Archivi del giorno: dicembre 7, 2013

Perché Grillo non ama i giornalisti

ImageLe pecore nere. I giornalisti che denigrano i grillini. Che diffamano pubblicamente il movimento, a giudizio insindacabile del movimento medesimo. Beppe Grillo ci scrive un post, e la gogna è servita. La prima ad essere messa al bando è Maria Novella Oppo, dell’Unità. Un giornalista al giorno: se Grillo tiene il ritmo, domeniche comprese, in un anno addita al pubblico ludibrio la bellezza di trecentosessantacinque giornalisti. A me piacerebbe, se posso permettermi, che capitasse in marzo, con la primavera; ma lo so: decide la Rete. Se però volesse fare le cose a puntino, e metterci tutta la foga che lo contraddistingue, Grillo potrebbe magari aggiungere alla fatwa qualche particolare derisorio in più. Ridicolizzare il curriculum professionale, ad esempio, oppure trovare un difetto fisico o almeno una storpiatura grammaticale: a chi non capita, prima o poi?

Ma dopo che Grillo avrà compilato la sua lista nera, bisognerà chiedergli perlomeno se da qualche parte, nel variegato mondo dell’informazione, si trovi a parer suo almeno un giornalista – uno col patentino, dico, uno iscritto all’ordine, uno con qualche anno di attività alle spalle – che non si debba vergognare di esistere, o almeno di scrivere sui giornali. E vedrete: non lo troverà. perché è l’idea stessa che ci sia qualcuno che interpreti le tue parole, che le presenti accompagnandole con il proprio libero giudizio, che a Grillo proprio non va giù. È la figura stessa del giornalista che viene in questione, per lui, grazie al prodigio della Rete, nel santuario della democrazia diretta, di cui Grillo è e deve essere l’unico officiante.

Cosa volete allora che significhino per lui gli appelli alla libertà dell’informazione, al pluralismo delle opinioni, ai diritti fondamentali riconosciuti in Costituzione, quando è la professione stessa del giornalista che è revocata in dubbio? Uno fa la domanda, tu rispondi: non è evidente che la domanda è di troppo? Uno parla, quell’altro riporta e commenta: non è evidente, di nuovo, che il commento può solo distorcere, inquinare, presentare in una falsa luce? Grillo, quanto a lui, non rilascia dichiarazioni, non parla affatto. Piuttosto, lui detta. Il blog è il suo «dettato». E al dettato ci si attiene punto e basta. Ne sanno qualcosa i parlamentari grillini.

Poi Grillo se la prende con il finanziamento pubblico all’editoria. Unico giudice ha da essere il mercato. Il fatto che quello delle opinioni possa non essere soltanto un mercato è pensiero che neppure lo sfiora. Uno si immagina che sia perlomeno materia di discussione, questa: se vi possa essere un interesse generale a che siano molteplici le voci che si esprimono nello spazio pubblico, e se questo interesse possa essere sostenuto da un’azione dello Stato. Forse sì, forse no, forse in altro modo da come si fa, forse cercando di colpire gli abusi. Ma queste sono sfumature che sul blog di Grillo non troverete mai. Andateci: cercatevi un’opinione men che netta, un parere men che categorico, cercatevi l’espressione di un dubbio, di un ripensamento, di qualcosa di meno di una certezza: non lo troverete.

Grillo infatti è certo: se l’Unità chiudesse, se quel parassita di Maria Novella Oppo smettesse di scrivere, se rimanesse a spasso e senza stipendio sarebbe un gran bel giorno per il Paese come lui lo immagina.

E ancor più bello sarebbe se la cosa avvenisse senza commenti sui giornali, e solidarietà di categoria. Anche questo commento è infatti di troppo, essendosi permesso di interpretare il post di Grillo. Avrei dovuto ricopiarlo integralmente, eseguendo il dettato. Ma la cosa non va affatto così: c’è anzi sempre più bisogno di dire quel che le parole significano, invece di limitarsi a riportarle. Non ci vuol molto: significano illibertà.

