Archivi del mese: novembre 2013

Dinastia De Luca. La politica non si rinnova

ImmagineDopo essere balzata agli onori delle cronache nazionali per il consenso quasi unanime raccolto da Renzi in città, grazie all’appoggio del sindaco e viceministro (fino a quando?) Vincenzo De Luca, Salerno rischia di tornarci un’altra volta l’8 dicembre, quando il programma principale della giornata prevede in tutta Italia la sfida delle primarie fra Renzi, Cuperlo e Civati, ma il sottoprogramma prevede il sostegno dei candidati locali all’Assemblea Nazionale, e nel collegio salernitano spicca il nome del capolista della lista di appoggio al sindaco fiorentino: non Vincenzo ma Piero De Luca, il figlio. Il quale ha l’arduo compito di far meglio del papà, che nel turno poi annullato di fine novembre portò in dote a Renzi la modica cifra del 97% di consensi, lasciando a Cuperlo la miseria di 50 voti.

Non è ovviamente la prima volta e purtroppo non sarà l’ultima che la passione politica si trasmette contagiosa di padre in figlio; in particolare al Sud, e non solo a Salerno e dintorni, è frequente la riproduzione patrilineare di quei micronotabilati locali di cui ha parlato Mauro Calise nel suo ultimo libro. Ma la diffusione patologica del fenomeno non lo rende meno spia di un malcostume diffuso, oltre che dell’impressionante fragilità dei partiti politici. L’opinione pubblica cerca affannosamente di trovare ragioni ed esempi per tornare ad appassionarsi alla politica e si trova respinta indietro da successioni dinastiche e conferimento di patrimoni politici in virtù di legami di sangue. Come se non ci fosse alcun bisogno, per i biologi, di inventarsi il discutibile seme della cultura: per la politica basta l’egoismo del buon vecchio gene familiare, la trasmissione avviene lo stesso. Non c’è mica solo Berlusconi col suo eterno conflitto di interessi, insomma. Lui, anzi, tra i tanti difetti ha almeno il merito di non aver (ancora?) indicato uno dei suoi figli al timone della neonata Forza Italia, De Luca invece questo scrupolo pare non farselo, e ha sacrificato per Renzi addirittura il figlio, perché togliesse i peccati (se ci sono stati) del precedente turno di votazione.

Altre storie si raccontavano degli dèi più antichi. Il padre di tutti, Zeus – uno che del potere doveva avere un’idea precisa, visto che per occupare la poltrona in cima all’Olimpo aveva dovuto rovesciare il padre Crono dal trono – pensò bene di donare agli uomini, che cercavano di difendersi dalle fiere radunandosi insieme e fondando città, il pudore e la giustizia, cioè i fondamenti della virtù politica, senza i quali gli uomini non avrebbero smesso di dividersi tra di loro. Ma li regalò a tutti, mica solo a uno dei suoi figli, perché tutti prendessero parte alla vita politica della città. Così, almeno, i greci immaginarono che dovesse governarsi la cosa pubblica.

Scendiamo ora appena un gradino al di sotto di Zeus, dalle parti del sindaco e viceministro De Luca. Vi troviamo tutta un’altra maniera di fare politica, e assai meno pudore (lasciamo perdere la giustizia). Né i figli sognano minimamente di ribellarsi ai padri: piuttosto, aspettano pazienti, come nelle famiglie reali, il momento della successione. Qui – si badi – non c’entrano nulla le inchieste della magistratura che investono o lambiscono il sindaco. Non c’entrano gli avvisi di garanzia perché sono appunto di garanzia, non di colpevolezza. Nell’occhio del ciclone mediatico che da qualche settimana ha preso a soffiare in città c’è anzi il rischio che l’attenzione venga distolta dall’anomalia tutta politica rappresentata da un consenso che non sarebbe imbarazzante, se non pretendesse di trasferirsi per primogenitura. E se non cozzasse clamorosamente con la modesta esistenza del partito democratico cittadino. Che ha percentuali di votanti da far impallidire la Toscana o l’intera Emilia Romagna, e tuttavia ha una vita interna ridotta al lumicino: non discute delle opzioni congressuali neanche per sbaglio, non organizza le tradizionali feste annuali del partito, non ha un vero radicamento nel tessuto sociale e civile della città (ma ce l’ha, ovviamente, nelle società a capitale pubblico). Ed evidentemente non ha neppure una classe dirigente all’altezza se, tolto il padre, non c’è che il figlio che possa mantenere gli stessi livelli di consenso.

E così, nel microcosmo di una città di provincia, in cui pure si ha il privilegio di amministrare senza gli affanni delle «strane maggioranze» romane o le insufficienze dei sistemi elettorali ed istituzionali vigenti sul piano nazionale, si trovano riprodotti tutti i limiti della politica italiana, nel tempo che non accenna a finire della seconda Repubblica.

(Il Mattino, 30 novembre 2013)

Le domande che farei

Immagine3Nell’epoca della personalizzazione della politica, siccome si ritiene che quello che è da conoscere è anzitutto il profilo personale del futuro segretario – i suoi gusti, le sue abitudini, le sue idiosincrasie – le domande giuste potrebbero essere: con quale personaggio dei fumetti ti identifichi, qual è il tuo piatto preferito, ricordi l’ultima volta che hai pianto, a quale animale ritieni di assomigliare, dimmi l’ultimo film che hai visto al cinema.

Siccome però si tratta pur sempre dell’elezione del leader del principale partito politico italiano, forse non è del tutto sbagliato augurarsi che dal confronto televisivo di stasera venga qualche schiarita circa il futuro che Renzi, Cuperlo e Civati immaginano anzitutto per il partito che si candidano a guidare, poi per il governo che il Pd attualmente sostiene in Parlamento, infine per l’Italia e per l’Europa.

Anzitutto sul partito, dunque. Renzi è accusato di usarlo solo come trampolino per il governo, Cuperlo di immaginarlo solo come il luogo in cui coltivare un riflesso identitario, Civati di tenersene alla larga per infilzarlo sempre volentieri, e lucrare così sulla presa di distanza da esso. Chiunque vinca, da segretario eletto dovrà cambiare almeno un poco la posizione che tiene adesso, sicché gli si deve chiedere che partito vuole fare, con quale cultura politica, quali risorse, quale rapporto con iscritti ed eletti. Nella seconda Repubblica ha sempre vinto la discontinuità, la novità, a volte persino l’estraneità rispetto alla politica: c’è da andarne fieri? Hanno il coraggio di dirci dove invece intendono finalmente piantare la loro tenda e metter radici? Tutti e tre vogliono star dentro il socialismo europeo: chi di loro si incarica di spiegarlo a Fioroni e Castagnetti? E lo statuto: gli va bene così com’è, con le primarie le convenzioni e tutto il resto? Funziona, secondo loro?

Poi il governo. Tutti e tre mostrano, con accenti diversi e diverso senso di responsabilità, di voler marcare una differenza rispetto all’azione condotta fin qui da Enrico Letta. Ma, da segretari, lavorerebbero per ridurre quella differenza o per accrescerla? Questo governo, fortemente voluto da Napolitano, è nato per necessità e spirito di servizio. Ora che non c’è più Berlusconi, Dio ce ne scampi e liberi, ritengono di poterlo considerare finalmente il nostro governo, il governo dei democratici? Se no, com’è probabile, come pensano allora di farlo, un governo Pd, in questa o in un’altra legislatura? E in particolare: a quale legge elettorale pensano, e con quali forze politiche? Coi grillini mai? Con Casini ancora un altro poco? Con Alfano solo per questa volta?

Intanto però questo governo c’è, e si sforza pure di governare. Da quali punti programmatici dovrebbe secondo loro ripartire? Qual è il fronte su cui è più debole la sua azione, e più urgente un cambio di rotta?

Infine l’Italia. Forse non sarebbe inutile se provassero a raccontare la crisi, come loro immaginano che investa il paese. Perché non tutti i racconti sono uguali. Un conto è che comincino dal debito pubblico, un altro che insistano sulla debolezza della domanda, sui bassi salari e la forte diseguaglianza, un altro ancora è che lamentino scarsa competitività o troppa burocrazia. Il loro mantra è la modernizzazione, la giustizia sociale o la partecipazione dal basso? Siccome però in tutti i loro racconti si imbatteranno nell’Europa, dovranno anche farci capire come intendono smuovere la Merkel dalle ricette rigoriste che ha finora inflessibilmente propinate all’Unione, resistendo a ogni ipotesi di condivisione del debito, di bond europei, di correzione della bilancia dei pagamenti tedesca. Ecco: qual è la loro ipotesi, al riguardo?

