Primarie, che brutto spettacolo

ImmaginePiù avanti, più moderno di tutte le altre formazioni politiche, il partito democratico fa le primarie. Sono una cosa americana. O almeno: oltre oceano ci fanno un Presidente degli Stati Uniti, volete che non bastino per il segretario del Pd, o per un segretario di provincia? E poi sono una roba nuova, all’altezza del XXI secolo: i defunti partiti novecenteschi non ci avevano mai pensato. Cosa dice invece l’avanzatissimo statuto del partito, all’articolo uno? Che il Pd è un partito di «elettori  ed iscritti». Mica solo di iscritti, quelli che hanno così tanto tempo da perdere, che lo trascorrono come sfaccendati nei circoli; ci sono anche gli elettori, quelli che nel circolo non entrano mai, ma sentono insopprimibilmente di appartenere al Pd il giorno del voto. Con squisita sensibilità democratica, gli elettori non hanno infatti smesso di tesserarsi nemmeno un attimo prima di votare, pur di partecipare al sacro rito. Il Pd voleva primarie così aperte, anzi così spalancate, da non chiudere il tesseramento per tempo, per esempio al momento dell’indizione del congresso. Ci avrebbe guadagnato la regolarità delle operazioni congressuali. Ma il fuoco della partecipazione democratica doveva consumarsi tutto, e comprendere anche le tessere comprate un tanto al chilo, o un numero di iscritti che qua e là supera quello dei votanti. Incidenti di percorso. Che però si sono verificati un po’ ovunque: a Napoli come a Caserta (dove non ci si fa mai mancare nulla), ma anche a Roma e in Sicilia, nel Veneto e in Puglia, in Umbria e in Calabria. E via elencando.

Ma lo statuto non demorde e anzi insiste. Articolo due: i soggetti della vita democratica del partito sono da una parte gli iscritti, dall’altra gli elettori. Il fatto che gli iscritti costituiscano una platea chiaramente definita, mentre la coorte degli elettori abbia connotati decisamente più vaghi (e formi perciò code improvvisate, e comprenda stranieri reclutati alla bisogna) non scoraggia l’ansia di democrazia del partito. E Dio sa se non ve ne sia bisogno!

Ma di cosa, precisamente, c’è bisogno? Lasciamo infatti perdere la retorica della partecipazione e domandiamoci: c’è anche un solo elettore il quale, dopo essersi frettolosamente tesserato senza aver mai pensato di farlo prima, prenderà d’ora in poi a frequentare il circolo e trarrà nuove motivazioni ideali per il suo impegno? Temo di no. Temo che non ve ne sia nemmeno uno.

Allora prendiamo la cosa da un altro lato. C’è qualche dirigente democratico il quale abbia voglia di sostenere che la fase congressuale svoltasi nei giorni scorsi ha consentito al Pd di migliorare la qualità della sua classe dirigente, e voglia portare esempi, in proposito? Sarei curioso di conoscerli.

Ma c’è di più: il Pd ha tenuto distinti il rinnovo delle cariche di partito ai diversi livelli. Il fatto che il livello provinciale si chiuda indipendentemente dalla scelta del segretario nazionale è stato motivato con l’esigenza di evitare il formarsi di cordate, che avrebbero soffocato la discussione e la libertà di schierarsi secondo il proprio libero convincimento. Risultato: nessuno ha visto la mitica discussione materializzarsi da qualche parte, e in luogo delle cordate nazionali sono potuti ricomparire, più protervi di prima, i signori delle tessere, che non hanno dovuto neppure fingere di stare in campo per Cuperlo o per Renzi, per Pittella o per Civati, perché era tutt’altra (e meno nobile) partita.

C’è di più, e pure di peggio: dichiarare infatti che il legame con il livello nazionale avrebbe comportato l’ingessatura del dibattito significa confessare implicitamente che sul piano nazionale non si confrontano più opzioni programmatiche o ideologiche, roba del secolo scorso, ma solo gruppi, alleanze, schieramenti.

Diciamola tutta, allora. Il Pd avrà sicuramente un problema di leadership. Ma che le primarie – almeno: le primarie all’italiana – costituiscano il luogo in cui un leader nasce e si afferma è tutto da dimostrare, visto che il Pd procede da quando è nato a colpi di primarie. Berlusconi, invece: lui non ne ha fatta una. Come non ne hanno fatte  quelli del Novecento, i Togliatti e i De Gasperi, i Craxi e i La Malfa. Che non erano leader, in realtà: erano proprio capi. Forse, allora, se i futuri leader si dimostrassero tali sul terreno delle idee, dei programmi o dell’azione di governo sarebbe una buona cosa, per il Pd e per il Paese tutto.

(Il Mattino, 2 novembre 2013)

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