Archivi del giorno: ottobre 13, 2013

Anche la pietas deve avere i suoi confini

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In questo mondo, vi sono poche cose chiare come il diritto canonico. E sulla celebrazione delle esequie il diritto canonico lo è ancor di più. Canone 1177: “Per qualsiasi fedele defunto, le esequie devono essere celebrate di norma nella chiesa della propria parrocchia”. Canone 1184:  Se prima della morte non diedero alcun segno di pentimento, devono essere privati delle esequie ecclesiastiche: […] i peccatori manifesti, ai quali non è possibile concedere le esequie senza pubblico scandalo dei fedeli”. Nei casi dubbi, deciderà l’Ordinario del luogo.

Ora, dubito che Erich Priebke sia mai stato, in vita, in odor di santità, ma non so, e non tocca a me giudicare, se sia stato fino all’ultimo dei suoi giorni, un “peccatore manifesto”. Quello che so, è quello che la storia racconta sulla sua vita, quello che tribunali hanno stabilito delle sue responsabilità, condannandolo all’ergastolo, e quello che le parole del suo testamento scolpiscono per sempre nella vergogna: l’Olocausto non c’è mai stato, le camere a gas non sono mai esistite.

Nessuna considerazione ulteriore può attenuare questo giudizio. Ma ogni ulteriore considerazione può decidere del modo in cui si giudica non l’altrui disumanità, ma la propria umanità. Fin dove possiamo essere umani? Fin dove possiamo avere pietà? Non si tratta beninteso, di perdonare o anche soltanto di comprendere. Non credo che a nessuno riesca davvero di comprendere non solo l’enormità dei crimini nazisti, ma anche l’irriducibile ostinazione con cui è possibile rimanere ciechi dinanzi ad essi, e mentire agli altri o mentire a se stessi per una vita intera. È possibile però guardare con sgomento il volto di un vecchio, che davanti al mondo rivendica fedeltà al proprio orribile passato, e riconoscere in quei lineamenti ancora e pur sempre il volto, per quanto moralmente sfigurato, di un uomo. Vedere, con il più grande disagio, una inconfessabile ed incancellabile somiglianza. La vergogna e l’infamia non sono cadute infatti soltanto su un uomo, e neppure soltanto su un popolo, ma sulla specie umana. È della specie umana che bisogna inorridire e avere pietà. Kant, il più inflessibile dei filosofi, diceva che la legge morale ci chiama a rispettare non semplicemente l’altro uomo ma l’umanità che è in lui ed è più alta di lui. Ma se più ancora dell’uomo è l’umanità che nell’altro siamo chiamati ad onorare, di essa siamo anche chiamati, con il massimo pudore, a rispondere.

Ora, i funerali sono atti di culto con i quali “la Chiesa impetra l’aiuto spirituale per i defunti e ne onora i corpi, e insieme arreca ai vivi il conforto della speranza” (Canone 1176).  Quando lo fa, quando sussistono le condizioni “ a norma del diritto”, allora la Chiesa celebra le esequie senza imbarazzo. Non si può tendere la mano al peccatore, o andare a casa della prostituta, e provare imbarazzo. Ma la morale laica: come può essa intendere il medesimo compito? Chiedere aiuto per i defunti significa, laicamente, accenderne il ricordo. Arrecare ai vivi il conforto della speranza significa invece, laicamente, augurarsi che qualcosa dei defunti rimanga di valido, di esemplare. Ma se per il boia delle Fosse Ardeatine non vi può essere nessun aiuto spirituale da chiedere, né ai vivi speranza da arrecare – e su quest’ultimo punto concordano non solo il Vicariato e il Comune di Roma ma anche l’avvocato di Priebke, che esclude qualunque cerimonia pubblica, qualunque omaggio che i vivi vogliano rendere al morto – che dire però dell’ultimo compito? Onorare il corpo di un uomo è rendergli sepoltura. E di nuovo siamo interrogati: fin dove possiamo essere umani? Fin dove possiamo avere pietà? Possiamo avere pietà di un corpo, o dobbiamo spingerci fino al punto di negare non solo un funerale, ma anche qualunque sepoltura a un uomo macchiatosi di orrendi delitti e non pentito? O non dobbiamo invece, senza comprendere né perdonare, deporre lo spirito di vendetta? Nessuna domanda ha una risposta certa, né una risposta che valga per tutti. Ognuno decide del modo in cui ne va per lui dell’essere uomo, del modo in cui confessare la propria umanità. Ma, quale che sia la risposta, non possiamo non ascoltare almeno la domanda: non saremo più uomini, non dico affatto moralmente superiori, ma semplicemente più uomini quando avremo saputo raccogliere le spoglie di un vecchio di cento anni, in cui per così lungo tempo ha abitato il male, e provvedere con somma vergogna alla sua sepoltura?

(Il Messaggero, 13 ottobre 2013)