Ma il pubblico di Sky Tv cerca davvero un simile terreno di discussione? Vuol sapere davvero quali parole vere siano finora uscite, ad esempio,sul Mezzogiorno, sulla scuola o sull’ambiente? È davvero in questi termini, di un confronto serrato sui programmi, che è impostata l’elezione del segretario? O sono altri gli elementi che si riveleranno decisivi stasera, quando i candidati saranno insieme in scena, a figura intera, e saranno osservati piuttosto nei loro gesti e nella loro mimica che non nelle loro parole o nei loro argomenti? Nel qual caso, siccome alla domanda sul pantheon personale come l’altra volta con Bersani così questa volta nessuno avrà dubbi, tra Kennedy e Togliatti solo il primo avrà una nomination, la domanda di chiusura potrebbe allora essere: quale strumento suonava Marilyn Monroe in A qualcuno piace caldo? Se poi l’uno o l’altro vorrà anche intonare il motivetto, di sicuro vincerà il confronto.

(L’Unità, 29 novembre 2013)

Rivoluzione liberale. Un ventennio di sfide e sconfitte

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Nel marzo del 1994 Forza Italia, alleata al Nord con la Lega di Bossi e al Sud con il Movimento Sociale di Gianfranco Fini, vince le elezioni. Nel mese di maggio il suo leader, Silvio Berlusconi, forma il governo: per la prima volta dal dopoguerra la maggioranza parlamentare non si richiama, nemmeno formalmente, all’antifascismo della prima Repubblica. Si apre una fase nuova della storia politica italiana. Da allora, fino ad oggi, si susseguiranno i tentativi di rappresentare il nuovo, la discontinuità, la non appartenenza o addirittura l’estraneità: con i vecchi riti, con le vecchie famiglie politiche, con il vecchio personale politico. Chi ci riesce vince, e Berlusconi ci è riuscito in pieno per ben tre volte.

Ma dalle 17.42 di ieri Silvio Berlusconi è fuori dal Senato, a seguito di un voto dell’Aula che ne ha dichiarato la decadenza. Non c’è più nessun gruppo parlamentare che, nel nome, si richiami ancora all’arco di forze entrato in Parlamento vent’anni fa. Nessuno salvo Forza Italia, il cui leader, sebbene decaduto, resta il Cavaliere. Che prova a tornare alle origini ma chiede voti e consensi solo per resistere; non più per fare tutte le cose nuove, come all’origine prometteva.

Nel 1994, Berlusconi promette infatti agli italiani un nuovo «miracolo». L’alleanza politica è fragile: mette insieme un movimento, l’Msi, che ha nella fiamma tricolore il suo simbolo e un altro, la Lega, che predica invece il federalismo e ventila ipotesi di secessione; ma non sono affatto fragili gli argomenti e le parole d’ordine della campagna elettorale. Berlusconi vuole uno shock liberale e liberista: contro la burocrazia, le tasse, la partitocrazia. Dopo vent’anni, la rivoluzione liberale è rimasta quasi solo sulla carta: con i governi Berlusconi la spesa pubblica è aumentata, e la pressione fiscale non è diminuita.

Il primo governo Berlusconi cade comunque pochi mesi dopo, col primo, famigerato avviso di garanzia al premier e il ribaltone di Umberto Bossi. Indro Montanelli aveva consigliato agli italiani di provare il budino: il primo assaggio è durato troppo poco. Dopo una «lunga traversata nel deserto», nel 2001, Berlusconi firma un «contratto con gli italiani» nel salotto televisivo di Vespa e batte Rutelli: agli impegni in economia, per la riduzione delle tasse, la creazione di posti di lavoro, la sburocratizzazione, le grandi opere pubbliche, si aggiungono i temi della giustizia e delle riforme istituzionali: l’intero sistema politico non ha infatti ancora trovato un assetto stabile (né lo troverà in seguito), ed è franato, nel corso della Bicamerale guidata da D’Alema, il ridisegno complessivo delle istituzioni.  Si tratta di un fallimento per certi versi fatale, perché l’intesa naufraga sui temi della giustizia, gli stessi sui quali si consumerà poi la rottura più significativa fra le forze della sua maggioranza: quella con Fini, nel 2010. Naufraga l’intesa, e si allontana definitivamente quella prospettiva semi-presidenzialista che sarebbe sicuramente calzata a pennello del più carismatico dei leader politici italiani. O, se non a lui personalmente, sicuramente alla cultura politica e istituzionale di una destra liberale europea che Berlusconi riuscirà sempre meno a rappresentare.

Però Berlusconi vince, e guida il governo più longevo della storia d’Italia. Ma lo slancio liberale e liberista si infrange quasi subito, dinanzi ai milioni di lavoratori portati al Circo Massimo dalla Cgil di Sergio Cofferati contro l’abolizione dell’art. 18. E, di lì in poi, le iniziative di riforma (sulle pensioni, sul mercato del lavoro con la cosiddetta legge Biagi, sull’Università con la riforma Moratti) saranno giocate in difesa piuttosto che all’attacco, con sempre meno capacità di offrire il disegno di una nuova Italia. Le insoddisfacenti performance economiche del Paese e la mancata riforma fiscale – la promessa delle promesse – porteranno il Cavaliere alla sconfitta elettorale.

L’ultima esperienza di governo, quella del 2008, è la più deludente: il Cavaliere non riuscirà a tirare fuori il Paese dalla crisi, ma ci finirà dentro con tutti e due i piedi. La maggioranza più ampia mai avuta in Parlamento si spezza, mostrando la difficoltà strutturale di Berlusconi di aggregare stabilmente le forze centriste; l’inseguimento delle vicende private (il divorzio, Noemi Letizia, Ruby Rubacuori e tutte le altre, gentili ospiti di Arcore) e quello giudiziario (che si è concluso ieri) si intensificano e ne fiaccano l’immagine. Invece dei segnali liberali mandati nei primi anni, il Cavaliere si incupisce in una polemica antieuropea che ne accentua vistosamente i tratti populisti. Del resto, il popolo della libertà, nato sul predellino di un’auto, aveva rinunciato a strutturarsi come una moderna forza politica, puntando tutto sul destino personale e la forza economica e mediatica del leader.

In mezzo a questo accidentato percorso politico Silvio Berlusconi ha provato (e a volte è riuscito) a metter dentro di tutto: a fare il Presidente operaio e a dichiararsi erede di De Gasperi; a condurre una politica estera marcatamente filo-atlantica e a stringere amicizie con leader poco democratici come Putin o Gheddafi; a promuovere nuove alleanze politiche e a mandarle ogni volta in frantumi; a rinnovare profondamente il ceto dirigente del centrodestra, ma anche a riciclare personale politico del centrosinistra; a tenere sotto uno stesso tetto il filosofo Lucio Colletti e la nipote del Duce Alessandra Mussolini; a fare il liberista pur essendo in sostanza un monopolista e il liberale pur essendo privo del senso liberale per il limite del potere; a fare infine il difensore dei valori cattolici nonostante qualche difficoltà nel rappresentarli personalmente. Di tutto e di più, insomma. E qualche volta di troppo.

Se però si prendono le tre parole che avrebbero potuto disegnare un’altra Italia, a misura di una destra europea: il liberismo, il presidenzialismo e l’europeismo, le si trova oggi quasi del tutto assenti dalla proposta berlusconiana. Il Cavaliere sembra poter tenere ancora il campo solo con il vittimismo contro la persecuzione giudiziaria, con accenti e motivi populisti che fanno concorrenza a Grillo – ma che avvelenano ogni tentativo di intesa sul terreno delle riforme –, e infine con una polemica anti-Euro e nei confronti della Germania che non aiuta certo l’Unione a mutare rotta, ma anzi ne mette in pericolo gli equilibri.

Ma l’uomo è ancora lì, in piazza: a difendere se stesso, la sua storia personale, la sua onorabilità politica. E, finché c’è, sarà comunque difficile fare come se non ci fosse.

