Archivi del mese: dicembre 2013

Partiti e governo, il tempo dei rinvii ormai è scaduto

ImageMeglio non pensarci. Diamoci pure i migliori auguri, ma che la fine dell’anno sia tempo di bilanci non è cosa di cui rallegrarsi: il bilancio che la politica italiana porta a consuntivo, per quest’anno e per gli anni addietro, non è infatti dei più esaltanti. Il grado di fiducia di cui gode è infimo; le principali forze politiche, quelle che svolgono anche una funzione sistemica rispetto al quadro istituzionale, sono nel punto più basso della loro parabola politica: vale per Forza Italia e vale anche per il partito democratico, in attesa che la novità rappresentata da Matteo Renzi si dispieghi. Le altre formazioni politiche devono ancora dimostrare di reggere nel tempo – è il caso del Nuovo Centrodestra – o mostrano già di non poter reggere – ed è il caso di Scelta Civica, finita tristemente in pezzi, ma anche di Sinistra e Libertà, che sembra ridotta a una funzione puramente testimoniale. Ci sono i grillini, è vero, e sono anche il primo partito italiano, ma il loro pensierino per l’anno nuovo è solo l’augurio che il quadro politico si deteriori e disgreghi ulteriormente. Così sembra vero quel che cantava Lucio Dalla: l’unica novità è rappresentata dal fatto che l’anno nuovo fra un anno passerà. E basta. Su tutto il resto – tre volte Natale, i muti che parlano e i preti che si sposano, e pane tutto l’anno – c’è ben poco da sperare.

E invece no. Spes contra spem dice Paolo nella lettera ai Romani: bisogna crederci ancora. Perché un altro anno non può davvero più passare senza che si metta seriamente mano a una profonda riforma della politica, dell’economia e della società italiana. Il fatto è che però gli attori politici in gioco, volenti o nolenti, hanno poco tempo a disposizione per un’impresa che richiede invece un respiro lungo. Di tempo ne ha poco il governo, che deve dimostrare sin da subito di essere capace di un’azione davvero incisiva, di cui francamente non si sono ancora viste le prove: non sul terreno delle riforme, non nell’azione economica, non sul versante dei diritti civili. Di tempo ne ha poco anche l’opposizione: Berlusconi vuole andare alle elezioni; più tempo passa e più rischia infatti di scivolare ai margini del gioco politico. Di tempo ne ha poco lo stesso Renzi che, certo, è allo stato quello che ha più filo da tessere, ma non ha il bandolo della matassa in mano, ed è dunque tentato dall’accorciare la vita di questa legislatura per ricominciare un’altra volta daccapo. Al suo secondo settennato, di tempo ne ha poco perfino il Presidente Napolitano, che è stato finora il più paziente e tenace di tutti, ma che non può fare ancora a lungo l’architrave sotto il quale si ripara una politica in cerca affannosa di un progetto, di una visione, di una ragione per andare avanti.

Difficile però che il dato generazionale richiamato da Enrico Letta nella conferenza stampa di fine anno possa essere questa ragione: e non solo perché è un dato alquanto stiracchiato (e infatti Renzi ha preso subito le distanze dall’affratellamento anagrafico), ma perché una generazione è il compito e la funzione storica cui sa corrispondere, non un fatto biologico. Una generazione fa una guerra oppure fa la ricostruzione, scrive una Costituzione o la modifica in profondità, cambia il costume di un’epoca o inventa un nuovo linguaggio della politica: dove si trova tutto ciò, nei passi compiuti finora? Però è questo quel che ci vuole. Anche in chiave europea.  Dove l’anno prossimo si vota, e dove meno ancora che in Italia si può continuare come negli anni già trascorsi: dentro le stesse regole, entro lo stesso contesto istituzionale dall’incerta legittimazione. E invece l’Europa, lungi dall’essere il contentino per politici trombati in Italia, o il luogo di consegna di medagliette al valore, deve diventare il luogo della più vigorosa contesa politica.

Il 2014 sarà l’anno giusto? Si vedrà. La cabala potrebbe suggerirlo: tutte le volte che il ’14 è uscito sulla ruota della storia, di cose ne sono successe. Cent’anni fa, scoppiava la grande guerra, crollavano imperi e mutava l’assetto del mondo. Nel 1814, le potenze europee si sedettero al tavolo di Vienna per ridisegnare la mappa del continente, a conclusione (o quasi) del ciclo napoleonico. Cent’anni prima, nel 1714, fu siglata la pace di Rastadt, ma lì è facile, perché di guerre dinastiche è pieno il Settecento. Infine, nel 1614, chiusero i battenti in Francia gli Stati Generali. Si riunirono infatti un’altra volta, l’ultima, più di un secolo e mezzo dopo, nel 1789. E fu la rivoluzione francese. Ecco: fosse solo per prudenza, non vorremmo aspettare così tanto.

(Il Mattino, 31 dicembre 2013)

2013 Odissea nello strazio

ImagePercorriamo pure, di volata, gli eventi che hanno segnato un’annata politica vissuta pericolosamente, ma provvediamoli prima della giusta, severa cornice. Nel discorso tenuto lo scorso 31 dicembre dal palazzo del Quirinale, il Presidente Napolitano parlò non più di disagio sociale, ma di una vera e propria «questione sociale, da porre al centro dell’attenzione e dell’azione pubblica», e però indicò anche i limiti entro i quali quell’attenzione poteva essere svolta: da un lato, il famigerato spread; dall’altro, la mole degli interessi sul debito pubblico. Ebbene, nella tradizionale conferenza stampa di fine anno il Presidente del Consiglio Enrico Letta ha detto che con «la guadagnata stabilità» la cifra degli interessi che lo Stato italiano deve corrispondere per servire il debito è calata, in corso d’anno, di 5 miliardi. Scendere dalle montagne russe su cui la politica italiana è salita dopo le elezioni di febbraio ci avrebbe cioè regalato 5 miliardi di euro. «Regalato» si fa per dire: già Napolitano ricordava che le «scelte di governo dettate dalla necessità di ridurre il nostro massiccio debito pubblico obbligano i cittadini a sacrifici e inevitabilmente contribuiscono a provocare recessione». In più, a seguire l’iter faticoso della legge di stabilità, si capisce che una difficile scommessa è in corso: se lo spread non continuerà a andar giù, e il PIL non prenderà a crescere nei prossimi anni con percentuali intorno al 2%, quei 5 miliardi non saranno serviti a gran che. E, purtroppo, mercati finanziari, contesto internazionale e previsioni di Bankitalia sono meno favorevoli di quanto, allo stato, ipotizzato dal governo.

Ma torniamo indietro, e saliamo sulle montagne russe. Febbraio: il Pd di Bersani, che aveva sconfitto alle primarie Matteo Renzi, «non vince» le elezioni, e il Parlamento si spacca in tre. La mancata vittoria del partito democratico, che perde circa tre milioni di voti, trasforma in una «sconfitta mancata» l’enorme tracollo del centrodestra, che di voti ne perde quasi il doppio, mentre irrompono in Parlamento i grillini, che raccolgono la bellezza di circa otto milioni e mezzo di voti e divengono, dal nulla, il primo partito italiano. Ci arrivano, i grillini, con la promessa di aprire Palazzo Montecitorio come una scatola di tonno, ma poi ci finiscono dentro un po’ disorientati e senza apriscatole. Così Grillo riprenderà subito ad alzare la voce contro tutto e tutti. Non per caso, l’anno si chiude, per lui, con la preannunciata richiesta di impeachment contro il Presidente della Repubblica: una roba che nel nostro ordinamento costituzionale non c’è, ma questo per il comico genovese è un dettaglio poco significativo.

Dopo febbraio, il problema è fare il governo. Il porcellum – questo squisito dono di Calderoli col quale si sono eletti ormai tre Parlamenti, uno più infelice dell’altro, e di cui non riusciamo ancora a sbarazzarci – porta al Pd la maggioranza alla Camera, ma non al Senato. Bersani prova allora a fare un «governo di cambiamento» su pochi punti programmatici, ma i grillini, quelli guidati da Vito Crimi e Roberta Lombardi (li ricordate? Io no), loro non se ne danno per inteso, e poiché in campagna elettorale il Pd aveva detto mai con Berlusconi, l’unica per Bersani è passare la mano.

Ma prima c’è di mezzo il Quirinale. Il settennato di Napolitano è finito: l’elezione del Presidente della Repubblica si incrocia con la formazione del governo. Bersani non riesce a portare sul più alto Colle né il suo primo candidato, Franco Marini, né il secondo, Romano Prodi. Marini è respinto esplicitamente da un numero assai consistente di parlamentari del Pd; Prodi, invece, viene bocciato di nascosto, nel segreto dell’urna, da 101 parlamentari rimasti anonimi. Il primo non ce la fa perché il suo nome è frutto di una convergenza  col Pdl che evidentemente in molti non sono pronti a digerire (benché la Costituzione, richiedendo alle prime votazioni un quorum più elevato, di fatto la solleciti); il secondo, forse, non ce la fa non per altro, ma perché già il primo non ce l’ha fatta. Nuovi risentimenti si uniscono cioè a vecchie tossine e producono il patatrac. L’altro nome, messo in circolo dai grillini, cioè Stefano Rodotà, è troppo lontano dal quadro politico che giocoforza si va componendo; il risultato finale è che, dietro supplica di tutto il Parlamento (salvo i Cinque Stelle), al Quirinale torna, prima volta nella storia della Repubblica, Giorgio Napolitano, cioè proprio il più robusto architrave delle larghe intese le cui premesse aveva lui stesso già posto con Monti, nella precedente legislatura. E a presiedere il governo andrà il vice di Bersani, Enrico Letta, cioè il più entusiasta sostenitore di Monti nel Pd, Letta che al Professore aveva persino mandato un biglietto augurale, gridando addirittura al miracolo. Ironia della sorte, oggi è proprio Scelta Civica, la formazione per metà disastrata di Monti, a guardare con più scetticismo le future prospettive del governo.

