Archivi del giorno: novembre 1, 2013

Favori o solo umanità? Cancellieri nella bufera

ImmaginePrima domanda: può un ministro della Repubblica, a conoscenza dello stato di grave sofferenza di una detenuta, interessarsi presso le autorità competenti delle condizioni della detenzione, e chiedere attenzione per lo stato di salute dei carcerati?

Seconda domanda: può un ministro della Repubblica, informato dalla facoltosa famiglia di una detenuta eccellente, alla quale è legata da rapporti di amicizia, raccogliere le preoccupazioni per la salute della detenuta, attivarsi personalmente presso il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria e richiedere un supplemento di indagini per il caso che le sta a cuore?

Terza domanda: può il Guardasigilli Annamaria Cancellieri, in contatto con la famiglia dei costruttori Ligresti, nelle cui società il figlio del ministro ha lavorato, sentire al telefono Antonino Ligresti e intervenire poi presso le strutture del suo ministero a favore della nipote Giulia Ligresti, ridotta agli arresti?

Le tre domande insistono sulla stessa vicenda, naturalmente. E la terza, quella coi nomi e i cognomi, riceve probabilmente una risposta diversa, secondo che la si consideri più vicina alla prima, oppure alla seconda domanda. La seconda, infatti, alza il velo sui rapporti personali tra le figure coinvolte, e mostra così l’aspetto sgradevole della vicenda, che sembra cadere tutta dentro il cerchio magico di un’élite ristretta, legata da relazioni, rapporti, interessi comuni, e perciò in grado di offrire una protezione e un privilegio che vanno al di là della legge (anche se non contro). Tutti possono finire in carcere, insomma, ma solo un Ligresti può chiedere a un ministro di intercedere per un membro della famiglia.

Attenzione, però: la prima domanda non è solo un esercizio retorico, né un resoconto soltanto ipocrita dello stesso fatto. C’è una dimensione di umanità nell’intervento del ministro? C’è spazio, dentro il perimetro della legge e dei compiti istituzionali che anche un ministro deve osservare,  per una premura, per una sollecitudine personale? Detta in altro modo, con un altro esempio: se il portiere dello stabile dove, per ipotesi, vive da tempo un ministro della Repubblica italiana, le si avvicina e le chiede di interessarsi alla figlia, che per una brutta faccenda è finita in carcere, possiamo escludere che il ministro si sarebbe attivato, e se lo avesse fatto l’avremmo trovato allo stesso modo sgradevole? Proviamo a situare ancora meglio lo spazio di intervento del ministro, modificando ulteriormente l’esempio: se il portiere dello stabile chiede non al ministro ma a voi, che vi abitate, di darvi pena per sapere che succede alla figlia; oppure, se tocca proprio a voi una simile disgrazia e conoscete qualcuno che può darvi un supplemento di informazioni, e dimostrare un interessamento, o dimostrare quanto meno che il caso è seguito, lo fareste, chiedereste di intervenire, oppure lascereste, come si dice con spietata esattezza, che la legge, la procedura, l’amministrazione facciano il loro corso?

In verità, se vivessimo in un paese che non deviasse quotidianamente da quel corso, forse saremmo meglio disposti verso una simile domanda. Ma siccome viviamo nel paese del familismo amorale, nel paese delle caste (al plurale, perché non c’è mica solo la casta dei politici, ed anzi, fra tutte, forse oggi quella politica è la più vulnerabile), siccome il nostro capitalismo di relazione va avanti per accomodamenti, per patti di sindacato, per piccoli ricatti e grandi favori, allora non abbiamo la possibilità (o la credibilità) per aprire tutto il ventaglio delle domande che la vicenda Cancellieri suggerisce.

Anche perché la libera variazione fantastica con cui produciamo gli esempi e moltiplichiamo le domande subisce da troppo tempo il brutale richiamo alla realtà: che direste di un primo ministro che telefona a tarda ora in questura e si interessa scrupoloso di una ragazza marocchina, sostenendo che è egiziana? Oppure: che direste di servizi stranieri con assai scarsa sensibilità democratica che mettono sull’attenti funzionari del ministero dell’interno italiano, per trasferire nel paese d’origine la moglie e la figlia minorenne di un dissidente?

Perciò ci tocca richiudere mestamente il ventaglio, e rimandare ad altra circostanza ogni filosofico esercizio di comprensione. 