(Il Mattino, 28 novembre 2013)

Il Presidente e l’eversore

ImmagineSono trascorsi poco più di tre mesi dalla dichiarazione del 13 agosto, e sul Colle nessuno ha cambiato idea: «di qualsiasi sentenza definitiva, e del conseguente obbligo di applicarla, non può che prendersi atto». Nulla, nel comportamento di Silvio Berlusconi, mostra invece che il Cavaliere voglia prenderne atto. Nonostante il principio della legalità, nonostante il rispetto dovuto alle istituzioni, nonostante la nota del Quirinale. Le parole che il Cavaliere ha usato venerdì, con maggiore veemenza del solito, per esigere – non chiedere ma addirittura esigere – la grazia lo dimostrano. Ma le precisazioni diramate ieri dall’ufficio stampa del Quirinale non riguardano la materia, già oggetto del comunicato di agosto. Già allora, infatti, Napolitano aveva scritto che sebbene il Presidente della Repubblica possa compiere un atto di clemenza anche in assenza di domanda, non può «prescindere da specifiche norme di legge, né dalla giurisprudenza e dalle consuetudini costituzionali nonché dalla prassi seguita in precedenza». Ora, nessuno, in precedenza, si era mai spinto al punto di pretendere di essere graziato. Né alcuno è mai stato graziato ancor prima di aver cominciato a scontare la pena, gravato peraltro da numerose altre pendenze giudiziarie. Le condizioni per un atto di clemenza, dunque, allo stato non sussistono. Ma le parole con cui Berlusconi getta benzina sul fuoco, «prive di ogni misura nei contenuti e nei toni» – come si sottolinea con preoccupazione dal Quirinale – aggravano ulteriormente il quadro. La novità non riguarda dunque il profilo giuridico della vicenda che coinvolge il Cavaliere: quella è chiara da tempo e attende solo di essere completata con la decadenza dal Senato e l’esecuzione della pena; riguarda invece il livello dello scontro politico, che Berlusconi alza minacciosamente, con parole irricevibili. «Non è accettabile che vengano ventilate forme di ritorsione ai danni del funzionamento delle istituzioni democratiche» aveva scritto Giorgio Napolitano il 13 agosto. Ma quel che ha detto l’altro ieri Berlusconi, che si starebbe compiendo un «colpo di Stato» a suo danno e che per questo bisogna reagire con una manifestazione di piazza, è precisamente una simile, inaccettabile ritorsione, che può addirittura mettere in pericolo la tenuta del quadro democratico. Di qui l’invito pacato ma fermissimo con cui si invita il Cavaliere a rimanere ben dentro la legalità, a non prendere decisioni o adottare iniziative che possano situarsi al di fuori della legge.

Il Cavaliere, in verità, si è già posto fuori della legge almeno una volta, dal momento che pesa su di lui una condanna passata in giudicato. Pretendere ora di cancellarla, sovvertirla, rinviarla, bypassarla, o in qualunque altra maniera si voglia dire, significa mettersi un’altra volta contro l’ordinamento giuridico del nostro paese, contro un verdetto definitivo della magistratura e contro gli italiani, visto che il rispetto delle leggi è a presidio e a garanzia di tutti.

Eppure non c’è verso. In ogni modo Silvio Berlusconi cerca di allontanare da sé l’appuntamento con la decadenza. Ieri il grand’uomo ha giudicato «umiliante» l’affidamento ai servizi sociali. Eppure, nella civiltà giuridica moderna la pena, lungi dall’essere semplicemente afflittiva, è al contrario proprio la via attraverso la quale il reo guadagna nuovamente dignità e rispettabilità sociale. È evidente che Silvio Berlusconi non vuole o non sa percorrere quella via, e forse non vuole più neppure ritrovare quella rispettabilità. Ed è un peccato che le bandiere di un partito politico, della neonata Forza Italia, siano levate in alto solo per fargli da nascondiglio.

(L’Unità, 25 novembre 2013)

Pilato tra giustizia e salvezza

ImmagineChi era Ponzio Pilato? La figura del procuratore romano innanzi al quale fu condotto un giovane ebreo di Nazareth, chiamato Gesù, non cessa di interrogare gli studiosi: teologi, biblisti, antichisti, ma anche letterati. Più difficilmente si occupano di lui i filosofi. Lo ha fatto invece Giorgio Agamben, in un breve libriccino appena uscito da Nottetempo, presso il quale Agamben ha pubblicato numerosi altri saggi, tra i quali, di recente, «Il Giorno del Giudizio» e «La Chiesa e il Regno». A dimostrazione di un interesse costante per le tematiche teologiche, alle quali il filosofo romano è giunto dopo avere attraversato i domini della critica letteraria e quelli della teoria politica.

E già questo percorso meriterebbe una piccola riflessione: perché uno dei maggiori filosofi italiani, tra i più letti e tradotti all’estero anzitutto per i suoi studi sulla macchina politica dell’Occidente, dedica le sue ricerche alle figure, alle parole e ai concetti della teologia cristiana? Vi è certamente un’istanza di radicalità in un simile percorso, che si manifesta anzitutto in ciò, che nulla o quasi del lessico politico ed economico contemporaneo  appare oggi, ad Agamben, utilizzabile, come se la crisi che attraversiamo riguardasse prima ancora che le istituzioni, i bilanci o le fabbriche, gli strumenti e le categorie per interpretare il nostro tempo.

Ma torniamo a Pilato, la cui figura Agamben tratteggia con il consueto incastro di citazioni:  quale ruolo ebbe Pilato nella condanna di Gesù? La difficoltà nel rispondere a questa domanda dipende dal fatto che i quattro evangelisti non raccontano il processo colla preoccupazione dello storico o con l’acribia del giurisperito: il loro interesse sta evidentemente altrove. Ciò non toglie che la vicenda abbia per i cristiani uno spicco eminentemente storico. Ma proprio qui sta il problema che Agamben pone al centro della sua rilettura: in che rapporto sta la storia con l’economia della salvezza, in che modo la giustizia degli uomini può misurarsi o essere misurata dal giudizio di Dio?

L’assoluta crucialità del processo diviene evidente, in particolare, se si accosta il confronto di Pilato con Gesù a quello che Gesù ha invece con Giuda. A cui il Figlio di Dio rivolge queste parole, nella notte del tradimento: «quello che devi fare, fallo presto». La consegna alle guardie deve infatti compiersi senz’altro, secondo un indefettibile disegno divino. Pilato no: Pilato discute con Gesù («che cos’è la verità?», gli domanda, pronunciando la battuta più sottile di tutti i tempi, secondo la perfida interpretazione di Nietzsche); Pilato prova a sottrarsi alla responsabilità che gli ebrei del Sinedrio vogliono invece che si assuma e cerca di non macchiarsi del sangue di Gesù (chiedendo al popolo di liberare un uomo, com’era usanza nel giorno di Pasqua, dice il Vangelo); Pilato giunge persino ad affermare di non vedere colpe nell’uomo che gli è stato consegnato.

Pilato, insomma, tergiversa. Ora, indipendentemente dalla valenza propriamente giuridica del processo (che però non è affatto irrilevante, ai fini della sua interpretazione), quel che risalta con evidenza è il carattere reale, non fittizio, del dramma che si svolge dinanzi al prefetto romano. Come se la sentenza non fosse già scritta, e l’esito processuale fosse aperto. Ecco dunque la domanda di Agamben: come entra la storia nei piani provvidenziali di Dio? Come può entrarvi, senza ridursi a semplice commedia? E come d’altra parte può non uscirvi, se il disegno divino è tale solo se deve in ogni caso realizzarsi?

Agamben non scioglie la contraddizione, perché non può essere sciolta. Sul lastricato di pietre del pretorio di Roma si fronteggiano senza mai riuscire davvero a comporsi insieme i due mondi: la giustizia e la salvezza, l’umano e il divino, il temporale e l’eterno. La storia è, conclude Agamben, proprio questa insolubile contraddizione, l’impossibilità di «evacuare» questa croce.

A meno che non si possa rimanere ai margini della storia. Come il Ponzio Pilato immaginato da Anatole France, ne «Il procuratore di Giudea». Lì un Pilato ormai anziano rievoca gli anni lontani del governatorato in Palestina, e alla domanda se ricordi quel tale Gesù che fu crocifisso per qualche oscuro motivo, dopo pochi istanti di silenzio risponde: «Gesù, Gesù il Nazareno? No, non ricordo».

Ecco, forse non la salvezza, ma una piccola saggezza – l’unica, forse, alla portata degli uomini – sta nella possibilità di mettersi di lato rispetto al corso decisivo degli eventi, compiendo certo il proprio ufficio – o coltivando il proprio giardino, come avrebbe detto Voltaire – per accettare poi serenamente, quando viene l’ora, di uscire di scena.