Intanto però le larghe intese si sono alquanto ristrette: dopo la condanna in via definitiva di Silvio Berlusconi, piovuta in un caldo pomeriggio d’estate, a fine luglio, e dopo ben cinque mesi di estenuante battaglia parlamentare intorno all’iter della decadenza, il Pdl è morto. È morto proprio, e non rinascerà più. In compenso, dalle sue ceneri è rinata, all’opposizione, Forza Italia, con a capo il sempiterno Berlusconi. Che è passato nel giro di un mese dal sul ultimo discorso al Senato di fiducia a Letta a un furibondo voto contrario: l’uomo è capace di queste svolte repentine. Ora il Cavaliere ha ripreso ad alzare i toni, a gridare al colpo di Stato (anzi: a ripetuti colpi di Stato) e a competere col populismo di Grillo, mentre in maggioranza è rimasta la pattuglia del Nuovo Centrodestra, a guida Alfano, dalle incerte basi elettorali e dunque dalla ostinata volontà di proseguire nell’azione di governo il più a lungo possibile, fino all’Europee e oltre. Osservata in termini statici, la competizione politica somiglia ormai sempre di più  a un confronto fra le forze che si richiamano all’europeismo, e i populismi che incalzano dall’esterno. Per fare però dell’Europa un nuovo, espansivo arco costituzionale e non solo una fortezza difensiva degli attuali assetti proprietari e finanziari che governano il continente ci vorrebbe qualcosa di più che non appelli alla responsabilità, al rigore e al sacrificio. La rappresentazione dinamica, intanto, ci dice anche dell’altro: perché in cima al Pd sta ora lo scalpitante sindaco di Firenze, Matteo Renzi, non si sa quanto convinto della bontà dell’accordo di governo, che di sicuro non ne può però accettare un’interpretazione freddamente tecnocratica. E d’altra parte per recuperare voti e consenso, Renzi non ha ancora sterzato davvero sul versante delle politiche economiche e sociali, ma solo su quello dei costi della politica. Che si sono sicuramente imposti come il tema principale del dibattito pubblico per tutto l’anno, anche se il poco o molto che si è fatto (o si può ancora fare) difficilmente cambierà in meglio la vita degli italiani.

Se si guarda infatti il film delle primarie – una versione non adatta alle sale, vista la lunghezza, e visto pure lo statuto difficilmente decifrabile del Pd – si vede con chiarezza che la vittoria di Renzi si è decisa su questo solo fronte, cioè per il senso di stanchezza e sfiducia verso una classe dirigente, responsabile del fallimento di febbraio. Con esso, a torto o a ragione, Gianni Cuperlo è stato identificato (Pippo Civati no, e infatti se l’è cavata). Dalla parte di Cuperlo stavano D’Alema e Bersani – come se con Renzi non stessero, che so, Franceschini Veltroni o Bassolino, che di primissimo pelo non sono. Però Renzi ha vinto, e vinto alla grande. Il 2013 è stato il suo anno: l’uomo da copertina, in tutti i sensi del termine, è lui. Sue le parole intorno a cui ruota la discussione nel partito, sua anche la caricatura più riuscita (quella fatta da Crozza).

Non è tutto: in mezzo a questo mare procelloso c’è stata la clamorosa sconfitta di Alemanno alle Comunali di Roma e la vittoria di Ignazio Marino. E, alla Regione, quella più rotonda ancora di Zingaretti. E a proposito di regionali: al Nord le regioni più grandi sono ora tutte in mano alla Lega, che è invece al punto più basso della sua parabola politica: il Piemonte a Cota, sommerso dagli scandali, il Veneto a Zaia, la Lombardia a Maroni, che ha lasciato la guida della Lega all’europarlamentare Matteo Salvini. Umberto Bossi è ormai uno sbiadito ricordo, così come lo è Gianfranco Fini. Altro politico sul viale del tramonto, senza esser mai riuscito a prendersi la scena, e senza quindi il rimpianto di nessuno, è Luca Cordero Di Montezemolo. Ma questo è solo un dettaglio.

Il rinnovamento della classe politica, alla fine, c’è stato: è stato eletto il Parlamento più giovane della storia, ma per la verità non c’è nessuno che sia disposto a scommettere sulla sua superiore qualità. La giovane filosofa Michela Marzano, alla sua prima esperienza, dice che la colpa non è sua ma di chi ce l’ha mandata, della vecchia politica che non molla la presa. Ma forse è lei che non riesce ad afferrare gran che, di quel che le capita intorno. Letta però ha chiuso l’anno non solo celebrando la «guadagnata stabilità», ma anche festeggiando la nuova generazione di quarantenni salita alla ribalta della politica italiana. Una generazione, l’abbiamo già scritto su queste colonne, non la fa però l’anagrafe, la fa la storia, e dunque tutto è ancora da fare. E, quanto alla storia: nel 2013 se ne sono andati Emilio Colombo e Giulio Andreotti. Senza nostalgie ma con rispetto, forse la prima Repubblica è davvero finita (e noi che pensavamo di stare già in una seconda).

(L’Unità, 29 dicembre 2013)

L’età dell’emergenza

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Per la precisione: i quarantasette anni di Enrico Letta sono più vicini ai cinquanta che non ai quaranta. Ma va bene anche così: ci si può sentire della «generazione dei quarantenni» anche un giorno prima dello scoccare del mezzo secolo. E poi il mezzo del cammin di nostra vita si va spostando in avanti e non all’indietro, per fortuna: ci sta che ci si senta una nuova generazione, alla ribalta della vita politica del Paese, anche perché i compagni di avventura sono effettivamente più giovani: Alfano ha da poco compiuto i quarantatre, mentre Renzi non è neppure arrivato alla fatidica soglia dei quaranta, quando, secondo un’autorità in materia, Marina Ripa di Meana, la vita comincia per davvero.

Che questa faccenda anagrafica sia in qualche modo significativa è però piuttosto discutibile. Anche la ricostruzione storica proposta ieri dal premier nella conferenza stampa di fine anno non è precisissima. Letta ha detto:  «si è affermata una generazione di quarantenni senza alcun precedente nella storia repubblicana». Ma i precedenti, per la verità, ci sono. Gli anni di Letta sono gli stessi che aveva Massimo D’Alema quando divenne Presidente del Consiglio (e, per la verità, gli stessi anche di Aldo Moro, al tempo della formazione del suo primo governo, nel ‘63); quanto a Veltroni, è stato vice di Prodi a quarantuno anni, e segretario dei Democratici di sinistra a quarantatre. Eppure, né Veltroni né D’Alema hanno celebrato la loro affermazione con la rivendicazione generazionale che Letta ha invece voluto far propria. A parte i maglioncini sulle spalle, da dove viene questa ansia di dirsi giovani?

Il fatto è che l’età c’entra fino a un certo punto, e se si volesse giudicare la geografia del potere nel nostro Paese in base all’età non si dovrebbe certo cominciare dalla politica, ma casomai dalle banche, o dalle imprese, o dalle direzioni di giornale, o dalle alte magistrature dello Stato, dove di ricambio generazionale ce n’è pochino. Se il Paese è bloccato, i blocchi sono assai più duri e impermeabili nell’economia, nella finanza o nell’editoria, che non nella politica. E se invece è alla politica che si vuol guardare, meglio gettare lo sguardo dall’altra parte, dove Berlusconi supera allegramente (è il caso di dirlo) un cospicuo numero di decenni, ed è ancora lì, più in palla che mai, mentre il centrosinistra di leader ne ha cambiati sin troppi, nel corso degli ultimi venti anni (alcuni più giovani, altri meno, e per dirli tutti d’un fiato si tratta di: Castagnetti Fassino Prodi D’Alema Amato Rutelli Veltroni Franceschini Bersani, infine Renzi). Se poi si guarda alla composizione attuale del Parlamento italiano, è senz’altro giovanile: è lì che probabilmente non si hanno precedenti, ma che questo garantisca la qualità della produzione legislativa è ben difficilmente dimostrabile.

Come si vede, l’età dice molto poco. Anche perché la generazione, come termine anagrafico, non serve a granché: può funzionare invece come concetto storico. Quando perciò il Presidente del Consiglio afferma che una generazione come quella che attualmente guida il Paese non ha precedenti commette un errore, ma si tratta, più ancora che di imprecisione, di precipitazione. È decisamente presto, infatti, per fare un’affermazione del genere, perché, sul piano storico, una generazione non è un dato ma è piuttosto un compito: gli uomini che hanno guidato il Paese dopo la fine della seconda guerra mondiale «sono» quello che hanno fatto, e costituiscono perciò una generazione in relazione al peso storico che hanno sostenuto, dando all’Italia la Repubblica e la Costituzione, e avviandola sulla strada della modernità e dello sviluppo: non certo in relazione alla loro carta d’identità. L’età, dunque, non basta. De Gasperi aveva già superato i sessanta all’indomani del conflitto mondiale: vogliamo dire che si doveva fare da parte, invece di assumere la guida del Paese? Anche Togliatti e Nenni avevano già superato i cinquanta: avremmo dovuto dolercene?

Letta ha insomma ragione, se con il riferimento all’età vuol indicare un’urgenza, meno se vuole invece assecondare un certo senso di insofferenza che investe oggi la politica. Perché è evidente che non dipende dall’età, e nemmeno dal’anzianità in servizio: lui stesso, Enrico Letta medesimo, ha almeno una quindicina d’anni di attività politica ai massimi livelli: non può essere un handicap. Quel che conta davvero è, invece,  quanto tocca a lui e al governo in carica compiere: la transizione verso un nuovo assetto istituzionale, una nuova legge elettorale, una chiara inversione di rotta in materia di economia, rispetto a questi anni di crisi e di recessione, il coraggio delle decisioni che non si limitano ad accettare il quadro delle compatibilità date ma provano invece a modificarle, sia sul piano nazionale che su quello europeo, e insomma un forte recupero di credibilità politica, non anagrafica. Questo governo lo può fare, non ha motivi per non farlo: non solo non ha più alibi, come oggi dice anche Renzi, ma non ce li aveva nemmeno prima, perché di fronte alla storia gli alibi, sia consentito dirlo, non ce li ha nessuno.