(Il Mattino, 1 novembre 2013)

C’era una volta la libertà di coscienza

ImmagineI precedenti non sono soltanto materia per fini giuristi: contano anche nel giudizio storico-politico. Così, la discussione che sta impegnando la Giunta per il regolamento – voto palese o voto segreto sulla decadenza di Berlusconi – può ricevere un po’ di luce da qualche caso analogo.

Per esempio Andreotti. Maggio 1993. La data è importante: siamo al centro del biennio funesto che segnò il tracollo della prima Repubblica, anche se non il decollo della seconda. Il Parlamento è chiamato a decidere sull’autorizzazione a procedere contro il senatore Giulio Andreotti. Ed è lo stesso Andreotti a chiedere, nell’occasione, il voto palese. Una scelta quasi obbligata: prima c’era stato un diniego, per analoga richiesta avanzata nei confronti di Bettino Craxi. Dopo invece ci sarà l’abolizione pura e semplice dell’istituto dell’autorizzazione a procedere, in servizio da quasi cinquant’anni di vita repubblicana, e l’equiparazione secca del parlamentare al «cittadino normale». Così si scriveva allora sui giornali, con toni che anacronisticamente si potrebbero dire grillini.

Così come suona sinistramente grillina – lo si può dire? – l’enfasi sulla trasparenza che accompagnava allora ed accompagna ora la decisione. Come se non ci fosse nulla che il segreto debba mai tutelare. O come se il segreto fosse soltanto il luogo ignobile dell’imbroglio e del tradimento, e non anche quello nobile della protezione della libertà di coscienza.

Ma ci sono le procedure. C’erano anche allora, nel ’93. E anche allora occorreva un’interpretazione autentica, prodotta alla bisogna, che giustificasse il ricorso al voto palese, anche «in previsione di future normative di maggiore ampiezza», come disse l’allora Presidente del Senato Giovanni Spadolini. Che voleva dire: anticipiamo col voto palese la cancellazione dell’istituto. E pure alla Camera, presidente Napolitano, prevalse – sembra quasi si debba dire: a furor di popolo, nonostante si trattasse di lavori d’aula – la reinterpretazione della norma, per cui si sarebbe dato da lì in poi non un voto sulla persona, ma «sul bene della rappresentanza parlamentare nel suo complesso», come disse l’allora capogruppo della Democrazia cristiana, Gerardo Bianco. Non diversamente chi sostiene oggi il voto palese ritiene che non di voto sulla persona si tratta, ma sullo «status di appartenenza al plenum del Senato», o qualcosa del genere.

Le differenze tra i due casi ci sono, eccome, ed è inutile elencarle. Ma mutate pure tutto quello che c’è da mutare: siete comunque di fronte all’esigenza di rivendicare una prerogativa parlamentare, contro un’opinione pubblica che, allora come ora, legge prerogativa e intende privilegio, quando non sopruso. E soprattutto, allora come ora, l’aspetto più sgradevole della vicenda non sta tanto nelle determinazioni che dovessero essere assunte, in un senso o nell’altro, ma nelle motivazioni che sembrano sostenerle. Perché, certo, il centrodestra, non avendo (purtroppo) saputo assumere una fisionomia diversa da quella del partito personale, riesce poco credibile nella difesa di un’istituzione o di un principio e molto agguerrito piuttosto nella difesa di una persona; ma è soprattutto il centrosinistra che non riuscendo (purtroppo) a mantenere una propria fisionomia indipendentemente dagli umori di piazza, avverte il clima, sente il fiato sul collo e, prontamente, si adegua. Tutta la sapienza giuridica di questo mondo non riesce a nascondere questa evidenza.

Ora, se è vero che uno dei mali del Paese è la debolezza della politica italiana, ed è vero pure che non gli restituisce forza e prestigio il pantano giudiziario in cui Silvio Berlusconi si è cacciato, è vero anche, però, che certo non gli procura forza e autorevolezza neppure questa continua dimissione dal proprio ruolo a cui per infingardaggine il centrosinistra acconsente. C’è un Parlamento, che è il luogo della politica perché è il luogo della mediazione e, proprio perciò, della distanza. Che i grillini vogliono abolire, come se significasse soltanto separatezza, casta e, di nuovo, privilegio. Occorre sapere invece che immediatezza non significa mai nulla di più vero, se non significa insieme anche qualcosa di più violento.  