(Il Messaggero, 24 novembre 2013)

Kennedy cinquanta anni dopo. Cosa resta del mito

ImmagineChi ha fondato Roma? Romolo, certo. E Romolo era figlio di Rea Silvia, discendente di Enea. Ma questa è solo la versione della leggenda tramandata da Virgilio e Tito Livio. C’è poi un’altra versione, secondo la quale il vero nome di Enea era Kenea, e discendeva dalla nobile razza indoeuropea dei Kenedets. E non è vero nemmeno che Kenea si fermò nel Lazio: partì invece verso Nord e raggiunse addirittura le coste d’Irlanda, «dove la stirpe keneana ebbe modo di proliferare». Questa mirabolante versione offre particolari anche sul modo in cui «la stanchezza palatale degli irlandesi» trasformò il nome di Kenea: prima in Keneda, poi in Kennedy. E così la figura del presidente degli Stati Uniti d’America, ucciso a Dallas cinquant’anni fa, trova il posto che gli spetta, insieme con la sua quasi regale famiglia, ricongiungendosi alla più antica fonte della mitologia greco-romana.

Naturalmente, non c’è nulla di più strampalato di questa fantasiosa genealogia letteraria, inventata da Manuel Vázquez Montalbán in «Ho ammazzato J. F. Kennedy». Ma che John Fitzgerald Kennedy sia divenuto un’icona del ‘900, cioè il surrogato contemporaneo del mito, questa non è affatto un’invenzione, bensì una realtà ben solida e indiscutibile.

Sicché si danno due vie per avervi accesso. Da una parte c’è la ricerca storica, che però produce risultati sempre rivedibili, a volte controversi, in ogni caso dai contorni meno netti e inequivoci di quello che il pubblico desidera. Così John Kennedy è senz’altro, per gli americani e per il mondo occidentale, il Presidente della Nuova Frontiera, dell’esplorazione dello spazio e delle battaglie sui diritti civili, ma questo non toglie che, ad esempio, abbia interpretato in maniera muscolare la politica estera americana, sostenendo il tentativo fallito di sbarco nella Baia dei Porci, a Cuba, per rovesciare Fidel Castro. E sul Vietnam, anche se è difficile tracciare con precisione il confine che separa le sue responsabilità da quelle del successore Lyndon B. Johnson, è quasi impossibile sposare la tesi apologetica trasferita su pellicola dal regista Oliver Stone, per il quale Kennedy sarebbe stato ammazzato proprio perché intendeva frenare l’escalation militare nel sud-est asiatico. Quanto ai diritti civili, è ormai acclarato che la fine della segregazione razziale negli States si deve piuttosto a Johnson che a Kennedy, anche se fin dalla campagna presidenziale del ’60 Kennedy si guadagnò l’appoggio della comunità nera sostenendone le rivendicazioni e favorendo nel Paese una retorica e un clima anti-segregazionista. Infine, e sul terreno che forse oggi sarebbe più proficuo studiare, quello della politica economica, lì si troverebbe la determinazione dell’inner circle kennedyano a dare un impulso pubblico alla crescita, che contraddice vistosamente la plumbea dottrina neoliberista di questi anni.

Ma il mito vive d’altro. Il mito del più giovane Presidente degli Stati Uniti d’America – i libri, i film, le foto, i Sixties, gli anni Sessanta e il primo vento progressista del dopoguerra – quella è un’altra storia, è l’altra via d’accesso al suo nome, anzi alla sua infrangibile sigla, divenuta quasi un brand: JFK. Per quello ci sono naturalmente voluti i colpi di fucile di Lee Oswald, il corteo presidenziale e la morte in diretta, ma ha sicuramente contribuito anche il volto glamour di Jacqueline, la «First Lady dell’industria guantaria» (Philip Roth), o i figli ancora piccoli che sgambettavano sul prato della Casa Bianca. Tutto, nella parabola del Presidente, ha concorso alla costruzione del mito. A cominciare dai dibattiti televisivi con Richard Nixon, i primi che abbiano rovesciato l’esito di un’elezione presidenziale a vantaggio dello sfidante in forza di un’immagine, della sicurezza e della disinvoltura dimostrate da un uomo politico dinanzi alle telecamere, contro un nervoso e insicuro rivale. Quei dibattiti segnarono, molto prima che da noi, il ruolo decisivo della televisione e in genere della comunicazione nella sfera politica.  L’espressione «democrazia del pubblico», che anni dopo la scienza politica avrebbe coniato, ha la sua prima  fonte battesimale in quei lontani confronti televisivi.

Poi Kennedy andò a Berlino. Di quanti presidenti americani si ricordano nel mondo le parole? Nessuno, o quasi. E invece il discorso di JFK – «Ich bin ein Berliner» – è rimasto scolpito nella memoria politica dell’Occidente, come vessillo del mondo libero contro l’oppressione del mondo comunista simboleggiata dalla costruzione del Muro.

Infine Kennedy morì, assassinato. Dopo la morte, la quantità di scandali che ha riguardato la sua vita privata – la relazione con Marilyn Monroe, il suo vorace appetito sessuale – non ne ha affatto appannato la figura, ma anzi l’ha moltiplicata in una serie sempre nuova e intrigante di racconti, storie, pettegolezzi.

Che si raccontano ancora, come per un tempo molto lungo si sono raccontate le storie di Zeus e delle sue razzie amorose. Perché Kennedy non verrà da Kenea, cioè da Enea, mitico discendente della dea Venere, ma a quanto pare si comportò proprio come se lo fosse.

(Il Mattino, 22 novembre 2013)

Babele primarie. Dieci anni di leader eletti e poi ripudiati

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Simona Panzino, chi era costei? Era ed è un’attivista no global. Che nonostante la siderale distanza politica e ideologica dalla coalizione di centrosinistra si candidò a guidare l’Unione nelle elezioni primarie più partecipate della storia italiana, le prime, tenutesi il 16 ottobre 2005. Si recarono alle urne oltre quattro milioni di elettori, e Romano Prodi ottenne quasi il 75% dei voti (a Simona Panzino, per la cronaca, andò  lo 0,46%). Di lì a poco, il professore bolognese avrebbe portato l’Ulivo alla vittoria nelle elezioni del 2006. Il che non gli bastò a governare, per via di una maggioranza troppo risicata, ma anche per l’eterogeneità della coalizione che lo aveva sostenuto. Croci e delizie delle primarie si manifestarono già in quella prima prova: da un lato una partecipazione democratica persino superiore alle aspettative, dall’altro la difficoltà a tradurre il dato in un progetto politico coerente e coeso.

Il fatto è che le primarie sono sicuramente un metodo, cioè una via, che però il centrosinistra ha imboccato senza avere chiaro né il punto di partenza né il punto d’arrivo. Quanto al punto di partenza, sono le culture politiche di provenienza delle forze che componevano l’Unione (prima ancora l’Ulivo). Forse è ingeneroso portarli ad esempio, ma viene difficile riconoscere il profilo di un candidato alle primarie nel comunista Fausto Bertinotti o nel democristianissimo Clemente Mastella. Eppure furono questi i principali competitors di Prodi, costretti entrambi ad adattarsi alla sfida, ma riottosi abbastanza da resistere ad ogni tentativo successivo di omogeneizzazione dell’alleanza. Non è un caso che Bertinotti sia stato il responsabile della caduta del primo governo Prodi, nel ’98, mentre Mastella sarà quello che lo farà cadere la seconda volta, dieci anni dopo (con la venale complicità del senatore Di Gregorio: ma quella è un’altra storia).

Il fatto è che l’uno e l’altro – e non solo loro, ma tutte le componenti di quella «strana maggioranza» – non intesero mai di dover superare le loro appartenenze e identità, per andar oltre primarie di coalizione così improbabili, che non hanno eguali in nessun altro paese al mondo.

Che questo schema coalizionale, tra parti componenti, non sia stato ancora superato lo dimostra anche il voto del prossimo otto dicembre. In due modi diversi. Uno rimane sotto traccia: il Pd va al voto con il timore che un pezzo del partito possa non riconoscersi nel risultato finale, a riprova che il meccanismo invece di unire e cementare tende a separare, o almeno a mantenere distinti. L’altro è invece esplicito e ufficiale: quello che si sta consumando è infatti solo il primo tempo di una partita che ne conoscerà un secondo, di coalizione appunto, quando si dovrà scegliere il candidato premier. La coalizione, infatti, ancora non c’é. Sicché fra pochi mesi o fra anni il vincitore di oggi dovrà scendere di nuovo in campo: la legittimazione del voto di dicembre non gli basterà. Tant’è vero che il Presidente del Consiglio in carica se n’è tenuto fuori, riservandosi dunque di entrare in lizza in un secondo momento.

