legato al calendario, fa parte della fisiologia politica e non mette conto di discuterne. Quanto alla seconda, che produca capolavori di tatticismo è fin troppo evidente. Basta prendere la dichiarazione di Renzi di ieri, a proposito di Imu: “Si mettano d’accordo, per me va bene qualsiasi soluzione”. Ora, che il candidato più accreditato alla segreteria del Pd, e magari futuro leader di governo, trovi che vada bene «qualsiasi soluzione» a proposito del gettito Imu, non so bene se debba far solo sorridere o, anche, preoccupare

Quanto in ultimo alla terza condizione, mettiamola così: ricordando Luigi Spaventa, Franco Debenedetti ne ha indicato il ruolo nell’aver favorito l’evoluzione della sinistra comunista ed ex-comunista dalla «curva di Phillips a quella di Laffer». La curva di Phillips stabilisce una relazione inversa fra inflazione e disoccupazione: al decrescere della prima sale la seconda. La curva di Laffer stabilisce invece che oltre un certo limite di tassazione il prelievo  fiscale smette di crescere, perché le imposte deprimono la crescita. Ecco il tema: la sinistra e le tasse. Ora, io non so a qual punto si sia compiuta l’evoluzione della sinistra italiana. Non so neppure se l’evoluzione debba avere sempre, in ogni ciclo economico, la stessa direzione: osservando lo stato di crisi in Europa, non disdegnerei neppure chi pensasse oggi che un po’ di inflazione aiuterebbe a liberare risorse pubbliche e a combattere la disoccupazione. Quel che però si può con qualche ragionevolezza affermare di sapere, è che tra queste curve il Pd sembra ancora sbandare vistosamente, senza riuscire a prendere una direzione precisa, o a trovare una sintesi. E più passano i giorni, più viene il timore che il Pd il congresso non lo faccia sulla strada da prendere, ma sui pensierini semplici di Renzi o sulle proposte le più fumose e involute, figlie soltanto del desiderio di complicare i percorsi e accidentare il terreno. Le strade diritte, il Pd fa ancora fatica ad imboccarle.

(Il Mattino, 9 ottobre 2013)

Accettare le regole della legalità senza zone d’ombra

ImmagineDei tanti modi in cui il vicesindaco Sodano poteva cercare conforto alla sua posizione, quello che ha scelto non è certo il migliore. Poteva, come ha fatto, spiegare le circostanze e raccontare di come, durante un consiglio comunale a Pomigliano, avvenne il parapiglia che gli è costato una denuncia e una condanna in primo grado per minacce, violenza ed aggressione ad una vigilessa. Poteva, come ha fatto o farà, ricorrere contro la sentenza di primo grado, e giudicare strumentale l’intera vicenda penale che seguì i tafferugli. Poteva, come ha scritto, rivendicare la battaglia politica condotta allora, da consigliere di opposizione, per fermare nuovi insediamenti di centri commerciali. Tutto questo poteva farlo e lo ha fatto, con coerenza rispetto al suo proprio passato e alle sue idee: gliene si può dare atto. Quello che sarebbe stato meglio non fare, tuttavia, è affiancare la sua vibrante protesta di allora alle proteste di oggi contro il Tav, in Val di Susa, e mettere le une e le altre sotto il denominatore comune della disobbedienza civile, e sotto questo nobile cappello citare non solo don Milani o la filosofa Hannah Arendt, ma pure Erri De Luca, che del sabotaggio dell’Alta Velocità è diventato ormai l’autentico paladino.

Il conforto, infatti, il vicesindaco di Napoli non lo ha trovato solo nelle ardue teorie sul diritto di resistenza, ma nel magistero esercitato da De Luca nelle aule universitarie milanesi, dove ha solennemente detto che  «l’essere incriminati di resistenza è un titolo di onore cittadino e va rispettato. Ogni volta che c’è un nuovo arresto, si allarga l’albo dei resistenti. Si entra a far parte di una comunità che dimostra di non lasciar passare l’insulto, l’infamia, l’oppressione, la violenza».

