Nichi Vendola ride. Al telefono. Con quel Girolamo Archinà, potente manager del gruppo Ilva, ora nel pieno della bufera giudiziaria, che nel corso di un incontro con la stampa strappa letteralmente il microfono dalle mani di un giornalista, con un gesto tanto improvviso quanto insospettato. E Vendola, moralmente disordinato, ride. Ad Archinà confessa di aver riso addirittura per un quarto d’ora. Il che non sarebbe tanto disdicevole, se non fosse che il giornalista stava chiedendo conto al patron delle acciaierie Riva delle morti per tumore provocate dallo stabilimento tarantino. Ora, a che possono valere le precisazioni di Vendola, una volta che la telefonata è divenuta di dominio pubblico, come sempre più spesso accade? Mi faceva ridere lo scatto felino di Archinà, non certo il dramma dei tumori, ha provato a spiegare il governatore della Puglia, ma quel che i giornali mettono in pagina è il governatore che ride beffardo della gente che muore.
Ride beffardamente – una cosa che suscita indignazione, vera o affettata, dai tempi di Socrate. Quella volta infatti che le vite dei filosofi furono messe all’asta da Giove e da Mercurio, la cosa andò così, che di fronte allo spettacolo del mondo, in cui tutto si muta continuamente, infinitamente, insensatamente, l’uno, Eraclito di Efeso, non riuscì a trattenere lacrime di compatimento, l’altro, Democrito di Abdera, non la finiva di ridere. Il burlone e il piagnone. Così Luciano di Samosata intercettò lo spirito della loro filosofia – atomi che si agitano nel vuoto, senza fine né scopo – e così i due filosofi presocratici sono stati definitivamente consegnati alla storia della letteratura e dell’arte: da Orazio a Seneca, da Bramante a Rubens. L’uno malinconico e triste, l’altro lieve e distaccato.
Ma poi, si diceva, è arrivato Socrate (cioè Platone) che un senso al mondo ha cominciato prima a cercarlo, poi addirittura a darglielo. E così tanto il compatimento senza speranza di Eraclito quanto il riso quasi cinico di Democrito sono apparsi sempre più immorali, indecenti, quindi censurabili.
Il riso, in particolare, non se l’è passata bene. Di tutte le cose notevoli oppure gravi è stato infatti per secoli proibito ridere. Forse perché non si può ridere davvero senza perdere compostezza, senza mettere in oscena libertà il corpo, e questo, parliamoci chiaro: chi ha un’anima non può permetterselo. Su questa proibizione Umberto Eco ha poi costruito un libro che ha raggiunto fama mondiale, Il nome della rosa, e così tutti grazie a lui hanno scoperto che c’è stato un tempo in cui si poteva forse persino uccidere, per cacciare via il riso dal mondo.
Per secoli l’anima ha chiesto dunque che si mantenessero decoro, dignità e decenza, ma in età moderna il corpo ha ottenuto perlomeno un buon compromesso. Che suonava così: in pubblico, d’accordo, osservo la massima discrezione, ma in privato mi concedo ai sussulti del riso o agli spasmi del desiderio. A quanto pare, però, che la nostra epoca sia ormai postmoderna, surmoderna o tardo moderna, è chiaro che la distinzione pubblico/privato regge sempre meno. E le risate private fatte in telefonate private finiscono in pasto al pubblico, diventano un fatto pubblico, provocano conseguenze pubbliche.
Coloro che si rassegnano a questa slavina sappiano dunque che d’ora innanzi ogni risata potrà essere usata contro di loro. Se non dai magistrati, sicuramente dai giornali (o almeno da alcuni). Naturalmente Vendola ha il diritto, forse persino il dovere di chiedere che le sue parole siano correttamente interpretate, e di sostenere che mai, neanche in privato, si sognerebbe di venir meno al rispetto dovuto a una tragedia immane. Si capisce: che altro gli rimane di fare? Ma chi vuole invece rivendicare il diritto di ridere in privato di quel che gli pare? Chi, senza violare alcuna legge, vuole essere almeno un po’ scorretto? Chi vuole disporsi almeno una volta al telefono in modalità ironica, o di aperto sarcasmo, oppure di scherno e di macabra ironia, ecco: di un simile mostro morale cosa vogliamo fare? L’unica, mi rendo conto, è non telefonargli. Perciò vi prego: non telefonatemi, perché anche a me, ogni tanto, mi scappa. Lo confesso: nel mondo dell’universale serietà, o forse dell’universale ipocrisia, non potrei trovarmi a mio agio.
(Il Mattino, 16 novembre 2013)