In tutto ciò si vedono le difficoltà del punto di partenza, ma anche, anzi soprattutto quelle del punto d’arrivo. Quanti infatti considerano superata la distinzione fra ex-comunisti ed ex-democristiani, o fra diessini e margheritini, rimarcano il fatto che le famiglie politiche non è vero affatto che si siano riprodotte tali e quali nel nuovo contenitore del Pd: si sono anzi mescolate. E portano a riprova il sostegno di Franceschini a Bersani, nel 2012, o quello di Fassino a Renzi e di Fioroni a Cuperlo, questa volta. Il che è vero. Ma resta il problema del punto d’arrivo. Non c’è ancora, infatti, e chissà quando ci sarà (e se ci sarà) un impianto elettorale e istituzionale coerente con le primarie. E finché non vi sarà, la rivoluzione nel modo di concepire la rappresentanza politica che si vuole affidare alle primarie non si potrà produrre, senza riprodurre insieme, di sotto all’ampio mantello del voto al leader, il mosaico di forze, pezzi, appartenenze e identità distinte, che ancora compongono il Pd.

Basta vedere quel che le primarie hanno prodotto, in tutti questi anni di onesto esercizio. Nel 2005 vinse Prodi, si diceva, ma si trattò più di una consacrazione che di una competizione, né valse a metterlo al riparo dai subbugli della coalizione. Nell’ottobre del 2007 Veltroni. Tre milioni e mezzo di voti e percentuali sontuose. A Veltroni riuscì di ridurre al minimo il carattere composito della coalizione (con la vistosa eccezione di Di Pietro) ma il prezzo fu di regalare al centrodestra lo scarto più ampio di voti che si sia mai prodotto nella seconda Repubblica. Poi Bersani, nel 2009, in competizione con Franceschini. Ma le elezioni erano così distanti che anche quella volta, nonostante uno statuto che dicesse il contrario, c’è voluto il secondo turno, contro Renzi. E al tirar delle somme, ora che siamo al quinto giro di giostra in meno di dieci anni – un ritmo vorticoso che è piuttosto il segno di un continuo affanno – difficilmente si troverebbe qualcuno disposto a sostenere che il Pd è cambiato e che una nuova offerta politica ha preso forma grazie alle primarie.

Anche a livello locale è cambiato molto poco. Certo, è nelle primarie per i sindaci che il sistema ha prodotto risultati davvero nuovi: Pisapia a Milano, ad esempio, o De Magistris a Napoli. Ma a parte il fatto che il Pd, che le primarie bandisce, ha ben poco da festeggiare per quelle vittorie, resta evidente che quanto c’è di virtuoso in quei risultati è più effetto della legge elettorale che non del meccanismo delle primarie. A cui il Pd accede, di fatto, quando non riesce a risolvere per altre vie la lotta interna. Un segno di debolezza, più che di forza.

A meno che non vi sia De Luca, il sindaco di Salerno. In quel caso, però, non c’è sistema che tenga: anche se si giocasse a freccette il risultato lo premierebbe con percentuali bulgare. Che però le primarie all’americana ci portino diritti e filati in Bulgaria è difficilmente un sintomo di buon funzionamento. E così sarà, finché almeno si continueranno a pensare come corpi separati i partiti, i processi elettorali, le istituzioni. Si può discutere quale sia il sistema migliore: si può e si deve, anzi. Difficilmente però lo si troverà nelle disordinate mescolanze a cui la seconda Repubblica ci ha purtroppo abituato.

(Il Mattino, 21 novembre 2013)

Democratici, la sfida si gioca sui contenuti

ImmagineLe percentuali decretano il successo di Renzi. Che in vista del voto aperto delle primarie dell’8 dicembre porta a casa il 46,7% dei consensi tra gli iscritti al partito. Ma Cuperlo va meglio del previsto, raccogliendo il 38,4%: quella che doveva essere una passeggiata trionfale per il sindaco di Firenze si sta rivelando invece una battaglia vera, il cui esito rimane aperto. Non tanto perché la distanza fra i due principali contendenti appaia colmabile – benché evidentemente lo sia, sul piano strettamente numerico – ma perché, sul piano politico, il successo di Renzi non sembra più avere lo smalto dei primi tempi. Nella sfida con Bersani, il profilo del sindaco rottamatore era inequivocabile: da outsider, lontano dalle oligarchie di partito, Renzi poteva incentrare con disinvoltura il suo messaggio sull’idea che bisognasse innanzitutto mandare a casa un intero ceto politico. E siccome significa qualcosa che da venti e più anni a questa parte – da Bossi a Berlusconi a Grillo, passando anche per la fiammata di Veltroni – tutti coloro che finora sono apparsi vincenti nell’agone politico hanno sempre premuto sul pedale del rinnovamento (e dell’altrui pensionamento), non fa meraviglia che anche Renzi abbia pensato bene di schiacciarlo con forza.  L’abilità comunicativa faceva il resto, e il vento dell’opinione pubblica gli gonfiava le vele.

Ma in quest’ultima campagna congressuale Renzi è entrato da favorito: la novità si è così un po’ appannata in un gioco di equilibri ed alleanze che ne hanno attutito almeno in parte il registro principale. Non solo, ma la necessità di tenere fin da subito in vista il nodo della «coabitazione» con il governo in carica si è tradotto in una miscela di tatticismo e spregiudicatezza, che ha accorciato le distanze del sindaco dal nefasto «teatrino della politica». In ogni caso, forse perché le vittorie brillanti non sono mai brillanti come quelle a sorpresa, sta il fatto che il risultato di ieri è molto meno dirompente di quanto forse ci si attendeva.

Né può trattarsi semplicemente del peso inerziale del vecchio apparato di partito, che mal digerisce la novità di Renzi. Innanzitutto perché è sbagliato definire voto di apparato il voto degli iscritti: comunque si pensi di cambiare i partiti, e qualunque pastrocchio venga combinato con il tesseramento dall’una o dall’altra parte, sarebbe bene mantenere questa misura di rispetto nei confronti degli aderenti a un’organizzazione politica. In secondo luogo, e sopratutto, perché nelle precedenti primarie i risultati nella platea più ampia dei simpatizzanti ed elettori si sono mantenuti allineati a quelli dei circoli, sicché non c’è da attendersi sfracelli dal voto dell’8 dicembre. Allo stato, i rapporti di forza dicono, e probabilmente ripeteranno nel voto finale, che l’area di consensi che si riconosce nella proposta in senso lato socialdemocratica di Cuperlo è vasta, nient’affatto residuale ma anzi consistente e in certe aree del paese ben radicata.

In fin dei conti, questo è il punto. Il voto per Cuperlo ha contorni ben riconoscibili: rileva poco se siano vecchi o nuovi, rileva invece se l’idea «tranquilla» di partito e di sinistra che Cuperlo propone – fatta di dignità del lavoro, di difesa del ruolo pubblico nell’economia, di diritti civili e sociali in primo piano, di un’idea del partito come comunità politica – sia premiata perché rassicurante per una larga fetta dell’elettorato. Il confronto ovviamente ne guadagnerebbe se dall’altra parte Renzi tenesse fermo un profilo liberal altrettanto ben delineato, senza accontentarsi della vittoria che la voglia di cambiamento gli consegna. La sua «rivoluzione radicale» non ha infatti ancora contorni precisi. Renzi sembra aver chiaro che ci sono sacche di conservatorismo da prosciugare, ma è molto meno chiaro quando si tratta di indicare dove si annidino. Basta vedere come si muove in queste ore sul tema della giustizia: in apertura della campagna elettorale aveva avuto parole inequivocabili sulla necessità di cambiare, ma nei confronti del ministro Cancellieri asseconda lo stesso clima e gli stessi umori che hanno finora frenato, piuttosto che aiutato, il cambiamento.

Forse, le doti di leadership e la capacità di rivoltare davvero la politica italiana Renzi le dimostrerà davvero il giorno in cui proverà ad andare anche contro vento, non solo a profittare della sua direzione.

(Il Mattino, 19 novembre 2013)

Leggerezze e responsabilità

Immagine Mettiamo in ordine i fatti che il Parlamento avrà presente quando domani discuterà la mozione di  sfiducia individuale verso il ministro della giustizia Anna Maria Cancellieri. Innanzitutto, stanno le telefonate note alla magistratura torinese, e portate a conoscenza dell’opinione pubblica, dalle quali risulta la vicinanza del ministro ai Ligresti, al momento degli arresti di membri della famiglia, e il successivo intervento presso il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, a proposito della reclusione di Giulia Ligresti. Su questi fatti, su queste telefonate, c’è già stato un passaggio parlamentare. La posizione del ministro è stata corroborata sia dai comunicati della procura torinese, che dalle dichiarazioni rese dai dirigenti del dipartimento: allo stato, non risulta alcuna intromissione indebita. Le decisioni dei magistrati su Giulia Ligresti sono state prese indipendentemente dall’interessamento del ministro, né tale interessamento rappresenta un’eccezione rispetto alla linea di condotta tenuta dalla Cancellieri in casi analoghi. Se Giulia Ligresti è andata ai domiciliari è stato solo per le sue condizioni di salute, secondo le valutazioni dell’autorità giudiziaria. Di diverso c’è dunque solo il modo in cui il ministro è venuto a conoscenza del caso, per via dei suoi rapporti amicali con la famiglia.