(Il Mattino, 7 dicembre 2013)

Le parole giuste che aiutano a superare la crisi

ImageLe parole non sono le cose, ma siccome alle cose andiamo attraverso le parole, forse non è inutile chiedersi a quali parole affidiamo la rappresentazione del Mezzogiorno. Quando si ragiona intorno al modo in cui oggi è racconta la questione meridionale, o quel che resta di essa nel discorso pubblico, viene subito il sospetto che si voglia spostare l’attenzione dalle cose alle parole, distoglierla cioè dai problemi drammatici del Sud per prendersela invece con le rappresentazioni stereotipate della realtà meridionale, come se la prima urgenza non fosse la disoccupazione, o la mancanza di lavoro in specie fra i giovani e le donne, o il degrado del territorio, o la criminalità, o ancora il restringimento degli spazi democratici di cittadinanza alla mercé di clientelismi, notabilati, corruzioni piccole e grandi. Come se invece di tutto questo ce la si dovesse prendere piuttosto con la cattiva stampa di cui soffre il Mezzogiorno, o con gli stereotipi sulla società meridionale, o con i luoghi comuni imperanti sui limiti culturali, sui ritardi storici, forse perfino sui difetti antropologici.

Nulla di tutto questo. Nessuna riproposizione di polemiche persino stantìe, che non aiutano a risolvere i problemi né, peraltro, a raccontarli diversamente. Nessun invito a lavare i panni sporchi in famiglia e nessuna sottovalutazione delle condizioni reali in cui versa larga parte del Mezzogiorno. Le diseguaglianza sociali si intrecciano ancora, nel nostro paese, con le diseguaglianze territoriali, e i limiti di una classe dirigente meridionale vecchia, per nulla autorevole, rinunciataria o sterilmente protestataria, piegata sul particolare e priva di un’idea originale e coraggiosa di sviluppo sono troppo evidenti perché li si possa anche solo provare a nascondere o a sottovalutare. Non è per caso che l’assenza di progettualità concreta e di attori politici e sociali credibili si traduce ormai da parecchi anni nella prevalenza, presso  l’opinione pubblica meridionale, di un sentimento di insofferenza e insieme di profonda disaffezione, che si manifesta una volta nell’esigenza velleitaria di «scassare», la volta successiva nel cinismo di chi pensa che tanto nulla può cambiare.

Ma detto tutto ciò, non assolte le colpe di nessuno, come dare voce al Sud che invece, vuole cambiare? E come liberarsi di una colpevolizzazione che trascina in una condanna indiscriminata e senza appello un terzo del Paese? Come evitare la retorica leghista o para-leghista che trasforma la questione meridionale in una questione «dei meridionali», quando non addirittura in una mera questione criminale, e pretende così di lavarsene le mani? Come provare a porre di nuovo al centro del dibattito pubblico e dell’azione pubblica, il problema del divario fra Nord e Sud? Come sostenere quei pezzi della realtà del Mezzogiorno, nel pubblico e nel privato, che costituiscono un tessuto ancora sano, e un serbatoio di energie e di idee a cui attingere?

Queste domande vanno poste. E per porle – anzi per imporle all’attenzione del Paese, evitando che vengano derubricate a questioni locali, e parziali, che non riguardano la collettività nazionale, ma solo il Sud e i suoi limiti cronici – ci vogliono, per farlo, le parole giuste. Un lessico nuovo. Ci vuole onestà intellettuale per non nascondersi dietro il dito della retorica, ma anche coraggio politico, per denunciare la trazione nordista della seconda Repubblica.

È così: il Sud è in cerca di una nuova rappresentazione, e di una nuova rappresentanza. Ha bisogno di immaginare una inedita «terapia dell’industria», di nuove «politiche della città», di una diversa «iniziativa europeistica», di interventi «straordinari». Così si parlava negli anni Cinquanta e Sessanta, gli anni dell’ultima importante stagione meridionalistica. Ma come si può accendere un forte dibattito pubblico intorno a questi nodi, iniziare una nuova stagione, se tutto viene affogato nell’indistinta condanna dell’arretratezza e del degrado morale? Le cose, infatti, non sono le parole, ma anche le parole aiutano a fare le cose, o a trovare perlomeno le ragioni per farle. Chi dispone delle parole, decide anche delle ragioni e dei torti. E il Sud non può rimanere ancora a lungo, senza parole e dalla parte del torto, solo perché tutti gli altri posti sono stati occupati. 

(Il Mattino, 6 dicembre 2013)