(L’Unità, 24 dicembre 2013)                                                                                                           

INVALSI, a Scuola è scoppiata la guerra dei quiz

ImageÈ sorprendente che la valutazione nazionale del sistema scolastico non si sia ancora cimentata con il paradosso della regola su cui ha meditato uno dei massimi filosofi del Novecento, Ludwig Wittgenstein. Ma per il momento mettiamolo pure da parte, perché c’è – o ci sarebbe – un altro paradosso all’ordine del giorno. Il ministro dell’Istruzione ha infatti nominato cinque esperti, chiamandoli a selezionare la rosa dei nomi tra i quali sceglierà poi il futuro Presidente dell’Invalsi, l’Istituto Nazionale per la valutazione del sistema educativo, di istruzione e formazione, dal cui crescente peso si vogliono far discendere le linee di riforme della scuola italiana del XXI secolo. Ora, dove starebbe il paradosso? Non certo nella qualità dei commissari. Basta leggere i nomi: Tullio De Mauro, linguista, Giorgio Israel, matematico, Cristina Lavinio, studiosa di didattica della lingua, Coltilde Pontecorvo, psicologa dell’educazione, Benedetto Vertecchi, pedagogista. Il paradosso sta dunque altrove: sta nel fatto che i suddetti commissari non darebbero garanzie di completa e assoluta fiducia nella bontà dei metodi e dei risultati finora prodotti dall’istituto. Bel guaio. Così è spuntato fuori persino un accorato quanto autorevole appello, in cui si chiede al ministro Maria Chiara Carrozza di adoperarsi «affinché la futura presidenza dell’Invalsi sappia proseguire e rafforzare le azioni finora intraprese». Ovverossia affinché il ministro, per dirla più schiettamente, metta i cinque commissari in condizione di non nuocere.

Con maggiore diplomazia, anche Piero Cipollone, che dell’Invalsi è stato presidente dal 2007 al 2011, si è augurato che il giudizio dei commissari non pesi più di tanto: «Tutto dipenderà dalle candidature – ha dichiarato al Corriere –. I valori oggettivi emergono sempre, qualunque sia la visione di chi deve decidere». Vale a dire: i cinque pensino pure tutto il male possibile dei test Invalsi, ma se nel mazzo ci sono le candidature giuste il loro furore ideologico non fermerà certo l’Istituto.

Ma perché ci sarebbe da temere per la «visione di chi deve decidere», cioè dei cinque esperti? E perché si dovrebbe pensar male dei test Invalsi? E cosa propriamente sono questi test?

I test Invalsi sono strumenti standardizzati di valutazione dell’apprendimento degli studenti, così come degli istituti scolastici del nostro Paese e, in ultima analisi, del sistema scolastico nel suo complesso. Ed è dal 2007, dal «quaderno bianco sulla scuola» predisposto insieme dal ministero dell’economia e da quello della pubblica istruzione, che il rafforzamento dei sistemi di valutazione viene posto al centro delle strategie perseguite al fine di migliorare la qualità della scuola italiana. Dunque: se i testi son fatti male, è fatta male pure la valutazione, e se è fatta male la valutazione è facile che siano sbagliate pure le politiche conseguenti. Siccome, infine, la scuola è «il settore che farà la differenza fra ripresa o stagnazione» – così si leggeva nel quaderno, e fa quasi tenerezza, visto che si era alla vigilia di una crisi mondiale – si capisce perché l’attenzione portata al sistema Invalsi sia stata, fin da subito, assai grande.

Ma da quando è stata nominata la commissione l’attenzione è cresciuta ancora di più. Qualche giorno fa Alesina e Giavazzi si sono chiesti sul Corriere perché siano state scelte persone le quali «ritengono che questi test, sebbene normalmente utilizzati in molti altri Paesi, non siano di alcun aiuto nell’individuare eventuali situazioni patologiche, anzi siano dannosi perché figli di una deriva economicistica, quantitativa e irrispettosa delle non misurabili ricchezze spirituali degli individui e della complessità del lavoro di un docente».

I past-president dell’Istituto – Piero Cipollone e Paolo Sestito – provenivano dalle fila di Bankitalia: è facile immaginare che per loro non abbia neppure senso nutrire timori di «derive economicistiche», o «quantitative». Ma per i cinque esperti evidentemente sì, almeno secondo l’opinione di Alesina e Giavazzi. E si capisce che, nel loro giudizio, una ricchezza spirituale non misurabile è di per sé sospetta: forse non è neppure una ricchezza. In ogni caso, se anche lo fosse – sembra di capire – simili ricchezze la scuola non se le può più permettere e non può più (o non è più in grado di) riconoscerle.

Ora, al di là della vicenda quasi surreale dei cinque esperti (che in fin dei conti possono davvero poco: selezionare una rosa, sarà poi il ministro a decidere), il punto è se si possa discutere dei metodi di valutazione adottati dall’Invalsi senza subire ostracismi di sorta, senza sentirsi accusati di voler affondare la scuola italiana, o di lasciare il paese nella più nera recessione, o di essere contrari al progresso, o di perdersi nelle nebbie di uno spiritualismo antiscientifico.

La discussione, peraltro, non verte mica sulla necessità o meno di sottoporre a valutazione la scuola italiana: la questione è, piuttosto, quale tipo di valutazione. Se infatti non è chiaro che cosa propriamente misurino i test somministrati ai nostri ragazzi nelle scuole, se i test stessi non ricevono, a loro volta, una qualche validazione scientifica pubblica e condivisa, se altri paesi adottano differenti sistemi di valutazione, se saperi e tradizioni scientifiche e culturali non sono tutte, ad ogni latitudine e longitudine, allo stesso titolo riconducibili ad un unico metodo, beh: una discussione aperta e libera sulla strada da intraprendere sarebbe senz’altro salutare. E d’altra parte: non è forse vero che manca, a tutt’oggi, la dimostrazione che occorre procedere alla somministrazione di test di massa, per valutare le prestazioni del sistema scolastico, e non invece ad una somministrazione a campione, la quale consente comunque di formare un’immagine statistica del sistema ma evita di sovrapporre alle normali valutazioni del docente la crocetta del quiz ministeriale? E non manca anche la dimostrazione che, per esempio, un sistema articolato di ispezioni scolastiche sia meno efficace nel fornire elementi di valutazione al decisore politico? Neppure questo va infine dimenticato: che non può certo essere un organo meramente tecnico a decidere verso quali obiettivi orientare la scuola italiana.

E a proposito di cose da ricordare, c’era sopra il paradosso di Wittgenstein: giova rammentarlo, sia pure all’ingrosso. Immaginiamo dunque di sottoporre a uno studente un certo numero di addizioni e che, nell’esecuzione, lo studente commetta qualche piccolo errore: diremo allora che non ha compreso la regola dell’addizione? Probabilmente no, se gli errori paiono casuali; probabilmente sì, se gli errori ci appaiono invece sistematici. Ma c’è una procedura per distinguere l’errore sistematico dall’errore accidentale? No, purtroppo non c’è e non ci può essere. Si può allora escogitare un test che consenta di distinguere senza alcuna incertezza i due casi? No, non si può. Lo stesso numero o lo stesso tipo di errore può essere commesso dallo stesso studente per mera distrazione oppure per incomprensione della regola. Come sa chiunque abbia frequentato un’aula scolastica. Senza bisogno, insomma, di scomodare ricchezze spirituali non misurabili, a Wittgenstein (che era peraltro un logico squisito, non un discutibile cialtrone) risultava che persino nella valutazione di un test elementare, come l’esecuzione di un certo numero di addizioni, l’esperienza del docente non è surrogabile e deve necessariamente intervenire per distinguere – poniamo – la superficiale disattenzione dalla ben più profonda incapacità di comprendere (o – come oggi si dice – incompetenza).

E invece, a proposito di surrogati, cosa si deve pensare del fatto che è ormai fiorita una bibliografia di titoli sui test Invalsi, che aiutano lo studente a superarli? Anche questo è un bel paradosso (se volete dargli un nome, chiamatelo pure paradosso del terzo libro): il test deve valutare l’apprendimento degli studenti, dunque quel che dovrebbe aiutare a superare i test è precisamente (e solo) quel che si è appreso nello svolgimento del programma scolastico. E invece prende ormai forma una nuova materia di studio: il test stesso, per il quale ci sono nuovi libri di testo, e ore scolastiche che i docenti sottraggono all’ordinario lavoro d’aula per mettere gli allievi in condizione di affrontare la prova. Evidentemente qualcosa non va, se bisogna studiare l’italiano, poi la matematica, e poi i test: il terzo libro.

Così come non va, e pare decisamente esorbitante, il ruolo che i test svolgono nell’esame che conclude la scuola secondaria di primo grado (la scuola media). Perché lì si è andati ben oltre la valutazione: lì l’esito del test fa media ed entra nella votazione finale. E, chissà, stessa sorte potrebbe toccare un domani all’esame di Stato. E dunque: di materia per discutere ce n’è, eccome. Se allora c’è da temere che si imponga una visione ideologicamente viziata, è proprio quella di chi pretende di andare avanti senza discussione alcuna.

(Il Mattino, 23 dicembre 2013)

Così Togliatti usò Gramsci

Image«Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare». Niente da fare: dal giugno del 1928, quando fu condannato, fino all’aprile del 1937, quando si spense, il cervello di Antonio Gramsci non smise mai di secernere pensieri, proprio in quelle condizioni difficili di detenzione e confino richieste, con parole divenute celebri, dal pubblico accusatore, Michele Isgrò.