(L’Unità, 19 novembre 2013)

L’Ilva, Vendola e la colpa del ridere

ImmagineNichi Vendola ride. Al telefono. Con quel Girolamo Archinà, potente manager del gruppo Ilva, ora nel pieno della bufera giudiziaria, che nel corso di un incontro con la stampa strappa letteralmente il microfono dalle mani di un giornalista, con un gesto tanto improvviso quanto insospettato. E Vendola, moralmente disordinato, ride. Ad Archinà confessa di aver riso addirittura per un quarto d’ora. Il che non sarebbe tanto disdicevole, se non fosse che il giornalista stava chiedendo conto al patron delle acciaierie Riva delle morti per tumore provocate dallo stabilimento tarantino. Ora, a che possono valere le precisazioni di Vendola, una volta che la telefonata è divenuta di dominio pubblico, come sempre più spesso accade? Mi faceva ridere lo scatto felino di Archinà, non certo il dramma dei tumori, ha provato a spiegare il governatore della Puglia, ma quel che i giornali mettono in pagina è il governatore che ride beffardo della gente che muore.

Ride beffardamente – una cosa che suscita indignazione, vera o affettata, dai tempi di Socrate. Quella volta infatti che le vite dei filosofi furono messe all’asta da Giove e da Mercurio, la cosa andò così, che di fronte allo spettacolo del mondo, in cui tutto si muta continuamente, infinitamente, insensatamente, l’uno, Eraclito di Efeso, non riuscì a trattenere lacrime di compatimento, l’altro, Democrito di Abdera, non la finiva di ridere. Il burlone e il piagnone. Così Luciano di Samosata intercettò lo spirito della loro filosofia – atomi che si agitano nel vuoto, senza fine né scopo – e così i due filosofi presocratici sono stati definitivamente consegnati alla storia della letteratura e dell’arte: da Orazio a Seneca, da Bramante a Rubens. L’uno malinconico e triste, l’altro lieve e distaccato.

Ma poi, si diceva, è arrivato Socrate (cioè Platone) che un senso al mondo ha cominciato prima a cercarlo, poi addirittura a darglielo. E così tanto il compatimento senza speranza di Eraclito quanto il riso quasi cinico di Democrito sono apparsi sempre più immorali, indecenti, quindi censurabili.

Il riso, in particolare, non se l’è passata bene. Di tutte le cose notevoli oppure gravi è stato infatti per secoli proibito ridere. Forse perché non si può ridere davvero senza perdere compostezza, senza mettere in oscena libertà il corpo, e questo, parliamoci chiaro: chi ha un’anima non può permetterselo. Su questa proibizione Umberto Eco ha poi costruito un libro che ha raggiunto fama mondiale, Il nome della rosa, e così tutti grazie a lui hanno scoperto che c’è stato un tempo in cui si poteva forse persino uccidere, per cacciare via il riso dal mondo.

Per secoli l’anima ha chiesto dunque che si mantenessero decoro, dignità e decenza, ma in età moderna il corpo ha ottenuto perlomeno un buon compromesso. Che suonava così: in pubblico, d’accordo, osservo la massima discrezione, ma in privato mi concedo ai sussulti  del riso o agli spasmi del desiderio. A quanto pare, però, che la nostra epoca sia ormai postmoderna, surmoderna o tardo moderna, è chiaro che la distinzione pubblico/privato regge sempre meno. E le risate private fatte in telefonate private finiscono in pasto al pubblico, diventano un fatto pubblico, provocano conseguenze pubbliche.

Coloro che si rassegnano a questa slavina sappiano dunque che d’ora innanzi ogni risata potrà essere usata contro di loro. Se non dai magistrati, sicuramente dai giornali (o almeno da alcuni). Naturalmente Vendola ha il diritto, forse persino il dovere di chiedere che le sue parole siano correttamente interpretate, e di sostenere che mai, neanche in privato, si sognerebbe di venir meno al rispetto dovuto a una tragedia immane. Si capisce: che altro gli rimane di fare? Ma chi vuole invece rivendicare il diritto di ridere in privato di quel che gli pare? Chi, senza violare alcuna legge, vuole essere almeno un po’ scorretto? Chi vuole disporsi almeno una volta al telefono in modalità ironica, o di aperto sarcasmo, oppure di scherno e di macabra ironia, ecco: di un simile mostro morale cosa vogliamo fare? L’unica, mi rendo conto, è non telefonargli. Perciò vi prego: non telefonatemi, perché anche a me, ogni tanto, mi scappa. Lo confesso: nel mondo dell’universale serietà, o forse dell’universale ipocrisia, non potrei trovarmi a mio agio.

(Il Mattino, 16 novembre 2013)

L’Italia perduta nel labirinto della manovra

ImmagineCasa, lavoro, redditi Irpef: provate a togliere questi capitoli dalla legge di stabilità e avrete tolto la cosa stessa. Ma anche se non la togliete, e la avvolgete invece in una nuvola di emendamenti, in una ridda di ipotesi, in una successione confusa di annunci che vanno prima in una direzione, poi in un’altra, prima tolgono poi mettono, prima aggiungono, poi levano – fatelo, e otterrete più o meno lo stesso, deludente effetto. A Bruxelles, il ministro del Tesoro Saccomanni ha registrato le preoccupazioni della Commissione per l’assalto alla diligenza, in agguato nelle pieghe dei lavori parlamentari, e ha subito dovuto promettere che, comunque vadano le cose, i saldi della legge rimarranno invariati. Ma non c’era bisogno di andare in Europa per accorgersi dello stato delle cose. Il fatto è che nelle mosse fin qui compiute è difficile intravedere una direzione precisa. L’opinione pubblica non ha compreso se, alla fine della fiera, si ritroverà con più tasse o con meno tasse sulla casa. Non ha compreso neppure se davvero la diminuzione del cuneo fiscale sul lavoro rappresenti o meno una priorità per il governo, e se l’intervento in programma sia davvero incisivo. Non ha compreso, infine, se vi sarà oppure no una no tax area per i redditi più bassi, e dove sarà fissata l’asticella.

Purtroppo, però, è impossibile ridurre il problema a un difetto di comprensione o a un mero errore di comunicazione. Ed è evidente che non si tratta neppure di semplice mancanza di coraggio: non ci vuole la psicologia per spiegare le titubanze della maggioranza, ci vogliono piuttosto le categorie della politica per spiegare questo lento inabissamento della manovra economica del governo in una serie di interventi continuamente rivisti o rivedibili, di cui l’unica cosa che si cerca affannosamente di tener fermo sono i saldi invariati.

Ora, i saldi invariati sono ovviamente importanti. Sono, anzi, fondamentali. L’Unione Europea chiede rassicurazioni in tal senso e il ministro, giustamente, le fornisce. Ma dal punto di vista del progetto di Paese che il governo intende realizzare, dal punto di vista delle carte che s’intendono giocare per tirare il Paese fuori dalla crisi e rilanciare la crescita, quest’idea che basti leggere l’ultima riga della legge e verificare che i saldi non siano toccati per licenziare qualunque provvedimento equivale puramente e semplicemente all’abdicazione della politica. Che si distingue dalla mera ragioneria proprio perché non considera indifferente a chi dare e a chi togliere, e quali voci di bilancio toccare, purché siano garantiti i numeri finali. La politica anzi comincia proprio quando non basta il rispetto delle compatibilità di bilancio per definire una strategia di azione e di intervento.

Eppure quanto più cresce la discussione intorno alle spiagge da vendere o da preservare, sulla modulazione delle estensioni o delle detrazioni, sulle case o sui servizi da tassare, la politica sembra ritirarsi sempre più indietro, acchittandosi a difendere non una legge intera, ma solo i saldi ultimi. Le mille spinte particolaristiche che si annidano nel Parlamento tornano a prendere forza, e si smarrisce il disegno generale, la direzione precisa e condivisa.

