Chi era Ponzio Pilato? La figura del procuratore romano innanzi al quale fu condotto un giovane ebreo di Nazareth, chiamato Gesù, non cessa di interrogare gli studiosi: teologi, biblisti, antichisti, ma anche letterati. Più difficilmente si occupano di lui i filosofi. Lo ha fatto invece Giorgio Agamben, in un breve libriccino appena uscito da Nottetempo, presso il quale Agamben ha pubblicato numerosi altri saggi, tra i quali, di recente, «Il Giorno del Giudizio» e «La Chiesa e il Regno». A dimostrazione di un interesse costante per le tematiche teologiche, alle quali il filosofo romano è giunto dopo avere attraversato i domini della critica letteraria e quelli della teoria politica.
E già questo percorso meriterebbe una piccola riflessione: perché uno dei maggiori filosofi italiani, tra i più letti e tradotti all’estero anzitutto per i suoi studi sulla macchina politica dell’Occidente, dedica le sue ricerche alle figure, alle parole e ai concetti della teologia cristiana? Vi è certamente un’istanza di radicalità in un simile percorso, che si manifesta anzitutto in ciò, che nulla o quasi del lessico politico ed economico contemporaneo appare oggi, ad Agamben, utilizzabile, come se la crisi che attraversiamo riguardasse prima ancora che le istituzioni, i bilanci o le fabbriche, gli strumenti e le categorie per interpretare il nostro tempo.
Ma torniamo a Pilato, la cui figura Agamben tratteggia con il consueto incastro di citazioni: quale ruolo ebbe Pilato nella condanna di Gesù? La difficoltà nel rispondere a questa domanda dipende dal fatto che i quattro evangelisti non raccontano il processo colla preoccupazione dello storico o con l’acribia del giurisperito: il loro interesse sta evidentemente altrove. Ciò non toglie che la vicenda abbia per i cristiani uno spicco eminentemente storico. Ma proprio qui sta il problema che Agamben pone al centro della sua rilettura: in che rapporto sta la storia con l’economia della salvezza, in che modo la giustizia degli uomini può misurarsi o essere misurata dal giudizio di Dio?
L’assoluta crucialità del processo diviene evidente, in particolare, se si accosta il confronto di Pilato con Gesù a quello che Gesù ha invece con Giuda. A cui il Figlio di Dio rivolge queste parole, nella notte del tradimento: «quello che devi fare, fallo presto». La consegna alle guardie deve infatti compiersi senz’altro, secondo un indefettibile disegno divino. Pilato no: Pilato discute con Gesù («che cos’è la verità?», gli domanda, pronunciando la battuta più sottile di tutti i tempi, secondo la perfida interpretazione di Nietzsche); Pilato prova a sottrarsi alla responsabilità che gli ebrei del Sinedrio vogliono invece che si assuma e cerca di non macchiarsi del sangue di Gesù (chiedendo al popolo di liberare un uomo, com’era usanza nel giorno di Pasqua, dice il Vangelo); Pilato giunge persino ad affermare di non vedere colpe nell’uomo che gli è stato consegnato.
Pilato, insomma, tergiversa. Ora, indipendentemente dalla valenza propriamente giuridica del processo (che però non è affatto irrilevante, ai fini della sua interpretazione), quel che risalta con evidenza è il carattere reale, non fittizio, del dramma che si svolge dinanzi al prefetto romano. Come se la sentenza non fosse già scritta, e l’esito processuale fosse aperto. Ecco dunque la domanda di Agamben: come entra la storia nei piani provvidenziali di Dio? Come può entrarvi, senza ridursi a semplice commedia? E come d’altra parte può non uscirvi, se il disegno divino è tale solo se deve in ogni caso realizzarsi?
Agamben non scioglie la contraddizione, perché non può essere sciolta. Sul lastricato di pietre del pretorio di Roma si fronteggiano senza mai riuscire davvero a comporsi insieme i due mondi: la giustizia e la salvezza, l’umano e il divino, il temporale e l’eterno. La storia è, conclude Agamben, proprio questa insolubile contraddizione, l’impossibilità di «evacuare» questa croce.
A meno che non si possa rimanere ai margini della storia. Come il Ponzio Pilato immaginato da Anatole France, ne «Il procuratore di Giudea». Lì un Pilato ormai anziano rievoca gli anni lontani del governatorato in Palestina, e alla domanda se ricordi quel tale Gesù che fu crocifisso per qualche oscuro motivo, dopo pochi istanti di silenzio risponde: «Gesù, Gesù il Nazareno? No, non ricordo».
Ecco, forse non la salvezza, ma una piccola saggezza – l’unica, forse, alla portata degli uomini – sta nella possibilità di mettersi di lato rispetto al corso decisivo degli eventi, compiendo certo il proprio ufficio – o coltivando il proprio giardino, come avrebbe detto Voltaire – per accettare poi serenamente, quando viene l’ora, di uscire di scena.
(Il Messaggero, 24 novembre 2013)