(Il Mattino, 30 ottobre 2013)

I dieci quesiti irrisolti del Pd

Questo articolo è uscito in una versione lievemente ridotta sul Mattino lunedì 28 ottobre

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“Una rivoluzione della semplicità (Renzi, alla Leopolda) o una rivoluzione della dignità (Cuperlo, nel documento programmatico)? In attesa che anche Civati e Pittella declinino il loro programma in termini rivoluzionari, sono Matteo Renzi e Gianni Cuperlo, i due principali sfidanti alle primarie del Pd, a fissare l’asticella così in alto da esigere nientedimeno che una rivoluzione. Per il Pd e per il Paese. Magari gentile, come direbbe Cuperlo, o smart, come preferirà dire Renzi. Ma una rivoluzione. Di linguaggi, forse, di stili ed esperienze: probabile. Ma di contenuti: anche? Quanto distano i loro programmi dal sol dell’avvenire che la parola «rivoluzione» una volta prometteva? Niente cacciaviti, dice Renzi: ci vuole il caterpillar. E Cuperlo: «non siamo nati per correggere la punteggiatura alla destra». Bene, guardiamo ai sostantivi, allora.  Un tempo, in vista del congresso, i partiti montavano macchine ideologiche imponenti. Oggi, per tirar su i gazebo ci vogliono quindici euro per la tessera oppure due per votare alle primarie: nient’altro. Pochi ovviamente confessano nostalgia per le polverose tesi congressuali di una volta, tutti poi temono la malattia del programmismo che, al tramonto delle ideologie, partorì con l’Unione di Prodi un programma di quasi trecento pagine. Ma una via diversa tanto dalle liturgie d’antan, quanto da un elenco pletorico di cose da fare, quanto infine da una semplice operazione di marketing politico ed elettorale è in grado il Pd di percorrerla? Prima di arrivare al traguardo dell’8 dicembre, in questo fantastico gioco dell’oca che sono le primarie, si può chiedere di fermarsi un giro su 10 caselle, dieci domande da cui ricavare il profilo di un partito di sinistra finalmente, chiaramente riconoscibile? Proviamoci.

1. Europa.

Non c’è atto significativo del governo italiano che non passi attraverso il vaglio europeo. Domanda: l’Europa è qualcosa di più di un simile vaglio? È dovere di una sinistra europea metterci qualcosa in più, o si può stare tutti allineati e coperti sotto l’ombra imponente dell’Eurotower? Qual è il luogo, l’istituzione, il consesso in cui l’Europa riesce ad essere di più di una suprema istanza di controllo? (A proposito: non si starà esagerando, con authority e altre istanze terze, indipendenti, tecnocratiche)? In quale direzione debbono essere riformate, se debbono esserlo, le istituzioni europee? E soprattutto: non c’è se non contraddizione perlomeno attrito fra la critica all’attuale assetto dell’Unione europea e la rivendicazione dell’ingresso nell’Euro, sotto il tallone dei parametri di Maastricht, come miglior risultato dell’esperienza di governo di centrosinistra, nel corso degli anni Novanta? (A proposito: a chi piace e quanto deve piacerci la sinistra europea degli anni Novanta, quella di Blair e Schoroeder?).

2.  Riforme istituzionali, elettorali

Al centrosinistra dobbiamo una frettolosa riforma del titolo V della Costituzione, di cui non si trova oggi un solo difensore convinto. E tuttavia non si sa bene cosa sia rimasto nel centrosinistra dell’ubriacatura federalista che generò la riforma.  La parola è ormai quasi del tutto assente dal dibattito pubblico, senza che però ci sia stato un vero ripensamento sull’argomento. L’abolizione delle province, quando si troverà qualcuno che la faccia davvero, andrà pure bene, ma le Regioni: le teniamo così come sono? Più in generale, la domanda è: da quale cultura politica muovono i propositi di riforma? Perché, d’accordo: della legge elettorale attuale non se ne può più, ma la scelta di un sistema di voto o di un certo equipaggiamento istituzionale non deve forse rispondere, per un partito di sinistra, a qualcosa di più di un semplice efficientamento del sistema? Neo-parlamentalismo o semi-presidenzialismo, un turno o due turni, proporzionale o maggioritario: sono tutte scelte neutre rispetto all’asse destra/sinistra o invece lo fanno ruotare da qualche verso?

