Dove comincia la ribellione? Forse in piazza, dove domani un crogiuolo di sigle che includono studenti, centri sociali, disoccupati organizzati, elementi che appartengono all’area della sinistra radicale e antagonista ha indetto a Napoli una manifestazione: non è chiaro ancora se intendano saldarsi con il movimento dei forconi che già da giorni appesantisce il clima del Paese, o se invece vogliano prendere la scena, cercando di dare alla protesta un colore preciso. Ci sarà poi, per i forconi, la prova del fuoco a Roma, a Piazza del Popolo, presumibilmente in settimana. Le agitazioni di questi giorni raccolgono e convogliano malesseri diffusi, e il loro significato politico resta ancora indeciso.
Oppure la ribellione comincia a Milano, dove Matteo Renzi ha esordito all’Assemblea che ieri lo ha incoronato segretario del Pd insistendo soprattutto su una parola: ribelle? Voglio un Pd ribelle, ha detto, salvo aggiungere poi, con qualche prudenza in più, che, però, uno il suo ribelle di riferimento se lo può scegliere come crede: non è mica detto che debba essere per forza un ribelle arrabbiato e furente; può trattarsi anche di un saggio ribelle «riformista». Ci vuole comunque qualcuno che arrivi in un posto e non vi si adegui, ma che quel posto provi a cambiarlo. Lui c’è arrivato: vedremo.
In piazza un qualche spirito di ribellione di certo serpeggia, e di riformista ha molto poco. Proprio l’idea che il cambiamento necessario possa prendere la via graduale di riforme (le quali, per quanto incisive, chiedono tempo per dispiegare i loro effetti) è tra gli obiettivi di coloro i quali manifestano perché non possono più aspettare. La discussione sulla ricetta riformista che Renzi offre al Paese non interessa quelli che vanno in strada: figuriamoci se si appassionano al tempo di un anno o poco più che per il momento Renzi sembra intenzionato a concedere a Enrico Letta «per fare le cose».
Il partito democratico costituisce dunque, al momento, non un interlocutore, ma un nemico. Qualcosa contro cui andare, non certo qualcosa da affiancare. Il Pd ha, in effetti, tutti gli occhi puntati addosso: esprime il Presidente del Consiglio e la più parte della maggioranza parlamentare che sorregge il governo; si autorappresenta come il partito dell’Italia, che ha il senso dell’unità nazionale e la volontà di difenderne le istituzioni. Ora ha anche un nuovo segretario che porta su di sé la responsabilità di una proposta politica nuova, e vuol dimostrare di avvertire l’urgenza sociale del Paese, non solo economica, fin dai suoi primi passi: a cominciare dalla sveglia alle sette di mattina per le riunioni di segreteria. Basterà? Di sicuro, il Pd è sotto pressione: lo attestano gli assalti alle sue sedi dei giorni scorsi. Un pessimo segnale, e di certo non il miglior viatico per Matteo Renzi. Che il sindaco di Firenze sia in grado di abbassare quella pressione, producendo politica, è ancora tutto da vedere. Ma colpisce questa coincidenza fra i cambiamenti, che bene o male il sistema dei partiti sta conoscendo, a destra come a sinistra, e il ribollire della piazza, i toni populisti di rigetto indistinto di qualunque interlocuzione col Palazzo. Si nega la possibilità di aprire un tempo nuovo per le vie ordinarie, riaccreditando cioè la prassi parlamentare e la mediazione dei partiti, forse per cercare di imprimere al Paese una sterzata straordinaria, con chissà quali mezzi.
Ieri Renzi ha messo su la canzone dei Negrita: «resta ribelle/ non ti buttare via». Fa specie che il mito giovanile della ribellione possa proporsi anche sul palco di un partito fasciato dei colori della bandiera nazionale da parte di un segretario che, per quanto giovane, non rinuncia alla cravatta delle grandi occasioni. Renzi però parla indubbiamente un altro linguaggio, sceglie bene i suoi esempi tra le cose nuove che fanno il nostro tempo, lascia perdere i polverosi cognomi e punta diritto ai nomi di persona, che sono più freschi. La sua strategia di conquista di un nuovo consenso fra fasce di popolazione deluse, stanche, segnate dalla crisi è dunque lanciata. Nei modi, nelle forme: vedremo di qui in avanti nei contenuti. Ma l’antagonismo sociale, anche quello tenta di rialzare la testa e pare voler lanciare con forza il suo guanto di sfida.
(Il Mattino, 16 dicembre 2013)