Ora, lasciamo perdere che sotto «l’insulto, l’infamia, l’oppressione e la violenza» che indignano De Luca stanno le decisioni magari sbagliate ma democraticamente assunte dall’autorità pubblica, così come sta pure l’azione della forze dell’ordine e della magistratura, che hanno il dovere di fermare quanti in Val di Susa trasportano molotov, fionde, cesoie e altro materiale: tutto quello che in altra, recente occasione De Luca ha giudicato «necessario» per l’opera di sabotaggio dei cantieri. Lasciamo perdere pure l’allarme dei servizi di intelligence, e se sia vero che la pericolosità delle azioni antagoniste sia cresciuta, e, ancora, se la lotta abbia assunto un significato politico generale, di contestazione globale al «sistema» piuttosto che di tutela della salute e dell’ambiente. Lasciamo perdere tutto ciò che, però, Tommaso Sodano dovrebbe invece tenere presente, essendo ormai un uomo delle istituzioni: De Luca, infatti, lui può anche dire, con ghigno beffardo, che non conosce la lettera inviata da Napolitano al quotidiano La Stampa (dopo il pacco bomba al cronista della Val di Susa), perché non segue «la letteratura delle autorità», ma Sodano, che è un’autorità, quella letteratura non ha il dovere di seguirla un po’ di più?

Ma – ripeto – lasciamo perdere. E stiamo alla celebrazione del diritto di resistenza dello scrittore partenopeo, alla «medaglia al valor civile» per i resistenti arrestati. Ora, è la logica che ci soccorre: De Luca dice che essere arrestati è un onore, ma come la mette allora Sodano, che non si sente affatto onorato dalla condanna comminatagli? La disubbidienza civile, se proprio ad essa vogliamo richiamarci, comporta infatti che si affrontino le conseguenze dei propri atti, non invece che ci si ribelli ad esse. Sodano può ben dire che nulla, nella sua storia personale e politica, ha a che fare con la violenza: non c’è motivo per non credergli. Ma allora cosa c’entrano con la sua appassionata difesa i sabotaggi della Val di Susa e il rifiuto dell’autorità dello Stato? Certo, la legalità democratica può rivelarsi insufficiente, ottusa, persino ingiusta, ma se non se ne contesta la legittimità – come fa Erri De Luca, e come un vicesindaco di una città problematica come Napoli non può fare – bisogna accettarne le regole. Si può obiettare civilmente («civilmente»: sottolineiamolo, perché è importante) ma poi bisogna scegliere in quale albo si vuole essere iscritti: in quello che continua ad aggiornare Erri De Luca, a parecchi decenni di distanza dalla sua esperienza in Lotta Continua, o nell’albo degli amministratori di una città che con la legalità è meglio scherzi il meno possibile. Questa scelta sarebbe di conforto che Sodano la facesse con maggiore chiarezza.

(Il Mattino, 7 ottobre 2013)

Ora coraggio sulle riforme e niente alibi

ImmagineNonostante il successo di ieri, c’è una domanda alla quale Enrico Letta deve ancora rispondere: questo che esce dalla prova parlamentare sarà il «governo che volevamo», visto che fino al giorno prima non lo era, ed era piuttosto quello che non volevamo ma che tuttavia il voto di febbraio ci aveva regalato in sorte? Fino all’altro ieri lo stato di necessità, dal quale era nato, sotto gli auspici determinanti del Quirinale, solo un faticoso «governo di servizio», dettava limiti precisi alla sua azione, per via dei singhiozzi di una «strana maggioranza» per nulla coesa; con il «fatto politico» consumatosi ieri, al termine di una giornata rocambolesca che resterà negli annali della storia parlamentare, quei limiti sono stati modificati: in Parlamento c’è una nuova maggioranza. La maggioranza è nuova non tanto nei numeri, ma nel profilo politico, evidentemente mutato dopo che l’ipoteca posta sull’esecutivo dalla vicenda berlusconiana è scaduta. Prima valeva il «simul stabunt simul cadent», ora non vale più: se cade, anzi decade l’uno, Berlusconi, non cade più l’altro. Questo libera il governo da un pesante fardello, ma comporta anche la fine di un alibi – per ora solo per il governo, domani forse per tutta la politica italiana.