A quelle condizioni da qualche tempo sappiamo bene che si aggiunse anche l’isolamento politico. La vicenda, che continua a interessare gli studiosi ora che l’accesso agli archivi sovietici amplia la documentazione a disposizione degli storici, è al centro dell’ultimo libro di Mauro Canali, che ha la tesi esposta fin nel titolo: Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata (Marsilio, € 19,50).

Canali torna sui punti più controversi della vicenda umana e politica di Gramsci: la frattura con Palmiro Togliatti, di cui c’è prova già nelle lettere del ’26, dunque ben prima dell’arresto e prima anche della definitiva vittoria di Stalin nella durissima lotta per il potere in corso in Unione Sovietica; il ruolo decisivo svolto da Silvestri, alias Ignazio Silone, nell’informare la polizia e sostenere i capi d’accusa contro Gramsci e gli altri dirigenti comunisti nel processone del ‘28; la «strana lettera» di Ruggiero Grieco del 10 febbraio 1928, a istruttoria ancora aperta, che danneggiò seriamente le prospettive di Gramsci e che Canali ha poco dubbi nel ritenere ispirata da Togliatti in persona.

Il libro si propone dunque di mostrare che, di sotto alla storia ufficiale costruita a tavolino dal capo comunista, sta una storia reale, fatta di dubbi e sospetti, e soprattutto di una distanza politica profonda, e mai sanata, che la gestione delle carte nel dopoguerra da parte di Togliatti ha impedito di apprezzare in tutta la sua portata e gravità.

Ora, sul piano della ricerca storiografica, così come della conoscenza biografica, il libro di Canali costituisce un avanzamento: basti pensare all’identificazione di Riccardo Lombardi, futuro leader socialista, con quel «Linge» che tiene a Milano i contatti fra Tatiana Schucht e il partito, in modo però da destare sospetti nei dirigenti comunisti, o alla pubblicazione integrale della richiesta di libertà condizionale indirizzata da Gramsci a Mussolini, e il successivo impegno del detenuto, essendo accolta la richiesta,a non «fare della propaganda né in Italia né all’estero», che contraddirebbe la vulgata di un Gramsci che fino all’ultimo non arretra di un millimetro.

Ma l’obiettivo della polemica politica, quello forse non è del tutto raggiunto. Canali mette Togliatti dinanzi a un bivio: fedeltà al gramscismo oppure «ripudio silente della guida di Gramsci, con la conseguente sudditanza del partito allo stalinismo». La scelta di Togliatti fu la seconda, condotta con tutte le prudenze e le doppiezze del caso –  salvo poi, nel dopoguerra, rimettere saldamente Gramsci alle radici del Pci. Il giudizio dello storico è netto: «La personalità di Togliatti che affiora dalla vicenda Gramsci è quello di un uomo politico tanto intelligente quanto scaltro», che passa indenne attraverso il bordighismo dei primi anni venti e il successivo stalinismo, per arrivare a compiere con la svolta di Salerno il suo capolavoro politico. Proprio questo è però il punto vero: quella svolta ricevette la sua consacrazione teorica proprio dalle carte di Gramsci.

Ora, Canali ha ragione nel ritenere che il Gramsci che a questo scopo circolò nel dopoguerra fu il Gramsci di Togliatti, frutto della sua opera di costruzione politica e ideologica, ma ha il torto di sottovalutare il fatto maggiore che con ciò si impose, e cioè che proprio così il partito comunista fu, proprio grazie a quell’operazione, quel che fu effettivamente: il Pci di Gramsci e Togliatti. È vero infatti quanto scrive in conclusione, che cioè, nell’Italia del dopoguerra Gramsci fu per Togliatti «l’àncora di salvezza» che gli consentì di sganciarsi progressivamente dalla visione coltivata negli anni di Mosca: imposta da Stalin e trasmessa pedissequamente dal segretario del Pci. Poco rileva se ne andasse della sopravvivenza stessa del comunismo italiano, o di semplice opportunismo politico, come inclina a pensare Canali. Il fatto è che quell’àncora c’era, e Togliatti seppe gettarla. È vano credere che questo fatto esca diminuito dal modo in cui il Migliore si mosse nei terribili anni Trenta. Forse è anche questo un segno di un’epoca come la nostra, povera di categorie storico-politiche: ritenere che facendo scivolare l’accortezza politica di Togliatti prima in abile scaltrezza e infine in furbizia, compromettendolo cioè moralmente, si diminuisce l’impresa politica della sua vita, la costruzione del più grande partito comunista dell’Occidente.

Che poi il pensiero di Gramsci sia stato più ricco e tormentato del suo uso politico, è, a pensar bene, quasi un’ovvietà, per un’opera che ci è ormai restituita come un classico del Novecento, come un serbatoio di idee largo e problematico, solo attingendo al quale i comunisti italiani hanno potuto cogliere il frutto politico più complesso del secolo scorso, la democrazia.

(Il Messaggero, 22 dicembre 2013)

La libertà al tempo delle “Pussy Riot”

ImageNon che sia cambiata la legge, ma l’amnistia votata dalla Duma ieri manda liberi gli attivisti di Greenpeace – tra cui il napoletano Christian D’Alessandro, già rilasciato su cauzione ma trattenuto ancora in Russia – che qualche mese fa avevano cercato di abbordare una piattaforma artica del gigante petrolifero russo Gazprom, così come restituisce la libertà alle due cantanti del collettivo punk femminista delle Pussy Riot, finite in carcere lo scorso anno per la loro blasfema (ma soprattutto anti-putiniana) esibizione nella cattedrale del Cristo Salvatore, a Mosca. E questa è senz’altro una buona notizia: dalle nostre parti, per fortuna, per simili manifestazioni di protesta non si finisce nelle patrie galere, ed è evidente che la libertà di opinione, e di manifestazione delle proprie opinioni, è da noi salvaguardata molto più che nella Russia di Putin, dove i margini di discrezionalità delle autorità pubbliche nella repressione del dissenso sono decisamente ampi.

Ma è bene rammentare che nessuna conquista è definitiva. Prendete la Spagna: il ministro dell’Interno intende portare all’approvazione del Parlamento una legge che, per contenere e reprimere gli scoppi di violenza che accompagnano le manifestazioni, finisce per limitare fortemente le espressioni di dissenso. La legge sanziona con multe assai pesanti una serie di infrazioni dell’ordine pubblico, valutate come «gravi» o «molto gravi» (ma non delittuose), e soprattutto impone un regime di presunzione di colpevolezza per i responsabili individuati dalle forze dell’ordine, che contraddice i cardini di uno Stato liberale, il quale poggia, com’è noto, sulla presunzione opposta, dell’innocenza fino a prova contraria. Ironia vuole, peraltro, che la legge oggi proposta dal partito popolare spagnolo somiglia ad un analogo progetto presentato circa vent’anni fa, nel ’92, dai socialisti allora al potere, e in quella circostanza fu proprio il portavoce dei popolari Federico Trillo ad usare le parole giuste. Parole che nella Spagna democratica da poco uscita dalla dittatura franchista si sarebbero dovute imprimere come un monito perenne, una lezione non dimenticabile della storia: «La libertà e la sicurezza non sono grandezze equiparabili. La libertà e la sicurezza non stanno in una stessa misura e rapporto né nella Costituzione né in genere in uno Stato democratico. La libertà è prioritaria e la sicurezza sta alla libertà nella relazione del mezzo al fine».

Purtroppo, le politiche securitarie che anche nello spazio europeo sono adottate sempre più spesso, attraverso inasprimento di pene, introduzione di nuove fattispecie di reati, riduzione della privacy, contenimento poliziesco dei fenomeni migratori e in genere delle situazioni di allarme sociale non giovano alla qualità delle nostre democrazie. Il senso di giustizia si confonde con il senso della vendetta, il bisogno di sicurezza erode le garanzie del diritto, la difesa ‘proprietaria’ volta le spalle alle aree sempre più estese della marginalità e dell’esclusione sociale.

Jorge Fernández Diaz, il ministro dell’interno spagnolo, si è difeso sostenendo la necessità di attrezzare una risposta legale agli atti di vandalismo incontrollato e alla capacità di interdizione di cui sono capaci a volte anche piccoli gruppi ben organizzati. Una dannosità, o una pericolosità, che eccede di gran lunga il diritto di manifestare il proprio pensiero, e di cui si ha prova anche da noi: anche per le strade di Roma, o su in val di Susa, tanto per fare qualche esempio.

È un problema reale, la risposta al quale non può però essere la compressione delle libertà. Che se poi guardiamo alla cosa non sotto l’angolo dell’ordine pubblico, ma per il suo senso politico, ci accorgiamo che quel che è da pensare oggi non è il modo in cui contenere le minoranze organizzate, ma il modo in cui organizzare le maggioranze. Non ce ne sono più, infatti: né nel Parlamento né nel Paese. E al loro posto stanno minoranze più o meno agguerrite, che a turno occupano in maniera più o meno effimera l’arena pubblica, senza però portare con sé quella visione generale, quel senso di durata e quel fattore di stabilità, di cui vivono le istituzioni politiche. Ed è questa, della debolezza delle maggioranze, una delle cause, non l’ultima, dell’affanno in cui si trovano oggi le nostre esauste democrazie.

(Il Mattino, 19 dicembre 2013)

Immigrati, la vergogna di Lampedusa. Nudi all’aperto per la disinfestazione

ImageIn epigrafe al libro Lager italiani, di Marco Rovelli, le parole di un impreparato ispettore di polizia: «Nessuno sapeva di aver vinto un concorso per fare il guardiano di un lager». E nessuno – si può aggiungere – sapeva, prima di vedere il video diffuso ieri, di avere la cittadinanza in uno Stato che gestisce entro il proprio territorio strutture che somigliano a lager.

O forse no, forse qualcosa si poteva pure sapere, visto che il libro risale al 2006. Nel frattempo qualcosa è cambiato, almeno nella denominazione dei centri dove sono trattenuti i migranti che sbarcano a Lampedusa, ma le immagini che ieri sono circolate sbattono in faccia al Paese le condizioni disumane, indegne di un paese civile, in cui sono trattenuti e reclusi, senza colpa alcuna, gli uomini che attendono in fila, nudi, al freddo, il loro turno per la disinfestazione.

