Casa, lavoro, redditi Irpef: provate a togliere questi capitoli dalla legge di stabilità e avrete tolto la cosa stessa. Ma anche se non la togliete, e la avvolgete invece in una nuvola di emendamenti, in una ridda di ipotesi, in una successione confusa di annunci che vanno prima in una direzione, poi in un’altra, prima tolgono poi mettono, prima aggiungono, poi levano – fatelo, e otterrete più o meno lo stesso, deludente effetto. A Bruxelles, il ministro del Tesoro Saccomanni ha registrato le preoccupazioni della Commissione per l’assalto alla diligenza, in agguato nelle pieghe dei lavori parlamentari, e ha subito dovuto promettere che, comunque vadano le cose, i saldi della legge rimarranno invariati. Ma non c’era bisogno di andare in Europa per accorgersi dello stato delle cose. Il fatto è che nelle mosse fin qui compiute è difficile intravedere una direzione precisa. L’opinione pubblica non ha compreso se, alla fine della fiera, si ritroverà con più tasse o con meno tasse sulla casa. Non ha compreso neppure se davvero la diminuzione del cuneo fiscale sul lavoro rappresenti o meno una priorità per il governo, e se l’intervento in programma sia davvero incisivo. Non ha compreso, infine, se vi sarà oppure no una no tax area per i redditi più bassi, e dove sarà fissata l’asticella.
Purtroppo, però, è impossibile ridurre il problema a un difetto di comprensione o a un mero errore di comunicazione. Ed è evidente che non si tratta neppure di semplice mancanza di coraggio: non ci vuole la psicologia per spiegare le titubanze della maggioranza, ci vogliono piuttosto le categorie della politica per spiegare questo lento inabissamento della manovra economica del governo in una serie di interventi continuamente rivisti o rivedibili, di cui l’unica cosa che si cerca affannosamente di tener fermo sono i saldi invariati.
Ora, i saldi invariati sono ovviamente importanti. Sono, anzi, fondamentali. L’Unione Europea chiede rassicurazioni in tal senso e il ministro, giustamente, le fornisce. Ma dal punto di vista del progetto di Paese che il governo intende realizzare, dal punto di vista delle carte che s’intendono giocare per tirare il Paese fuori dalla crisi e rilanciare la crescita, quest’idea che basti leggere l’ultima riga della legge e verificare che i saldi non siano toccati per licenziare qualunque provvedimento equivale puramente e semplicemente all’abdicazione della politica. Che si distingue dalla mera ragioneria proprio perché non considera indifferente a chi dare e a chi togliere, e quali voci di bilancio toccare, purché siano garantiti i numeri finali. La politica anzi comincia proprio quando non basta il rispetto delle compatibilità di bilancio per definire una strategia di azione e di intervento.
Eppure quanto più cresce la discussione intorno alle spiagge da vendere o da preservare, sulla modulazione delle estensioni o delle detrazioni, sulle case o sui servizi da tassare, la politica sembra ritirarsi sempre più indietro, acchittandosi a difendere non una legge intera, ma solo i saldi ultimi. Le mille spinte particolaristiche che si annidano nel Parlamento tornano a prendere forza, e si smarrisce il disegno generale, la direzione precisa e condivisa.
Ora, è vero che in questa dinamica conta il ritardo istituzionale, e per le riforme il governo ha bisogno ancora di tempo per produrre i primi risultati. È vero pure che il quadro politico in cui il governo è chiamato a operare è quello che è: il Pdl è a un passo dalla scissione, il Pd a un passo dalla mutazione. Nell’uno e nell’altro caso, aspettarsi compattezza e chiarezza di intenti vuol dire ingannarsi. Però queste e non altre erano le condizioni alle quali il governo è nato. Non sono intervenute in seguito: erano presenti fin dall’inizio. Non possono quindi valere come un alibi, o come un esimente. Presentarle come tali significa purtroppo ammettere che il governo non è riuscito nel primo e più fondamentale compito della politica: quello di mutare il quadro, e tracciarne uno nuovo.
(Il Mattino, 14 novembre 2013)