Simona Panzino, chi era costei? Era ed è un’attivista no global. Che nonostante la siderale distanza politica e ideologica dalla coalizione di centrosinistra si candidò a guidare l’Unione nelle elezioni primarie più partecipate della storia italiana, le prime, tenutesi il 16 ottobre 2005. Si recarono alle urne oltre quattro milioni di elettori, e Romano Prodi ottenne quasi il 75% dei voti (a Simona Panzino, per la cronaca, andò lo 0,46%). Di lì a poco, il professore bolognese avrebbe portato l’Ulivo alla vittoria nelle elezioni del 2006. Il che non gli bastò a governare, per via di una maggioranza troppo risicata, ma anche per l’eterogeneità della coalizione che lo aveva sostenuto. Croci e delizie delle primarie si manifestarono già in quella prima prova: da un lato una partecipazione democratica persino superiore alle aspettative, dall’altro la difficoltà a tradurre il dato in un progetto politico coerente e coeso.
Il fatto è che le primarie sono sicuramente un metodo, cioè una via, che però il centrosinistra ha imboccato senza avere chiaro né il punto di partenza né il punto d’arrivo. Quanto al punto di partenza, sono le culture politiche di provenienza delle forze che componevano l’Unione (prima ancora l’Ulivo). Forse è ingeneroso portarli ad esempio, ma viene difficile riconoscere il profilo di un candidato alle primarie nel comunista Fausto Bertinotti o nel democristianissimo Clemente Mastella. Eppure furono questi i principali competitors di Prodi, costretti entrambi ad adattarsi alla sfida, ma riottosi abbastanza da resistere ad ogni tentativo successivo di omogeneizzazione dell’alleanza. Non è un caso che Bertinotti sia stato il responsabile della caduta del primo governo Prodi, nel ’98, mentre Mastella sarà quello che lo farà cadere la seconda volta, dieci anni dopo (con la venale complicità del senatore Di Gregorio: ma quella è un’altra storia).
Il fatto è che l’uno e l’altro – e non solo loro, ma tutte le componenti di quella «strana maggioranza» – non intesero mai di dover superare le loro appartenenze e identità, per andar oltre primarie di coalizione così improbabili, che non hanno eguali in nessun altro paese al mondo.
Che questo schema coalizionale, tra parti componenti, non sia stato ancora superato lo dimostra anche il voto del prossimo otto dicembre. In due modi diversi. Uno rimane sotto traccia: il Pd va al voto con il timore che un pezzo del partito possa non riconoscersi nel risultato finale, a riprova che il meccanismo invece di unire e cementare tende a separare, o almeno a mantenere distinti. L’altro è invece esplicito e ufficiale: quello che si sta consumando è infatti solo il primo tempo di una partita che ne conoscerà un secondo, di coalizione appunto, quando si dovrà scegliere il candidato premier. La coalizione, infatti, ancora non c’é. Sicché fra pochi mesi o fra anni il vincitore di oggi dovrà scendere di nuovo in campo: la legittimazione del voto di dicembre non gli basterà. Tant’è vero che il Presidente del Consiglio in carica se n’è tenuto fuori, riservandosi dunque di entrare in lizza in un secondo momento.
In tutto ciò si vedono le difficoltà del punto di partenza, ma anche, anzi soprattutto quelle del punto d’arrivo. Quanti infatti considerano superata la distinzione fra ex-comunisti ed ex-democristiani, o fra diessini e margheritini, rimarcano il fatto che le famiglie politiche non è vero affatto che si siano riprodotte tali e quali nel nuovo contenitore del Pd: si sono anzi mescolate. E portano a riprova il sostegno di Franceschini a Bersani, nel 2012, o quello di Fassino a Renzi e di Fioroni a Cuperlo, questa volta. Il che è vero. Ma resta il problema del punto d’arrivo. Non c’è ancora, infatti, e chissà quando ci sarà (e se ci sarà) un impianto elettorale e istituzionale coerente con le primarie. E finché non vi sarà, la rivoluzione nel modo di concepire la rappresentanza politica che si vuole affidare alle primarie non si potrà produrre, senza riprodurre insieme, di sotto all’ampio mantello del voto al leader, il mosaico di forze, pezzi, appartenenze e identità distinte, che ancora compongono il Pd.
Basta vedere quel che le primarie hanno prodotto, in tutti questi anni di onesto esercizio. Nel 2005 vinse Prodi, si diceva, ma si trattò più di una consacrazione che di una competizione, né valse a metterlo al riparo dai subbugli della coalizione. Nell’ottobre del 2007 Veltroni. Tre milioni e mezzo di voti e percentuali sontuose. A Veltroni riuscì di ridurre al minimo il carattere composito della coalizione (con la vistosa eccezione di Di Pietro) ma il prezzo fu di regalare al centrodestra lo scarto più ampio di voti che si sia mai prodotto nella seconda Repubblica. Poi Bersani, nel 2009, in competizione con Franceschini. Ma le elezioni erano così distanti che anche quella volta, nonostante uno statuto che dicesse il contrario, c’è voluto il secondo turno, contro Renzi. E al tirar delle somme, ora che siamo al quinto giro di giostra in meno di dieci anni – un ritmo vorticoso che è piuttosto il segno di un continuo affanno – difficilmente si troverebbe qualcuno disposto a sostenere che il Pd è cambiato e che una nuova offerta politica ha preso forma grazie alle primarie.
Anche a livello locale è cambiato molto poco. Certo, è nelle primarie per i sindaci che il sistema ha prodotto risultati davvero nuovi: Pisapia a Milano, ad esempio, o De Magistris a Napoli. Ma a parte il fatto che il Pd, che le primarie bandisce, ha ben poco da festeggiare per quelle vittorie, resta evidente che quanto c’è di virtuoso in quei risultati è più effetto della legge elettorale che non del meccanismo delle primarie. A cui il Pd accede, di fatto, quando non riesce a risolvere per altre vie la lotta interna. Un segno di debolezza, più che di forza.
A meno che non vi sia De Luca, il sindaco di Salerno. In quel caso, però, non c’è sistema che tenga: anche se si giocasse a freccette il risultato lo premierebbe con percentuali bulgare. Che però le primarie all’americana ci portino diritti e filati in Bulgaria è difficilmente un sintomo di buon funzionamento. E così sarà, finché almeno si continueranno a pensare come corpi separati i partiti, i processi elettorali, le istituzioni. Si può discutere quale sia il sistema migliore: si può e si deve, anzi. Difficilmente però lo si troverà nelle disordinate mescolanze a cui la seconda Repubblica ci ha purtroppo abituato.
(Il Mattino, 21 novembre 2013)