Il personale si muove indifferente nel centro di prima accoglienza. Indifferente perché abituato: come se ci si potesse abituare. Come se potessimo a nostra volta rimanere indifferenti all’idea che a Lampedusa ci si abitua ad una così grave mortificazione della dignità delle persone. Alla trasformazione della parola e della pratica dell’accoglienza nell’ipocrita termine della neolingua che lo Stato italiano usa per definire le attività che si conducono nel centro. Se questa è accoglienza.

Ora partirà – anzi: è già partito – il discorso sulle responsabilità. In capo al singolo operatore, al corpo di sorveglianza, al direttore del centro. Benissimo. Ma la responsabilità più generale, che investe lo Stato italiano, le sue politiche per l’immigrazione, quella non può passare sotto silenzio. Il fenomeno migratorio è sicuramente un problema che trascende i confini nazionali e investe l’Unione europea, ma questo non può significare un così drammatico abbassamento degli standard minimi di cura delle persone.  In quei trattamenti degradanti non sono loro, siamo noi che ne usciamo umiliati.

C’è poi una responsabilità nei confronti del nostro ordinamento democratico, che si mostra ancora una volta estremamente fragile. Strappato in più punti. E dire che qualunque considerazione storicamente avvertita saprebbe indicare in questi flussi demografici una risorsa per il nostro Paese e un’opportunità, non solo un problema. I dati economici e quelli demografici camminano insieme: noi invece facciamo di tutto per opporre gli uni agli altri. Alimentiamo diffidenze, ragioniamo di respingimenti, e invece di ospitalità offriamo ostilità e inimicizia.

E intoniamo il discorso della  coperta troppo corta, quando si tratta delle risorse economiche e finanziarie necessarie per far fronte alla crisi. Ma come non vedere che, intanto, è la coperta dei diritti che si sta drammaticamente accorciando, e non copre affatto tutti. Non copre milioni di uomini e le donne che vivono e lavorano in Italia: copre me, copre i cittadini italiani, ma non copre gli extracomunitari, non copre i migranti, non copre gli uomini in fuga dalla guerra, dall’oppressione e dalla misera che bussano alle porte del nostro Paese. Bussano perché venga loro aperto – mentre il nostro primo gesto è rinchiuderli, spruzzandogli il disinfettante con una pompa e lavandoli all’aperto contro un muro di lamiere.

Il filosofo Giorgio Agamben ha sostenuto che non è la democrazia a suffragio universale l’invenzione politica centrale del Novecento, quella intorno a cui tutto il resto ruota, ma è il campo di concentramento. Un’esagerazione. Ma siamo entrati nel ventunesimo secolo, e facciamo di tutto per dargli ragione.

(Il Mattino, 18 dicembre 2013)

La piazza anti-riformista

ImmagineDove comincia la ribellione? Forse in piazza, dove domani un crogiuolo di sigle che includono studenti, centri sociali, disoccupati organizzati, elementi che appartengono all’area della sinistra radicale e antagonista ha indetto a Napoli una manifestazione: non è chiaro ancora se intendano saldarsi con il movimento dei forconi che già da giorni appesantisce il clima del Paese, o se invece vogliano prendere la scena, cercando di dare alla protesta un colore preciso. Ci sarà poi, per i forconi, la prova del fuoco a Roma, a Piazza del Popolo, presumibilmente in settimana. Le agitazioni di questi giorni raccolgono e convogliano malesseri diffusi, e il loro significato politico resta ancora indeciso.

Oppure la ribellione comincia a Milano, dove Matteo Renzi ha esordito all’Assemblea che ieri lo ha incoronato segretario del Pd insistendo soprattutto su una parola: ribelle? Voglio un Pd ribelle, ha detto, salvo aggiungere poi, con qualche prudenza in più, che, però, uno il suo ribelle di riferimento se lo può scegliere come crede: non è mica detto che debba essere per forza un ribelle arrabbiato e furente; può trattarsi anche di un saggio ribelle «riformista». Ci vuole comunque qualcuno che arrivi in un posto e non vi si adegui, ma che quel posto provi a cambiarlo. Lui c’è arrivato: vedremo.

In piazza un qualche spirito di ribellione di certo serpeggia, e di riformista ha molto poco. Proprio l’idea che il cambiamento necessario possa prendere la via graduale di riforme (le quali, per quanto incisive, chiedono tempo per dispiegare i loro effetti) è tra gli obiettivi di coloro i quali manifestano perché non possono più aspettare. La discussione sulla ricetta riformista che Renzi offre al Paese non interessa quelli che vanno in strada: figuriamoci se si appassionano al tempo di un anno o poco più che per il momento Renzi sembra intenzionato a concedere a Enrico Letta «per fare le cose».

Il partito democratico costituisce dunque, al momento, non un interlocutore, ma un nemico. Qualcosa contro cui andare, non certo qualcosa da affiancare. Il Pd ha, in effetti, tutti gli occhi puntati addosso: esprime il Presidente del Consiglio e la più parte della maggioranza parlamentare che sorregge il governo; si autorappresenta come il partito dell’Italia, che ha il senso dell’unità nazionale e la volontà di difenderne le istituzioni. Ora ha anche un nuovo segretario che porta su di sé la responsabilità di una proposta politica nuova, e vuol dimostrare di avvertire l’urgenza sociale del Paese, non solo economica, fin dai suoi primi passi: a cominciare dalla sveglia alle sette di mattina per le riunioni di segreteria. Basterà? Di sicuro, il Pd è sotto pressione: lo attestano gli assalti alle sue sedi dei giorni scorsi. Un pessimo segnale, e di certo non il miglior viatico per Matteo Renzi. Che il sindaco di Firenze sia in grado di abbassare quella pressione, producendo politica, è ancora tutto da vedere. Ma colpisce questa coincidenza fra i cambiamenti, che bene o male il sistema dei partiti sta conoscendo, a destra come a sinistra, e il ribollire della piazza, i toni populisti di rigetto indistinto di qualunque interlocuzione col Palazzo. Si nega la possibilità di aprire un tempo nuovo per le vie ordinarie, riaccreditando cioè la prassi parlamentare e la mediazione dei partiti, forse per cercare di imprimere al Paese una sterzata straordinaria, con chissà quali mezzi.

Ieri Renzi ha messo su la canzone dei Negrita: «resta ribelle/ non ti buttare via». Fa specie che il mito giovanile della ribellione possa proporsi anche sul palco di un partito fasciato dei colori della bandiera nazionale da parte di un segretario che, per quanto giovane, non rinuncia alla cravatta delle grandi occasioni. Renzi però parla indubbiamente un altro linguaggio, sceglie bene i suoi esempi tra le cose nuove che fanno il nostro tempo, lascia perdere i polverosi cognomi e punta diritto ai nomi di persona, che sono più freschi. La sua strategia di conquista di un nuovo consenso fra fasce di popolazione deluse, stanche, segnate dalla crisi è dunque lanciata. Nei modi, nelle forme: vedremo di qui in avanti nei contenuti. Ma l’antagonismo sociale, anche quello tenta di rialzare la testa e pare voler lanciare con forza il suo guanto di sfida.

(Il Mattino, 16 dicembre 2013)

Mezzogiorno: non serve solo legalità

ImageCome nel gioco del Risiko, in cui si trattava di mettere i carri armati qua e là per conquistare il mondo, così ammiragli generali e colonnelli finiscono nel complicato risiko della politica, chiamati a gestire questo o quell’Ente, per sottrarli alle grinfie della criminalità, o semplicemente ad una cattiva gestione. L’ultimo in ordine di tempo è l’ammiraglio che va al porto di Napoli, Felicio Angrisano, su nomina del ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, ma solo pochi giorni fa il ministro dei Beni Culturali Massimo Bray ha nominato il generale di divisione Giovanni Nistri a direttore generale del Grande Progetto Pompei, scegliendo fra una rosa di papabili formata, a quanto pare, da prefetti, magistrati e ufficiali. Anche le autorità locali non hanno mancato di affidarsi a uomini con la divisa: Luigi De Magistris ha chiamato come suo capo di gabinetto un colonnello dei carabinieri, Attilio Auricchio, mentre il governatore Caldoro aveva pensato bene di commissariare le Asl di Napoli 1, l’azienda sanitaria più grande d’Europa, e quella di Salerno, affidandosi anche in quei casi a due alti ufficiali, al generale Scoppa e al colonnello Bortoletti.

Tutte persone rispettabilissime e capacissime, ci mancherebbe pure. Il profilo professionale del militare di carriera, tra l’altro, è pure cambiato, e richiede ormai anche competenze di tipo manageriale. Ma non resta meno confermata l’amara impressione che il risiko giocato dalla politica con tutte queste nomine procura. Ci deve essere cioè, al centro del discorso pubblico che riguarda il Mezzogiorno, un qualche schema mentale di questo tipo: il Sud ha un serio problema di legalità; generali e colonnelli, prefetti e magistrati sono, da questo punto di vista, una garanzia; dunque prendiamo dalle loro fila gli uomini che ci servono. Col che evidentemente si giudica che pescando da altri settori dell’amministrazione pubblica non si trovano garanzie sufficienti.

Non occorre ovviamente che il pensiero venga formulato in maniera esplicita, ma è un fatto che agisce e sembra ispirare almeno alcune delle scelte indicate. Finisce dunque con l’essere coerente con questa impostazione la decisione presa dal sindaco di Firenze Matteo Renzi, neo eletto segretario del Pd, che dovendo assegnare le mansioni della sua segreteria nuova di zecca ha pensato bene di affidare ad una stessa persona, l’onorevole Pina Picierno, le deleghe su Sud e legalità. Quasi un’endiadi, insomma: se si pensa al Mezzogiorno si pensa solo ed esclusivamente a come fronteggiare il crimine.