3. Giustizia

Complice Berlusconi e le sue disavventure giudiziarie, da troppi anni sul terreno della giustizia essere di sinistra significa soltanto acchiappare il topo. Che si tratti di topi grossi o piccoli, sempre di acchiapparli si tratta, mentre un tempo si trattava casomai di farla scampare al povero cristo. Nessuno ovviamente chiede di indietreggiare sul terreno della legalità, tanto più in un paese come l’Italia che di certezza del diritto ne conosce assai poca, ma la domanda su come si qualifica una forza politica di sinistra su questo terreno va posta. In Europa si denuncia il pericolo di un crescente populismo penale: in Italia? Qualcuno ne ha notizia, fuori dai convegni studi? E più in particolare: va tutto bene dalle parti della custodia cautelare, o se ne fa un uso sproporzionato? Qualcuno, a sinistra, è in grado ancora di fare una battaglia per le carceri, per una popolazione carceraria che ha sempre più un connotato – diciamolo – di classe? E la separazione delle carriere: è ancora un tabù che non si può sfidare?

4. Cittadinanza, immigrazione, diritti civili.

Premessa maggiore: la sinistra sta dalla parte del lavoro. Premessa minore: In Italia, cresce la quota di lavoratori stranieri. Conclusione: la sinistra perde voti, visto che diminuisce il numero di lavoratori che godono del relativo diritto. Il sillogismo non è impeccabile, perché la prima premessa è sempre meno vera, ma proprio perciò non può essere evasa la domanda: ci sono margini di recupero su quel versante? Oppure si possono abbandonare settori crescenti della popolazione lavorativa a condizioni di marginalità? (A proposito: c’è o non c’è un problema di rappresentatività anche dei sindacati?). Il Pd ha rinunciato a chiamarsi socialista, socialdemocratico, o del lavoro (e però si appresta a entrare nella famiglia del socialismo europeo). Si può leggere questa scelta in due modi. Uno ambizioso (se non rivoluzionario): il problema del lavoro si è approfondito a tal punto da porre una questione di democrazia. In tal caso, un ripensamento sui requisiti di cittadinanza è ineludibile. L’altro molto meno ambizioso: meglio rimuovere il problema, perché elettoralmente frutta molto poco.

5. Mezzogiorno

Con la seconda Repubblica la «questione meridionale» è caduta nell’oblio: è in grado il Pd di riprenderla in mano? Un tempo sinistra voleva dire mezzogiorno: terreno di lotta ma anche di formazione di classe dirigente. È in grado il Pd di pronunciare un giudizio di verità sullo stato della sinistra meridionale, anche alla luce di un risultato elettorale – quello di febbraio – disastroso? E, se è in grado, passo successivo: da dove vuole cominciare (o ricominciare)? Bisogna ricostruire un capitale di fiducia e creare le migliori condizioni per investire, altrimenti ogni euro sarà sprecato, oppure bisogna tornare a investire per produrre risultati anche sul fronte della crescita civile? Non tutte le ricette si equivalgono, mentre forse, se è lecito dirlo, il Sud d’Italia equivale sempre più drammaticamente alla Grecia. E allora: cosa propone? Va bene per il Mezzogiorno la ricetta della troika europea, il risanamento a colpi di tagli e uno strisciante commissariamento? Oppure la cura di cavallo rischia di ammazzare il paziente? E qual è la cultura economica del Pd?

6. Politica industriale

Già, qual è? Se il neoliberismo è il male, il neostatalismo è la via? Se il primo invece non è così male, il secondo è tutto da buttar via? E alla fine dei conti: si può ancora fare una politica industriale? Tanto per dirne una, quasi fresca di giornata: il Ministro del Tesoro Saccomanni ha messo sotto osservazione la Rai e l’Eni. Cosa ha da dire la sinistra a questo riguardo? Ci sono varie ipotesi di privatizzazione al vaglio, ha spiegato il ministro: qual è l’ipotesi più rivoluzionaria? E qual è quella giusta?  Si può dare una scossa all’economia, di cui pure si sostiene la necessità, mettendo la Rai e l’Eni sul mercato? Forse questi interrogativi non possono essere affrontati se non ci si chiarisce nuovamente le idee su quale sia il ruolo del pubblico: fenomeni come la deindustrializzazione del paese o la conversione green dell’economia possono essere realizzate senza l’intervento della mano pubblica? D’altra parte, l’Italia non ha ancora una quota troppo elevata di reddito intermediato dall’amministrazione pubblica? E la selva di incentivi, che ancora piovono sulle imprese, non finisce ogni volta col cadere, come dice la Bibbia, sia sui giusti che sugli ingiusti?