Ora, è vero che in questa dinamica conta il ritardo istituzionale, e per le riforme il governo ha bisogno ancora di tempo per produrre i primi risultati. È vero pure che il quadro politico in cui il governo è chiamato a operare è quello che è: il Pdl è a un passo dalla scissione, il Pd a un passo dalla mutazione. Nell’uno e nell’altro caso, aspettarsi compattezza e chiarezza di intenti vuol dire ingannarsi. Però queste e non altre erano le condizioni alle quali il governo è nato. Non sono intervenute in seguito: erano presenti fin dall’inizio. Non possono quindi valere come un alibi, o come un esimente. Presentarle come tali significa purtroppo ammettere che il governo non è riuscito nel primo e più fondamentale compito della politica: quello di mutare il quadro, e tracciarne uno nuovo.

(Il Mattino, 14 novembre 2013)

Sul web anche gli scacchi fanno politica

ImmagineNulla di fatto. La prima partita del match fra l’indiano Viswanathan Anand, campione in carica, e il norvegese Magnus Carlsen, favorito della vigilia, si è conclusa con una patta. Dopo sole sedici mosse e un’ora e mezza di gioco circa. Eppure il tempo è stato sufficiente a tutti gli appassionati che hanno seguito in diretta l’incontro per rovesciare in rete migliaia, milioni di commenti, a proposito per esempio della tattica attendista del giovane Magnus, che giocava coi Bianchi, o della decisione di Anand di accontentarsi del mezzo punto, invece di approfittare di una posizione lievemente favorevole, per giunta ottenuta coi Neri.

Eh, già: si trattava di scacchi, e della finale del campionato mondiale. Che si concluderà a fine novembre: proprio il giorno della decadenza di Silvio Berlusconi dal Senato, ma anche nel pieno della campagna congressuale del Pd. Che sembra c’entrino, la decadenza e la campagna, come i cavoli a merenda, eppure qualcosina c’entrano. Perché chiunque abbia seguito il gioco si sarà accorto dell’enorme spreco di parole a commento di una partita che quasi non si è giocata. Quel poco che si è visto era peraltro commentato da un bel po’ di grandi maestri, mentre chiunque avesse sullo schermo i due giocatori in bella vista aveva anche disponibili le analisi che i programmi di gioco elaborano a getto continuo: le mosse migliori, le mosse peggiori, e quelle così e così. Però si critica ugualmente, spesso anche con rara sicumera, permettendosi ironie e battute salaci. Invece di seguire e magari, chissà, apprendere. Viene alla mente un celebre passo di quel reazionario di Hegel, il filosofo, il quale lamentava che ormai passa per pensare, e per pensar libero, solo quel pensiero che diverga da ciò che è riconosciuto come vero e valido. Succede così che i grandi maestri commentano e spiegano, e gli utenti della rete sommergono in un amen  quei commenti con i loro propri, infarcendoli ovviamente di motti di spirito e di qualche insulto, di esclamazioni e di faccine varie. Il grillismo applicato agli scacchi.

Non è un fenomeno bizzarro: è la regola, non l’eccezione. È quel che succede sul web. Gli scienziati della comunicazione, che studiano in particolare il campo della politica, parlano a questo riguardo di due fenomeni opposti che però vanno a braccetto (per la gioia di Hegel, golosissimo di simili contraccolpi dialettici). Parlano infatti da un lato di de-democratizzazione, dall’altro di iper-democratizzazione. Nell’uno e nell’altro caso, la democrazia si trova messa a mal partito. De-democratizzazione, ossia progressiva espropriazione della decisione politica a vantaggio di istanze supposte neutrali, tecnocratiche, indipendenti; i computer e i programmi di scacchi, nel nostro esempio; iper-democratizzazione, ossia frammentazione del consenso in un pulviscolo di opinioni individuali, e anzi tanto più individuali, cioè prive di qualunque riconoscimento generale, quanto più prive di significato: sono i cinguettii online che hanno accompagnato i due scacchisti nel corso della prima sfida.

Oggi si gioca la seconda: chissà come andrà. Ma, comunque vada, andrà che l’evento sarà accompagnato dalla nuvola dei commenti. Ora fateci caso: i commenti sono sempre peggio di ciò che commentano, se non altro perché stanno per lo più come battute estemporanee a commento di mosse ben ponderate (oppure di articoli, o i qualunque altra cosa). Elizabeth Suhay ha studiato in particolare il fenomeno dell’«incivility» del commento, e delle sue conseguenze sull’opinione pubblica. E ne ha concluso che il principale effetto è senz’altro la polarizzazione delle opinioni. Si fa il tifo. Si fa il tifo pro o contro la decadenza di Berlusconi. Si fa il tifo pro o contro Renzi. Si partecipa, si dice; non è proprio così: per lo più si parteggia. Quando lo storico francese Renan disse che la nazione è «un plebiscito di tutti i giorni» aggiunse con prudenza: «mi si perdoni la metafora». Non gliel’hanno perdonata. L’hanno preso alla lettera. Forse hanno inventato la Rete apposta per realizzarlo. Grillo almeno la pensa così. Ma lui, l’inventore del Vaffa day, non si preoccupa affatto dell’«incivility» e dei suoi effetti: l’ultima cosa che gli si può chiedere è la moderazione nei commenti. Hegel invece era preoccupato di tutti questi uomini liberi che, come stanno in piedi e camminano (oggi diremmo: come accendono il computer e si connettono), così si sentono sicuri del fatto loro. Ma Hegel, lo ripeto, è solo un cattivo reazionario. E così l’iperdemocratizzazione ce la teniamo, anche se forse comporta qualche serio rischio di de-democratizzazione. Se ne vedono già i segni. E forse sarebbe utile che quelli che si stanno avviando a fare o a rifare partiti vecchi o nuovi ci pensino un po’, magari anche prima della fine del campionato mondiale.

(Il Mattino, 10 novembre)

Parole chiare e speculazioni

ImmagineLe spiegazioni fornite alle Camere dal ministro Cancellieri dissipano le zone d’ombra che si erano addensate intorno ai due punti sollevati nei giorni scorsi a proposito del suo comportamento: la natura dell’intervento del ministro presso il Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria; la natura del trattamento riservato a Giulia Ligresti. Il ministro non ha mai sollecitato la scarcerazione della detenuta, né ha influenzato le decisioni assunte dalla magistratura. Sull’uno e sull’altro punto concordano tanto le dichiarazioni dei dirigenti del dipartimento, quanto quelle della Procura. Il vicecapo del Dap, Francesco Cascini, ha infatti riferito che in almeno una quarantina di casi il ministro ha segnalato casi critici, e che in molti di questi casi si è fatto ben più di quanto si sia fatto per la Ligresti. Il procuratore capo Giancarlo Caselli, per parte sua, ha affermato che è destituita di ogni fondamento qualunque illazione circa l’eventuale ingerenza del Guardiasigilli nelle decisioni del gip di concedere gli arresti domiciliari. Che il ministro Cancellieri sia venuto a conoscenza di una situazione a rischio per via dei rapporti di amicizia privata intrattenuti con la famiglia della detenuta non ha dunque influito né sul comportamento della magistratura né su quello dell’amministrazione penitenziaria. Non vi è perciò alcun fatto concreto in virtù del quale si possa mettere in dubbio la parola di Annamaria Cancellieri, quando afferma di non aver esercitato alcuna pressione a favore di Giulia Ligresti.

(L’Unità, 6 novembre 2013)

Bill, Mark e il conflitto irrisolto sulla gerarchia dei bisogni umani

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«Immaginiamo di fondare una città!» esclama Socrate al Financial Times, conversando con i due fratelli minori di Platone: Mark Zuckerberg e Bill Gates. Se avete letto i libri o visto al cinema la mirabolante saga di Percy Jackson, la commistione fra l’antico mondo greco e l’avveniristico mondo dell’high tech non vi sorprenderà. Perciò proseguo. Dunque: gli uomini vivono in comune, spiega Socrate al giornale,  perché nessuno è autosufficiente e anzi ognuno ha molti bisogni. Il primo e principalissimo dei quali è raccogliere il cibo per continuare a viverre. Giusto, osserva Bill. Poi ci vuole una casa, dei vestiti: le cose essenziali, insomma. «The basic things», ripete compiaciuto il fondatore di Microsoft, mentre il cronista del giornale londinese annota tutto. Ma ora chiediamoci come vivranno le persone che hanno bisogno di organizzarsi insieme. E soprattutto se si accontentino davvero di poche, minime cose. Perché quello che accade alla città immaginata da Socrate è che ben presto si riempie di un mucchio di altre esigenze che non è facile gestire né soddisfare. A meno che non disponi dei PC di Bill e non metti tutti in rete. «Quel che ci vuole per migliorare il mondo è la connettività»sentenzia pronto Mark Zuckerberg, il fondatore non di una città ma di un social network, Facebook. Forse ai tempi di Socrate la rete non sarebbe stata strettamente indispensabile per i pochi cittadini liberi che si incontravano per le vie di Atene, ma nella odierna visione globale di Zuckerberg è invece massimamente urgente abbattere i costi e portare i quasi tre miliardi di utenti della rete a cinque miliardi. «Collegare il mondo intero è la sfida più grande che ha dinanzi la nostra generazione», conclude Mark ispirato.