Sia chiaro: che un problema di legalità esista è fuori discussione. Il bubbone scoppiato sul porto di Napoli ne è l’ultima conferma, e anche le vicende di Pompei non fanno dormire sonni tranquilli. Nessuno intende dunque sottovalutare il fenomeno. Ma non si può fare che la questione meridionale, divenuta ormai polverosa e stantìa agli occhi dei più, sopravviva solo come questione criminale. Perfino gli studiosi del brigantaggio meridionale postunitario, senza sconfinare in discutibili nostalgie neo-borboniche, sentono il bisogno di interrogarsi intorno alle cause di più vasto momento di un fenomeno che neppure allora poteva essere ridotto in termini di mere violazione di leggi. Poi si dirà che c’è voluto l’esercito, e va bene: ma tutto il resto che ci vuole?

Siamo sempre là: visto che i problemi del Sud sono cronici, e l’esercizio faticoso dell’individuazione di nuove piste di sviluppo, di una rigorosa collocazione delle risorse, di una gestione trasparente della cosa pubblica non riesce ad attecchire, si preferisce dare almeno l’impressione di intervenire drasticamente, scomodando non i carri armati (per fortuna), ma almeno qualcuno che c’è salito su.

Una simile riduzione dei problemi del Mezzogiorno sotto il solo denominatore della lotta all’illegalità e alla criminalità organizzata, al malaffare o alla corruzione non può essere accettata. E i primi a capirlo devono essere i politici. A meno che non pensino di mettere i fondi europei nelle mani di qualche generale di corpo d’armata, o di affidare le politiche di sviluppo e di coesione sociale a toghe ed ermellini, è da loro che deve venire anzitutto uno scatto di orgoglio e un’assunzione di responsabilità. Il Sud continua ad avere un problema di classe dirigente, ma non lo risolve certo affidandosi alla Polizia di Stato o alla Benemerita. 

(Il Mattino, 13 dicembre 2013)

Chi soffia sul fuoco della protesta dei forconi

ImageOrmai la protesta dei forconi si è allontanata dalle rivendicazioni originarie e il denominatore comune in cui si saldano le rimostranze di questi giorni sembra essere offerto quasi soltanto dall’invito ad andare tutti a casa. Non è un buon segno. L’auspicio che le ragioni della protesta  non vengano strumentalizzate si fa più debole. Ieri, i titolari della libreria Ubik di Savona, che hanno subito l’assalto dei manifestanti, hanno pubblicato on line alcun versi di Bertolt Brecht: “impugna il libro/ è come un’arma”. Minacciare il rogo dei libri – come appunto è capitato ieri – vuol dire tentare di disarmare proprio coloro ai quali Brecht si rivolgeva con queste parole: “Impara bambino a scuola/ impara uomo in carcere/ impara donna in cucina”. Prendersela con i libri è prendersela con i deboli, non con i forti. Non è denunciare il superfluo, ma togliere l’essenziale (e mettere sotto tiro una categoria che certo non se la passa bene). C’è da augurarsi naturalmente che simili episodi non si ripetano, e che la protesta si mantenga ben dentro un alveo civile, ma alcuni segnali preoccupanti, come quello dell’aggressione alla libreria, non promettono nulla di buono. E per un Berlusconi che rinuncia ad incontrare i rappresentanti della protesta, in un soprassalto di ragionevolezza che speriamo duri, c’è sempre un Grillo che mantiene l’invito alle forze dell’ordine perché incrocino le braccia, augurandosi così che un’onda di piena travolga tutto e tutti.

Le analogie con altre situazioni esplosive che si sono verificate nel nostro paese, in passato, non provano nulla, se non la difficoltà di capire dove va davvero il movimento. Se però attendiamo dimostrazioni in buona forma prima di esprimere un senso di forte preoccupazione, rischiamo di ritrovarci come già altre volte, alla vigilia di una spirale crescente di disordini e violenze senza alcuna chiara idea di quel che potrà capitare, mentre si incupisce il clima sociale e la risposta politica tarda ad arrivare.

La CGIA di Mestre indica nelle difficoltà del mondo del lavoro autonomo e delle microimprese una delle ragioni più profonde delle proteste di questi giorni: «la crisi ha colpito in maniera più evidente – scrive – il mondo delle partite Iva rispetto a quello del lavoro dipendente». A questo mondo Berlusconi, incurante dei fallimenti dei suoi governi, prova nuovamente a lisciare il pelo; Grillo, invece, prova a rizzarlo. Le difficoltà di commercianti, piccoli imprenditori, artigiani, agricoltori, descrivono un restringimento progressivo dell’area dei ceti medi e un lento scivolamento di fasce sempre più estese della popolazione verso condizioni di marginalità sociale e fragilità economica allarmanti. Quelle persone sono oggi in piazza, del tutto legittimamente, e vi stanno insieme agli studenti, ai precari, ai lavoratori adulti che hanno perso il lavoro e non sanno come mantenere la famiglia. Ma vi stanno confusi in uno strano impasto che spinge a manifestare qualche centro sociale insieme agli estremisti di destra e agli ultras delle squadre di calcio, con obiettivi ancora indistinti, privi di una riconoscibile strategia politica e allettati dallo scontro per lo scontro.

Siamo, insomma, un passo prima che il movimento prenda una deriva anti-legalitaria e anti-costituzionale, per non dire apertamente filo-fascista. Quel passo non occorre affatto che venga compiuto, e una risposta democratica può e deve essere trovata. Quando nel ’21 Gramsci scrisse che Mussolini tentava di riorganizzare i ceti medi che resistevano contro la proletarizzazione, manteneva ancora fermo che tale esito fosse un «portato fatale del capitalismo». Quell’esito si realizzò effettivamente, ma non affatto come il portato di una fatalità. Non vi è nulla di fatale nel destino politico e sociale dell’Italia: non allora e non ora.

Ora, è vero e conviene ripeterlo: le analogie gettano più luce sull’analogante che sull’analogato.  Per fortuna, non sarà l’assalto alla libreria di Savona, o certe grida di «sporco comunista» che si sono ascoltate qua e là, a farci temere un nuovo fascismo. Ma una politica irresponsabile, che lavora alla delegittimazione delle istituzioni democratiche, che asseconda un clima di discredito generalizzato per nascondere le proprie colpe e le proprie responsabilità, o che prende di mira una volta l’euro e un’altra la casta come si fa con i capri espiatori, cioè distogliendo l’attenzione dalle vere ingiustizie sociali, quella sì: abbiamo qualche ragione di temerla. E l’impegno per il 2014 di Letta non può allora non consistere anzitutto nel respingerla con ogni fermezza.

 (L’Unità, 12 dicembre 2013)

La democrazia e il colpo di coda del populismo

ImageLa lettera aperta indirizzata da Beppe Grillo ai responsabili dell’ordine e della sicurezza del Paese, individuati nei massimi vertici della polizia, dei carabinieri e dell’esercito, è davvero inquietante. Grillo non si limita infatti a ripetere i suoi giudizi senza appello su una classe politica ai suoi occhi interamente screditata, anzi delegittimata, ma formula alle forze dell’ordine l’invito a non dare ad essa più alcuna protezione. Il movimento dei forconi deve prendere la Bastiglia del potere romano. E i difensori dell’ordine costituito devono unirsi ai rivoltosi. Gettare il casco, perché i politici gettino via la maschera. Mai come in queste circostanze le parole devono essere pesate con la massima attenzione: un conto è infatti invitare allo sciopero, che è diritto costituzionalmente garantito; un altro è prefigurare lo scenario di una «classe politica» bisognosa di protezione – indicata così: senza distinzioni di sorta, senza differenze di maggioranza e opposizione, di ruoli e responsabilità – e di un corpo dello Stato che si rifiuta di prestarla, negli auspici incendiari di Grillo, contravvenendo ai suoi doveri fondamentali. Siamo ben oltre la protesta, siamo alla disarticolazione degli apparati dello Stato.

Non è la prima volta che il leader dei Cinque Stelle usa parole troppo forti, e francamente irricevibili: non sarà neppure l’ultima. La sua strategia, peraltro, è chiara: rifiutare in blocco qualunque partecipazione al gioco politico e alla vita democratica del paese, e contrapporsi frontalmente alle istituzioni. Noi contro loro. «Loro», cioè il Palazzo, i partiti, le istituzioni, la casta, la maleodorante «classe politica» – e noi, cioè i cittadini, cioè il Paese reale, sfruttato e vessato, tartassato e maltrattato, di cui Beppe Grillo vuole essere il travolgente megafono. In questa contrapposizione lo spazio della mediazione rappresentativa, della dialettica parlamentare, è interamente consumato: che i parlamentari grillini combinino poco o nulla in Parlamento non dipende da insipienza politica, inesperienza o anche solo dal ruolo marginale che si sono ritagliati rispetto alla ordinaria attività legislativa: dipende piuttosto dall’inutilità del Parlamento, dalla sua mancanza di legittimità, dal suo puro e semplice esautoramento da parte dei cosiddetti «poteri reali», volta a volta denunciati come oscuri, corrotti o eversori. La denuncia è in realtà una più o meno involontaria solidarietà, perché non c’è nulla con cui il populismo vada meglio d’accordo della tecnocrazia: l’uno e l’altra lavorano al restringimento dei luoghi classici della rappresentanza democratica e ne minano la centralità.

Son cose che Grillo sa benissimo: per lui dal Parlamento, e dai partiti (che sono per definizione forze parlamentari), non si può cavare nulla di buono, nulla che possa «salvare» il Paese. Meglio spazzarli via tutti. Una simile retorica si salda dunque perfettamente con la piazza, col malessere sociale, con le manifestazioni di rabbia e di malcontento: non ci sarà una sola agitazione che non vedrà Grillo cavalcarla, anzi aizzarla. E non c’è dunque responsabilità più grande delle forze democratiche che respingere il gioco pericoloso di questa retorica.