Fino all’altro ieri, era necessario al Presidente del Consiglio mettere tra parentesi la litigiosa e inconcludente «politics» – come aveva detto al momento del suo insediamento – per concentrarsi soltanto sulle «policies», cioè solo sul programma da realizzare. Ancora ieri mattina, nella puntigliosa rivendicazione dell’azione del proprio Ministero, è sembrato che Letta non volesse, forse per una comprensibile prudenza prima del voto, rivendicare fino in fondo meriti precisi nella profonda ristrutturazione del quadro politico che la fiducia avrebbe di lì a poco avviato, ma ora che il «fatto politico» auspicato si è prodotto, dando nuova robustezza alla compagine governativa, la domanda di «politics» si ripropone. E dunque: questo è il governo che volevamo? È questo il governo che ha il profilo politico giusto e le carte in regola per tirare fuori il Paese dalla crisi, per avviare una più coraggiosa azione riformatrice, per mettere mano alle riforme istituzionali, per cambiare finalmente la legge elettorale, per dotare insomma il Paese di uno sguardo finalmente lungimirante, libero da tatticismi di sorta?

Una cosa si può dire fin d’ora: se prima questa carta non era nelle mani di Letta, adesso invece il premier ce l’ha. Deve giocarla. Deve giocarla perché l’Italia ha bisogno di un Paese che governi, e deve giocarla anche per rafforzarsi nel suo stesso campo, nel campo del centrosinistra. Guardando agli eventi politici dell’ultima settimana, forse è difficile cogliere un solo filo di razionalità in quanto è accaduto. E tuttavia è certo che nulla di quel che è accaduto sarebbe accaduto se i due schieramenti, non uno soltanto, non fossero stati entrambi attraversati tanto dalla spinta a proseguire nel sostegno al governo, quanto dalla tentazione di chiudere la partita un’altra volta nelle urne. È evidente che col voto di ieri Berlusconi ha perso: il primo sconfitto è lui. Siccome non sarebbe la prima volta se mutasse la sua sconfitta in una successiva vittoria, lasciamo che siano i fatti a decidere se si tratta della sua definitiva uscita di scena. Quel che è certo, è però che con il Cavaliere ha perso anche, più in generale, la parte che puntava più chiaramente alle elezioni per spostare il baricentro della politica italiana. Ora questo ridisegno è affidato al governo Letta: dal successo della sua azione dipende il nuovo assetto che, a partire dai gruppi parlamentari, può profilarsi nel centrodestra; dal successo della sua azione dipende però anche la contesa aperta nel Pd in vista del congresso, perché proprio la durata e la fortuna del governo possono produrre di fatto quella separazione fra la figura del segretario e quella del premier che ha rappresentato in questi mesi l’insuperabile pietra d’inciampo del partito democratico.

Ma più di ogni altra cosa è nelle mani del governo una chance di riforma della costituzione materiale dell’Italia. Una maggioranza più compatta, un maggior peso in Europa, una scommessa politica che comincia oggi cosa davvero riusciranno a produrre?

(Il Mattino, 3 ottobre 2013)

I moderati immaginari

ImmagineEnrico Letta ha detto in tv che quel che ci vuole è un «fatto politico». Quel fatto è descritto con sufficiente precisione da Ferruccio De Bortoli, sul Corriere di ieri: la formazione, in occasione del dibattito sulla fiducia che si aprirà domani, di «un’area moderata, che ha a cuore famiglie e imprese, ispirata ai valori liberali del Partito popolare europeo».  Un centrodestra moderato ed europeista che dovrebbe dar mostra di esistere dando appoggio al tentativo di Letta di proseguire nell’azione di governo, nonostante la disperata spallata berlusconiana. Un fatto politico: non una fuga alla spicciolata, un manipolo di dissidenti, un disinvolto congedo dal Cavaliere e dal suo destino, ma un’assunzione di responsabilità verso il Paese, la presa di distanza dalla deriva estremistica della neonata Forza Italia e, per questa via, la costruzione di quella casa dei moderati che non ha mai potuto prendere forma sotto la leadership berlusconiana.

(L’Unità, 1 ottobre 2013)