7. Lavoro

Il mercato del lavoro è stato oggetto di aspre contese, nel corso di questi anni: di qualche intervento legislativo e di molte battaglie simboliche. Senza però che si siano davvero risolti i problemi che lo affliggono. Abbiamo  tassi di disoccupazione molto elevati, in particolare giovanili (e ancora più particolarmente al Sud e tra le donne). Ora, cosa è più di sinistra: preoccuparsi di come migliorare l’ingresso nel mondo del lavoro o di come frenare l’uscita? In condizioni di grave sofferenza sociale, cassa integrazione e mobilità in deroga sono destinati a crescere. Ma rappresentano una fisiologia o una patologia? La sinistra è quella che difende questi strumenti o quella che se ne inventa degli altri? La partita è così divaricata che a sinistra si trova tanto la posizione di chi intende scollare la difesa del posto di lavoro dal diritto al lavoro, quanto quella di chi rifiuta l’idea stessa che possa esistere un mercato del lavoro («il lavoro non è una merce»). Il primo che trova una sintesi fa la rivoluzione (almeno nel Pd).

8. Spesa pubblica

La struttura della spesa pubblica, questo convitato di pietra che accompagna ogni discussione in materia di politica economica: come si fa la rivoluzione della semplicità o quella della dignità, in questo ambito? È di sinistra dire che si spende troppo, per cui non ci sono risorse per destinarli,o dire che si spende non solo male ma poco, perché occorrono interventi anticiclici? La spesa pubblica ha solo un significato negativo, di spreco o almeno di sottrazione di risorse al libero gioco dell’economia privata, o non anche uno positivo di sostegno alla domanda, di protezione di alcuni beni (ad es.: la salute) dagli effetti indiscriminati della loro commercializzazione? D’altra parte, è di sinistra mantenere tal quale l’attuale composizione della spesa pubblica? Non ci sono interventi dal lato delle politiche attive del lavoro, o del reddito di cittadinanza, che non possono  essere messi in campo perché le risorse disponibili sono assorbiti da altri, troppo grandi capitoli di spesa (innanzitutto le pensioni)?

9. Ambiente

Il commissariamento dell’Ilva di Taranto per ragioni ambientali ha avuto, questo sì, il significato di una piccola rivoluzione: per la prima volta lo Stato ha preso in mano le redini di un’impresa privata non per motivi socio-economici ma per tutelare la salute pubblica. Eppure pochi se ne sono accorti. Forse perché di sinistra è ancora la denuncia allarmata di un’emergenza ambientale più che non il tentativo di avviarla a soluzione. (A proposito: cosa è di sinistra, nella vicenda del Tav? dove sta la rivoluzione, in quel caso, o almeno la soluzione?). C’è ormai nell’opinione pubblica una diffusa sensibilità ambientale, anche se forse la premialità per i comportamenti virtuosi, a livello sia individuale che sociale, non è sufficientemente robusta. Ma su questo senso comune non si innesta, a sinistra, anche una sorta di fondamentalismo ambientalista? Ci sono o no forme di luddismo e un’avversione di principio al diabolico produttivismo (anche se magari è il nobile principio di precauzione) oppure basta davvero non costruire, non sprecare e in definitiva non consumare per tutelare l’ambiente? (E per decrescere, chissà quanto felicemente)

10. Università

In un Paese che fa una maledetta fatica a realizzare riforme di struttura, il settore universitario e della ricerca è forse quello più ampiamente  investito da interventi legislativi rivoluzionari. Mal gliene incolse. Chi peraltro provasse a riconoscere i ministri succedutisi dagli atti assunti, avrebbe serie difficoltà a distinguere quello di destra, quello di sinistra (e quello tecnocratico). Si dirà: è stata dunque la volta buona in cui sono cadute le pregiudiziali ideologiche. Può darsi, ma il risultato è stato assai inferiore alle attese. Gli iscritti sono calati. La ricerca è rimasta là dov’era. Cosa significa allora puntare sulla formazione, sulla scuola, sull’università? Significa esaltare la logica meritocratica e tagliare tutti i rami secchi? Oppure la sinistra deve sentirsi assillata ancora dalla domanda egualitaria: e cosa ce ne facciamo di chi demerita? Ma, per restare al merito, come si misura il merito nel caso di un’istituzione pubblica? E se non lo si sa fare, non è meglio che lo faccia il mercato? Ma in quel caso come tenere conto del contesto in cui un’università è chiamata ad operare? Va penalizzata la performance di un’università che opera in un contesto sociale più povero (ne parlava ieri Viesti su questo giornale)? Bisogna puntare sull’eccellenza o sulla diffusione del sapere? Dobbiamo avere anche noi una Harvard School in più o meno dispersione scolastica?

Rivoluzionari di tutto il mondo, semplici o degni che siate, c’è materia per voi”.

(Il Mattino, 28 ottobre 2013)