Ma sarebbe chiudere gli occhi dinanzi al crescente disagio sociale non vedere di sotto al cappello che Grillo cerca di mettere sopra qualunque contestazione, spontanea o organizzata, i problemi reali del Paese: la diseguaglianza crescente, le nuove zone di marginalità ed esclusione, le difficoltà di un intero sistema produttivo. Grillo parla in un momento della vita del Paese in cui una nuova offerta politica tenta di prendere forma. Il suo intento è oscurarla, negarle qualunque pertinenza rispetto all’acutizzarsi dei problemi sociali. Dimostrarla è invece il compito della politica. Ma se i forconi gridano soltanto «tutti a casa, non ne possiamo più», l’assoluta genericità della protesta non è un limite che vada imputato solo a loro, ai capi improvvisati di un movimento ancora incerto sulla strada da prendere: le nuove leadership che si disegnano, a destra come a sinistra, devono anzi dimostrarsi all’altezza della situazione proprio dando forma e determinatezza a quei drammatici bisogni sociali. Devono gettare ponti, creare collegamenti con le istituzioni, inventare persino un nuovo linguaggio, perché quello vecchio, a Torino o a Cerignola, in piazza o in mezzo ai binari non lo parla più nessuno. Questo devono riuscire a fare. Altrimenti, l’unica dichiarazione che farà parlare il Paese sarà quella di Grillo. E non sarà per nulla distensiva.

(Il Mattino, 11 dicembre 2013)

Il vero scontro sul futuro di Letta, ma il Sud è il grande assente

ImagePiù a Sud di Pittella non c’era nessuno. Ma Gianni Pittella è fuori e oggi a contendersi il Pd saranno un fiorentino (Renzi), un triestino (Cuperlo) e un monzese (Civati). Il Mezzogiorno parte con l’handicap, e a giudicare dalla campagna congressuale che oggi si conclude non si può dire che sia al centro delle preoccupazioni degli aspiranti segretari. Come non lo era nella precedente disfida fra Bersani e Renzi. E questo, prima ancora di essere un giudizio sul partito democratico, è un giudizio senza appello sulla sua classe dirigente meridionale.

Il primo, gran favorito della vigilia, è Matteo Renzi, che come Pippo Civati è quasi arrivato alla soglia dei quarant’anni. Gianni Cuperlo è invece del ’61 e di anni ne ha cinquantadue: comunque vada, il Pd compirà un salto generazionale, anche se non necessariamente anagrafico. Tutti e tre i candidati appartengono infatti alla generazione successiva a quella dei «compagni di scuola» orfani di Enrico Berlinguer, anche se Cuperlo è l’ultimo che mantiene un legame riconoscibile con quella tradizione. Si capisce dunque che abbia concluso i suoi ultimi comizi affermando che è in questione l’identità stessa della sinistra; Renzi non sembra proporsi con particolare angoscia il problema, anche se, come gli altri due, è disponibile a completare il percorso del Pd dentro il socialismo europeo. Ma lo fa, a quanto pare, dando alla scelta un significato di schieramento, senza caricarla di un valore storico-politico. Quanto a Civati, il suo profilo sembra ritagliato non tanto sulla sinistra quanto su «ciò che si muove a sinistra». Così si diceva una volta, per intendere un’area di opinione sensibile ai diritti civili e sociali, che aveva però qualche fatica a stare dentro il corpaccione di un partito.

Ma oggi i corpaccioni non ci sono più: i partiti sono sempre più smilzi, sempre più identificati con figure di amministratori, sempre meno autorevoli. Il prossimo segretario del Pd avrà innanzitutto il problema di far crescere un partito appena nato ma già in affanno: segno che non tutto, alla nascita, è andato per il verso giusto. La ricetta di Renzi è l’abolizione pura e semplice del finanziamento pubblico ai partiti, che Civati propone invece di sostituire con un meccanismo su base volontaria, tipo il 5 per mille, mentre Cuperlo vuole rivederlo ma mantenerlo. Su molti temi la retorica di una campagna elettorale non aiuta a distinguere le rispettive posizioni, ma su questo punto la differenza è chiara: per Cuperlo, conformemente a una tradizione storica, l’attività politica è un bene essenziale che è interesse dello Stato sostenere, come la salute o l’istruzione; per Civati, questo sostegno pubblico ci deve essere ma mediato dall’adesione volontaria dei cittadini; per Renzi, non c’è un interesse dello Stato, ma la partita del finanziamento della politica è interamente rimessa agli attori privati.

Vengono fuori tre partiti democratici abbastanza diversi. Ed è una differenza marcata anche sotto il profilo delle possibili riforme istituzionali, tormentone senza fine riproposto ad ogni nuova tornata elettorale. Il Pd di Renzi è una forza tendenzialmente presidenzialista o semipresidenzialista; il Pd di Cuperlo è una forza tendenzialmente neo-parlamentare; il Pd di Civati è sulla linea che a metter mano alla Costituzione c’è il rischio di manometterla punto e basta. A riprova che non sempre il vecchio e il nuovo stanno dove si crede che stiano.

Ma il tasso di novità non viene misurato sul terreno programmatico, dove del resto i pareri sono assai discordi: Cuperlo imputa a Renzi di difendere «nuove vie» di stampo blairiano, che in realtà risalgono agli anni Novanta e che la crisi ha condannato; Renzi imputa a Cuperlo di difendere il solito vecchio blocco dei sindacati e del pubblico impiego che con la crisi diventa una zavorra; Civati imputa a tutti e due di non fare sul serio, né in difesa né – probabilmente – all’attacco.

Ma il vecchio e il nuovo sono per l’opinione pubblica anzitutto le facce che circolano di qua o di là. Orbene, se si guarda agli endorsement più illustri, abbiamo il seguente scenario: Cuperlo ha l’appoggio di D’Alema e Bersani, non volendone o non potendone fare a meno; Renzi non si è fatto mancare quello di Franceschini e Fassino, che di primo pelo non sono, pur potendone forse fare a meno. Poi, per un fioroniano che sta di là, con Cuperlo, c’è almeno un veltroniano che sta di qua, con Renzi. Con Cuperlo stanno i giovani turchi, Andrea Orlando e Matteo Orfini; con Renzi vanno prodiani in ordine sparso (non si sa se Prodi medesimo, che però, novello Amleto, ha deciso di votare). Civati, quanto a lui, può vantare sicuramente una molto maggiore discontinuità: con lui si schierano gli outsider, tipo Laura Puppato e, nelle ultime ore, Stefano Rodotà, cioè la bandiera di quelli che nel Pd manco ci stanno, e comunque non hanno mandato giù nulla di ciò che il Pd ha fatto dal giorno dopo il voto: non Napolitano presidente, non il governo Letta, non le larghe intese.

Il vero terreno di scontro è, di fatto, quest’ultimo: l’accordo di governo. Non a caso il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha lasciato liberi i suoi: per non perdere il congresso andando subito allo scontro con Renzi. Dei tre, Civati è il più duro nel giudizio, ma Renzi è di gran lunga il più pericoloso. E siccome la prima volta fare il segretario del Pd (Veltroni) significò far cadere il governo (Prodi), la preoccupazione serpeggia. Di differenze rispetto al 2008, però, ce n’è. La più grossa ed importante è l’appoggio convinto del presidente Napolitano all’azione dell’attuale governo. Quanto alla legge elettorale, nessuno mai si spingerà a dire che dopo la decisione della Consulta si può votare anche subito, ma c’è chi lo pensa. Il fatto è che se con il «proporzionellum» ormai in vigore entra in Parlamento chiunque superi il 2%, con relativi rischi di governabilità, è difficile immaginare una cosa diversa dalle larghe intese, con qualunque altra legge, finché un terzo dei voti va ad una forza antisistema come il movimento Cinque Stelle.

Forse, allora, la scelta vera che il Pd ha dinanzi è la seguente: puntare sul segretario che meglio può riuscire a riassorbire il voto uscito in direzione di Grillo, inseguendone i temi, o puntare sul segretario che meglio può fare argine contro il populismo, cercando accordi in Parlamento. Ai posteri, anzi a domani, l’ardua sentenza.

(Il Mattino, 8 dicembre 2013)

Perché Grillo non ama i giornalisti

ImageLe pecore nere. I giornalisti che denigrano i grillini. Che diffamano pubblicamente il movimento, a giudizio insindacabile del movimento medesimo. Beppe Grillo ci scrive un post, e la gogna è servita. La prima ad essere messa al bando è Maria Novella Oppo, dell’Unità. Un giornalista al giorno: se Grillo tiene il ritmo, domeniche comprese, in un anno addita al pubblico ludibrio la bellezza di trecentosessantacinque giornalisti. A me piacerebbe, se posso permettermi, che capitasse in marzo, con la primavera; ma lo so: decide la Rete. Se però volesse fare le cose a puntino, e metterci tutta la foga che lo contraddistingue, Grillo potrebbe magari aggiungere alla fatwa qualche particolare derisorio in più. Ridicolizzare il curriculum professionale, ad esempio, oppure trovare un difetto fisico o almeno una storpiatura grammaticale: a chi non capita, prima o poi?

Ma dopo che Grillo avrà compilato la sua lista nera, bisognerà chiedergli perlomeno se da qualche parte, nel variegato mondo dell’informazione, si trovi a parer suo almeno un giornalista – uno col patentino, dico, uno iscritto all’ordine, uno con qualche anno di attività alle spalle – che non si debba vergognare di esistere, o almeno di scrivere sui giornali. E vedrete: non lo troverà. perché è l’idea stessa che ci sia qualcuno che interpreti le tue parole, che le presenti accompagnandole con il proprio libero giudizio, che a Grillo proprio non va giù. È la figura stessa del giornalista che viene in questione, per lui, grazie al prodigio della Rete, nel santuario della democrazia diretta, di cui Grillo è e deve essere l’unico officiante.