Bill invece scrolla la testa (anche Socrate, per la verità). «Nella gerarchia dei bisogni umani, i computer non si trovano nei primi cinque posti», osserva amaro. Prima vengono, per esempio, le medicine. «Cosa è più importante, il vaccino contro la malaria o la connettività?» chiede Bill a Mark, e si capisce che ha già la risposta in tasca: il vaccino è più importante, e infatti Gates ha impegnato la Fondazione che dirige i suoi sforzi di miliardario filantropo nella ricerca di un vaccino efficace contro la malattia. Solo che quella Fondazione, gli obietta Socrate, investe nella ricerca i soldi fatti con i computer. E però, ce ne fossimo stati alla prima idea di una città frugalissima ed austera, i problemi della malnutrizione e delle malattie non sarebbe neppure sorti. Perciò il povero Bill non capisce come i suoi colleghi miliardari donino ingenti risorse per aprire la nuova ala di un museo, invece di spendere quelle somme per prevenire le malattie che causano la cecità: è un non senso, è come portare i ciechi a visitare il museo, protesta. Ma Zuckerberg, che ha letto la Repubblica di Platone e conosce l’argomento, non esita a rispondergli: non sarà che il mondo che tu hai in mente, privo com’è di qualunque abbellimento, comodità, agio, senza i musei e anche senza la Repubblica di Platone, è «buono per i porci» più che per uomini?

Non è un’obiezione di poco conto. Tutta l’indignazione di Bill Gates – che è poi la stessa del Discorso sulle, scienze e sulle arti di Jean Jacques Rousseau, fatte salve le differenze di portafoglio fra i due – non è sufficiente a cancellare l’impressione che tirare una netta linea di demarcazione fra i bisogni necessari e quelli non necessari, per lasciar perdere i secondi e badare soltanto ai primi, equivale a buttare via anche un bel po’ di umanità. Magari fossimo uomini in virtù dei soli bisogni necessari! Certo, quelli non necessari sono rigonfi di «umori malsani», come diceva Socrate anni fa, cercando di mettere ordine e giustizia nella sua città. Perciò viene fatto di domandare: ma è meglio costruire le piramidi o procurare cibo alle popolazioni? Meglio mandare l’uomo sulla luna o debellare le epidemie nei paesi poveri? Gates ha ragione: bisogna dare prima cibo e medicine. Forse la cosa va fatta persino prima di inventare il personal computer. Ma il prima e il poi sono maledettamente intrecciati insieme, perché intrecciata è la stessa natura umana (oserei dire: la stessa vita di Bill Gates), e non la si riesce a raddrizzare senza snaturarla del tutto. Oppure senza abbrutirla. Se così non fosse, Platone non avrebbe scritto altri otto libri per completare il disegno della sua Repubblica ideale, dopo la prima chiacchierata fra Socrate e i suoi due fratelli.

Però concediamolo pure a Gates: un conto è rendere problematica la «gerarchia dei bisogni umani», un altro è capovolgerla del tutto. Anche perché abbiamo giocato sin qui con gli anacronismi, ma almeno una data va messa al posto giusto. Il discorso di Rousseau, animato dall’aspirazione a una rigenerazione profonda della società corrotta dell’epoca, è del 1750. Non crediate: all’appuntamento con la rivoluzione non mancava poi tanto.

(Il Mattino, 3 novembre 2013)

Primarie, che brutto spettacolo

ImmaginePiù avanti, più moderno di tutte le altre formazioni politiche, il partito democratico fa le primarie. Sono una cosa americana. O almeno: oltre oceano ci fanno un Presidente degli Stati Uniti, volete che non bastino per il segretario del Pd, o per un segretario di provincia? E poi sono una roba nuova, all’altezza del XXI secolo: i defunti partiti novecenteschi non ci avevano mai pensato. Cosa dice invece l’avanzatissimo statuto del partito, all’articolo uno? Che il Pd è un partito di «elettori  ed iscritti». Mica solo di iscritti, quelli che hanno così tanto tempo da perdere, che lo trascorrono come sfaccendati nei circoli; ci sono anche gli elettori, quelli che nel circolo non entrano mai, ma sentono insopprimibilmente di appartenere al Pd il giorno del voto. Con squisita sensibilità democratica, gli elettori non hanno infatti smesso di tesserarsi nemmeno un attimo prima di votare, pur di partecipare al sacro rito. Il Pd voleva primarie così aperte, anzi così spalancate, da non chiudere il tesseramento per tempo, per esempio al momento dell’indizione del congresso. Ci avrebbe guadagnato la regolarità delle operazioni congressuali. Ma il fuoco della partecipazione democratica doveva consumarsi tutto, e comprendere anche le tessere comprate un tanto al chilo, o un numero di iscritti che qua e là supera quello dei votanti. Incidenti di percorso. Che però si sono verificati un po’ ovunque: a Napoli come a Caserta (dove non ci si fa mai mancare nulla), ma anche a Roma e in Sicilia, nel Veneto e in Puglia, in Umbria e in Calabria. E via elencando.

Ma lo statuto non demorde e anzi insiste. Articolo due: i soggetti della vita democratica del partito sono da una parte gli iscritti, dall’altra gli elettori. Il fatto che gli iscritti costituiscano una platea chiaramente definita, mentre la coorte degli elettori abbia connotati decisamente più vaghi (e formi perciò code improvvisate, e comprenda stranieri reclutati alla bisogna) non scoraggia l’ansia di democrazia del partito. E Dio sa se non ve ne sia bisogno!

Ma di cosa, precisamente, c’è bisogno? Lasciamo infatti perdere la retorica della partecipazione e domandiamoci: c’è anche un solo elettore il quale, dopo essersi frettolosamente tesserato senza aver mai pensato di farlo prima, prenderà d’ora in poi a frequentare il circolo e trarrà nuove motivazioni ideali per il suo impegno? Temo di no. Temo che non ve ne sia nemmeno uno.

Allora prendiamo la cosa da un altro lato. C’è qualche dirigente democratico il quale abbia voglia di sostenere che la fase congressuale svoltasi nei giorni scorsi ha consentito al Pd di migliorare la qualità della sua classe dirigente, e voglia portare esempi, in proposito? Sarei curioso di conoscerli.

Ma c’è di più: il Pd ha tenuto distinti il rinnovo delle cariche di partito ai diversi livelli. Il fatto che il livello provinciale si chiuda indipendentemente dalla scelta del segretario nazionale è stato motivato con l’esigenza di evitare il formarsi di cordate, che avrebbero soffocato la discussione e la libertà di schierarsi secondo il proprio libero convincimento. Risultato: nessuno ha visto la mitica discussione materializzarsi da qualche parte, e in luogo delle cordate nazionali sono potuti ricomparire, più protervi di prima, i signori delle tessere, che non hanno dovuto neppure fingere di stare in campo per Cuperlo o per Renzi, per Pittella o per Civati, perché era tutt’altra (e meno nobile) partita.

C’è di più, e pure di peggio: dichiarare infatti che il legame con il livello nazionale avrebbe comportato l’ingessatura del dibattito significa confessare implicitamente che sul piano nazionale non si confrontano più opzioni programmatiche o ideologiche, roba del secolo scorso, ma solo gruppi, alleanze, schieramenti.

Diciamola tutta, allora. Il Pd avrà sicuramente un problema di leadership. Ma che le primarie – almeno: le primarie all’italiana – costituiscano il luogo in cui un leader nasce e si afferma è tutto da dimostrare, visto che il Pd procede da quando è nato a colpi di primarie. Berlusconi, invece: lui non ne ha fatta una. Come non ne hanno fatte  quelli del Novecento, i Togliatti e i De Gasperi, i Craxi e i La Malfa. Che non erano leader, in realtà: erano proprio capi. Forse, allora, se i futuri leader si dimostrassero tali sul terreno delle idee, dei programmi o dell’azione di governo sarebbe una buona cosa, per il Pd e per il Paese tutto.

(Il Mattino, 2 novembre 2013)