Nel marzo del 1994 Forza Italia, alleata al Nord con la Lega di Bossi e al Sud con il Movimento Sociale di Gianfranco Fini, vince le elezioni. Nel mese di maggio il suo leader, Silvio Berlusconi, forma il governo: per la prima volta dal dopoguerra la maggioranza parlamentare non si richiama, nemmeno formalmente, all’antifascismo della prima Repubblica. Si apre una fase nuova della storia politica italiana. Da allora, fino ad oggi, si susseguiranno i tentativi di rappresentare il nuovo, la discontinuità, la non appartenenza o addirittura l’estraneità: con i vecchi riti, con le vecchie famiglie politiche, con il vecchio personale politico. Chi ci riesce vince, e Berlusconi ci è riuscito in pieno per ben tre volte.
Ma dalle 17.42 di ieri Silvio Berlusconi è fuori dal Senato, a seguito di un voto dell’Aula che ne ha dichiarato la decadenza. Non c’è più nessun gruppo parlamentare che, nel nome, si richiami ancora all’arco di forze entrato in Parlamento vent’anni fa. Nessuno salvo Forza Italia, il cui leader, sebbene decaduto, resta il Cavaliere. Che prova a tornare alle origini ma chiede voti e consensi solo per resistere; non più per fare tutte le cose nuove, come all’origine prometteva.
Nel 1994, Berlusconi promette infatti agli italiani un nuovo «miracolo». L’alleanza politica è fragile: mette insieme un movimento, l’Msi, che ha nella fiamma tricolore il suo simbolo e un altro, la Lega, che predica invece il federalismo e ventila ipotesi di secessione; ma non sono affatto fragili gli argomenti e le parole d’ordine della campagna elettorale. Berlusconi vuole uno shock liberale e liberista: contro la burocrazia, le tasse, la partitocrazia. Dopo vent’anni, la rivoluzione liberale è rimasta quasi solo sulla carta: con i governi Berlusconi la spesa pubblica è aumentata, e la pressione fiscale non è diminuita.
Il primo governo Berlusconi cade comunque pochi mesi dopo, col primo, famigerato avviso di garanzia al premier e il ribaltone di Umberto Bossi. Indro Montanelli aveva consigliato agli italiani di provare il budino: il primo assaggio è durato troppo poco. Dopo una «lunga traversata nel deserto», nel 2001, Berlusconi firma un «contratto con gli italiani» nel salotto televisivo di Vespa e batte Rutelli: agli impegni in economia, per la riduzione delle tasse, la creazione di posti di lavoro, la sburocratizzazione, le grandi opere pubbliche, si aggiungono i temi della giustizia e delle riforme istituzionali: l’intero sistema politico non ha infatti ancora trovato un assetto stabile (né lo troverà in seguito), ed è franato, nel corso della Bicamerale guidata da D’Alema, il ridisegno complessivo delle istituzioni. Si tratta di un fallimento per certi versi fatale, perché l’intesa naufraga sui temi della giustizia, gli stessi sui quali si consumerà poi la rottura più significativa fra le forze della sua maggioranza: quella con Fini, nel 2010. Naufraga l’intesa, e si allontana definitivamente quella prospettiva semi-presidenzialista che sarebbe sicuramente calzata a pennello del più carismatico dei leader politici italiani. O, se non a lui personalmente, sicuramente alla cultura politica e istituzionale di una destra liberale europea che Berlusconi riuscirà sempre meno a rappresentare.
Però Berlusconi vince, e guida il governo più longevo della storia d’Italia. Ma lo slancio liberale e liberista si infrange quasi subito, dinanzi ai milioni di lavoratori portati al Circo Massimo dalla Cgil di Sergio Cofferati contro l’abolizione dell’art. 18. E, di lì in poi, le iniziative di riforma (sulle pensioni, sul mercato del lavoro con la cosiddetta legge Biagi, sull’Università con la riforma Moratti) saranno giocate in difesa piuttosto che all’attacco, con sempre meno capacità di offrire il disegno di una nuova Italia. Le insoddisfacenti performance economiche del Paese e la mancata riforma fiscale – la promessa delle promesse – porteranno il Cavaliere alla sconfitta elettorale.
L’ultima esperienza di governo, quella del 2008, è la più deludente: il Cavaliere non riuscirà a tirare fuori il Paese dalla crisi, ma ci finirà dentro con tutti e due i piedi. La maggioranza più ampia mai avuta in Parlamento si spezza, mostrando la difficoltà strutturale di Berlusconi di aggregare stabilmente le forze centriste; l’inseguimento delle vicende private (il divorzio, Noemi Letizia, Ruby Rubacuori e tutte le altre, gentili ospiti di Arcore) e quello giudiziario (che si è concluso ieri) si intensificano e ne fiaccano l’immagine. Invece dei segnali liberali mandati nei primi anni, il Cavaliere si incupisce in una polemica antieuropea che ne accentua vistosamente i tratti populisti. Del resto, il popolo della libertà, nato sul predellino di un’auto, aveva rinunciato a strutturarsi come una moderna forza politica, puntando tutto sul destino personale e la forza economica e mediatica del leader.
In mezzo a questo accidentato percorso politico Silvio Berlusconi ha provato (e a volte è riuscito) a metter dentro di tutto: a fare il Presidente operaio e a dichiararsi erede di De Gasperi; a condurre una politica estera marcatamente filo-atlantica e a stringere amicizie con leader poco democratici come Putin o Gheddafi; a promuovere nuove alleanze politiche e a mandarle ogni volta in frantumi; a rinnovare profondamente il ceto dirigente del centrodestra, ma anche a riciclare personale politico del centrosinistra; a tenere sotto uno stesso tetto il filosofo Lucio Colletti e la nipote del Duce Alessandra Mussolini; a fare il liberista pur essendo in sostanza un monopolista e il liberale pur essendo privo del senso liberale per il limite del potere; a fare infine il difensore dei valori cattolici nonostante qualche difficoltà nel rappresentarli personalmente. Di tutto e di più, insomma. E qualche volta di troppo.
Se però si prendono le tre parole che avrebbero potuto disegnare un’altra Italia, a misura di una destra europea: il liberismo, il presidenzialismo e l’europeismo, le si trova oggi quasi del tutto assenti dalla proposta berlusconiana. Il Cavaliere sembra poter tenere ancora il campo solo con il vittimismo contro la persecuzione giudiziaria, con accenti e motivi populisti che fanno concorrenza a Grillo – ma che avvelenano ogni tentativo di intesa sul terreno delle riforme –, e infine con una polemica anti-Euro e nei confronti della Germania che non aiuta certo l’Unione a mutare rotta, ma anzi ne mette in pericolo gli equilibri.
Ma l’uomo è ancora lì, in piazza: a difendere se stesso, la sua storia personale, la sua onorabilità politica. E, finché c’è, sarà comunque difficile fare come se non ci fosse.
(Il Mattino, 28 novembre 2013)