Cosa volete allora che significhino per lui gli appelli alla libertà dell’informazione, al pluralismo delle opinioni, ai diritti fondamentali riconosciuti in Costituzione, quando è la professione stessa del giornalista che è revocata in dubbio? Uno fa la domanda, tu rispondi: non è evidente che la domanda è di troppo? Uno parla, quell’altro riporta e commenta: non è evidente, di nuovo, che il commento può solo distorcere, inquinare, presentare in una falsa luce? Grillo, quanto a lui, non rilascia dichiarazioni, non parla affatto. Piuttosto, lui detta. Il blog è il suo «dettato». E al dettato ci si attiene punto e basta. Ne sanno qualcosa i parlamentari grillini.

Poi Grillo se la prende con il finanziamento pubblico all’editoria. Unico giudice ha da essere il mercato. Il fatto che quello delle opinioni possa non essere soltanto un mercato è pensiero che neppure lo sfiora. Uno si immagina che sia perlomeno materia di discussione, questa: se vi possa essere un interesse generale a che siano molteplici le voci che si esprimono nello spazio pubblico, e se questo interesse possa essere sostenuto da un’azione dello Stato. Forse sì, forse no, forse in altro modo da come si fa, forse cercando di colpire gli abusi. Ma queste sono sfumature che sul blog di Grillo non troverete mai. Andateci: cercatevi un’opinione men che netta, un parere men che categorico, cercatevi l’espressione di un dubbio, di un ripensamento, di qualcosa di meno di una certezza: non lo troverete.

Grillo infatti è certo: se l’Unità chiudesse, se quel parassita di Maria Novella Oppo smettesse di scrivere, se rimanesse a spasso e senza stipendio sarebbe un gran bel giorno per il Paese come lui lo immagina.

E ancor più bello sarebbe se la cosa avvenisse senza commenti sui giornali, e solidarietà di categoria. Anche questo commento è infatti di troppo, essendosi permesso di interpretare il post di Grillo. Avrei dovuto ricopiarlo integralmente, eseguendo il dettato. Ma la cosa non va affatto così: c’è anzi sempre più bisogno di dire quel che le parole significano, invece di limitarsi a riportarle. Non ci vuol molto: significano illibertà.

(Il Mattino, 7 dicembre 2013)

Le parole giuste che aiutano a superare la crisi

ImageLe parole non sono le cose, ma siccome alle cose andiamo attraverso le parole, forse non è inutile chiedersi a quali parole affidiamo la rappresentazione del Mezzogiorno. Quando si ragiona intorno al modo in cui oggi è racconta la questione meridionale, o quel che resta di essa nel discorso pubblico, viene subito il sospetto che si voglia spostare l’attenzione dalle cose alle parole, distoglierla cioè dai problemi drammatici del Sud per prendersela invece con le rappresentazioni stereotipate della realtà meridionale, come se la prima urgenza non fosse la disoccupazione, o la mancanza di lavoro in specie fra i giovani e le donne, o il degrado del territorio, o la criminalità, o ancora il restringimento degli spazi democratici di cittadinanza alla mercé di clientelismi, notabilati, corruzioni piccole e grandi. Come se invece di tutto questo ce la si dovesse prendere piuttosto con la cattiva stampa di cui soffre il Mezzogiorno, o con gli stereotipi sulla società meridionale, o con i luoghi comuni imperanti sui limiti culturali, sui ritardi storici, forse perfino sui difetti antropologici.

Nulla di tutto questo. Nessuna riproposizione di polemiche persino stantìe, che non aiutano a risolvere i problemi né, peraltro, a raccontarli diversamente. Nessun invito a lavare i panni sporchi in famiglia e nessuna sottovalutazione delle condizioni reali in cui versa larga parte del Mezzogiorno. Le diseguaglianza sociali si intrecciano ancora, nel nostro paese, con le diseguaglianze territoriali, e i limiti di una classe dirigente meridionale vecchia, per nulla autorevole, rinunciataria o sterilmente protestataria, piegata sul particolare e priva di un’idea originale e coraggiosa di sviluppo sono troppo evidenti perché li si possa anche solo provare a nascondere o a sottovalutare. Non è per caso che l’assenza di progettualità concreta e di attori politici e sociali credibili si traduce ormai da parecchi anni nella prevalenza, presso  l’opinione pubblica meridionale, di un sentimento di insofferenza e insieme di profonda disaffezione, che si manifesta una volta nell’esigenza velleitaria di «scassare», la volta successiva nel cinismo di chi pensa che tanto nulla può cambiare.

Ma detto tutto ciò, non assolte le colpe di nessuno, come dare voce al Sud che invece, vuole cambiare? E come liberarsi di una colpevolizzazione che trascina in una condanna indiscriminata e senza appello un terzo del Paese? Come evitare la retorica leghista o para-leghista che trasforma la questione meridionale in una questione «dei meridionali», quando non addirittura in una mera questione criminale, e pretende così di lavarsene le mani? Come provare a porre di nuovo al centro del dibattito pubblico e dell’azione pubblica, il problema del divario fra Nord e Sud? Come sostenere quei pezzi della realtà del Mezzogiorno, nel pubblico e nel privato, che costituiscono un tessuto ancora sano, e un serbatoio di energie e di idee a cui attingere?

Queste domande vanno poste. E per porle – anzi per imporle all’attenzione del Paese, evitando che vengano derubricate a questioni locali, e parziali, che non riguardano la collettività nazionale, ma solo il Sud e i suoi limiti cronici – ci vogliono, per farlo, le parole giuste. Un lessico nuovo. Ci vuole onestà intellettuale per non nascondersi dietro il dito della retorica, ma anche coraggio politico, per denunciare la trazione nordista della seconda Repubblica.

È così: il Sud è in cerca di una nuova rappresentazione, e di una nuova rappresentanza. Ha bisogno di immaginare una inedita «terapia dell’industria», di nuove «politiche della città», di una diversa «iniziativa europeistica», di interventi «straordinari». Così si parlava negli anni Cinquanta e Sessanta, gli anni dell’ultima importante stagione meridionalistica. Ma come si può accendere un forte dibattito pubblico intorno a questi nodi, iniziare una nuova stagione, se tutto viene affogato nell’indistinta condanna dell’arretratezza e del degrado morale? Le cose, infatti, non sono le parole, ma anche le parole aiutano a fare le cose, o a trovare perlomeno le ragioni per farle. Chi dispone delle parole, decide anche delle ragioni e dei torti. E il Sud non può rimanere ancora a lungo, senza parole e dalla parte del torto, solo perché tutti gli altri posti sono stati occupati. 

(Il Mattino, 6 dicembre 2013)

Sottosegretario, si accomodi

ImageL’indimenticato Adriano De Zan, protagonista di mille cronache sulle strade del giro d’Italia,  al traguardo non dimenticava quasi mai di sottolineare, delle epiche imprese dei ciclisti, oltre al «fatto tecnico», il «fatto umano». Una distinzione importante: oltre i chilometri, i minuti di distacco e le condizioni meteo, sul sellino stava un uomo, e De Zan lo intervistava con rispetto.

Su ben altre sedie sono accomodati i sottosegretari del governo Letta che, dopo la rottura di Berlusconi, hanno seguito il Cavaliere all’opposizione. E tuttavia restano ben seduti al governo. La formula: «partito di lotta e di governo» richiede dunque un aggiornamento che includa anche il caso di questi valentuomini, disponibili con grande senso di abnegazione e sacrificio personale a lavorare su provvedimenti e misure che il loro neonato e rinato partito, Forza Italia, cercherà implacabilmente di bocciare. Nel loro caso, il brocardo «nemo contra se edere tenetur» non è affatto calzante: questi sottosegretari sono ben capaci di accusare se stessi, e anzi sono tenuti a farlo, come uomini d’opposizione, chiamati a mettere sotto accusa i loro stessi atti di governo. Con una mano firmano, con l’altra implacabilmente contestano. Penelope, quella che filava la tela di giorno per sfilarla di notte, era una principiante, a confronto.

Si capisce allora perché, ben oltre il fatto tecnico, è il fatto umano che interessi il cronista. Che infatti in Italia, in quella scuola di uomini nuovi che deve essere stata in tutti questi anni la casa della libertà o il popolo delle libertà o il polo del buon governo (addirittura!), una roba simile sia giuridicamente e politicamente possibile, si stenta a crederlo, e però ce ne si fa una ragione. Ma umanamente possibile?

Qui è veramente difficile farsene una ragione, anche perché gli interessati non ne forniscono alcuna. Preferiscono tacere, non rispondere, svicolare. I giornalisti chiamano, e loro non rispondono. I giornalisti richiamano, e loro tergiversano, nicchiano, e di nuovo non rispondono. Quando si dice metterci la faccia.

Ieri sera, con accenti diversi, i candidati alle primarie del partito democratico hanno meritoriamente parlato più volte di costi della politica, finanziamento della politica, riforma della politica. Temo che il caso dei sottosegretari di Forza Italia non sarebbe risolto in nessun caso. Se non capiscono da soli che è inammissibile rimanere contemporaneamente al governo come sottosegretari e all’opposizione come esponenti di Forza Italia, non c’è legge che possa farglielo capire. E, a volte, tutto il gran parlare che si fa di rinnovamento della politica, di recupero di credibilità e di autorevolezza si incaglia miseramente dinanzi a un ceto dirigente a dir poco inadeguato, selezionato con criteri che con la cultura e la dignità della politica francamente non hanno nulla a che fare. Siamo di sicuro oltre il fatto tecnico, ma anche il fatto umano è francamente incomprensibile.

E dunque: il fatto umano di De Zan non si capisce, il brocardo latino non si applica, la formula della lotta e del governo è antiquata e il mito di Penelope è poca roba. Ci vuole ben altro, ci vuole la mostruosa, smisurata sentenza di Goethe: «nihil contra Deum nisi Deus ipse». Se al posto di Dio prestate al poeta tedesco un sottosegretario teologicamente inamovibile di Forza Italia, vedrete che la frase funziona. (Se poi funziona il governo con simili figure, questo è un altro, più arduo problema, che speriamo però Letta possa presto risolvere).

(L’Unità, 1 dicembre 2013)