Percorriamo pure, di volata, gli eventi che hanno segnato un’annata politica vissuta pericolosamente, ma provvediamoli prima della giusta, severa cornice. Nel discorso tenuto lo scorso 31 dicembre dal palazzo del Quirinale, il Presidente Napolitano parlò non più di disagio sociale, ma di una vera e propria «questione sociale, da porre al centro dell’attenzione e dell’azione pubblica», e però indicò anche i limiti entro i quali quell’attenzione poteva essere svolta: da un lato, il famigerato spread; dall’altro, la mole degli interessi sul debito pubblico. Ebbene, nella tradizionale conferenza stampa di fine anno il Presidente del Consiglio Enrico Letta ha detto che con «la guadagnata stabilità» la cifra degli interessi che lo Stato italiano deve corrispondere per servire il debito è calata, in corso d’anno, di 5 miliardi. Scendere dalle montagne russe su cui la politica italiana è salita dopo le elezioni di febbraio ci avrebbe cioè regalato 5 miliardi di euro. «Regalato» si fa per dire: già Napolitano ricordava che le «scelte di governo dettate dalla necessità di ridurre il nostro massiccio debito pubblico obbligano i cittadini a sacrifici e inevitabilmente contribuiscono a provocare recessione». In più, a seguire l’iter faticoso della legge di stabilità, si capisce che una difficile scommessa è in corso: se lo spread non continuerà a andar giù, e il PIL non prenderà a crescere nei prossimi anni con percentuali intorno al 2%, quei 5 miliardi non saranno serviti a gran che. E, purtroppo, mercati finanziari, contesto internazionale e previsioni di Bankitalia sono meno favorevoli di quanto, allo stato, ipotizzato dal governo.
Ma torniamo indietro, e saliamo sulle montagne russe. Febbraio: il Pd di Bersani, che aveva sconfitto alle primarie Matteo Renzi, «non vince» le elezioni, e il Parlamento si spacca in tre. La mancata vittoria del partito democratico, che perde circa tre milioni di voti, trasforma in una «sconfitta mancata» l’enorme tracollo del centrodestra, che di voti ne perde quasi il doppio, mentre irrompono in Parlamento i grillini, che raccolgono la bellezza di circa otto milioni e mezzo di voti e divengono, dal nulla, il primo partito italiano. Ci arrivano, i grillini, con la promessa di aprire Palazzo Montecitorio come una scatola di tonno, ma poi ci finiscono dentro un po’ disorientati e senza apriscatole. Così Grillo riprenderà subito ad alzare la voce contro tutto e tutti. Non per caso, l’anno si chiude, per lui, con la preannunciata richiesta di impeachment contro il Presidente della Repubblica: una roba che nel nostro ordinamento costituzionale non c’è, ma questo per il comico genovese è un dettaglio poco significativo.
Dopo febbraio, il problema è fare il governo. Il porcellum – questo squisito dono di Calderoli col quale si sono eletti ormai tre Parlamenti, uno più infelice dell’altro, e di cui non riusciamo ancora a sbarazzarci – porta al Pd la maggioranza alla Camera, ma non al Senato. Bersani prova allora a fare un «governo di cambiamento» su pochi punti programmatici, ma i grillini, quelli guidati da Vito Crimi e Roberta Lombardi (li ricordate? Io no), loro non se ne danno per inteso, e poiché in campagna elettorale il Pd aveva detto mai con Berlusconi, l’unica per Bersani è passare la mano.
Ma prima c’è di mezzo il Quirinale. Il settennato di Napolitano è finito: l’elezione del Presidente della Repubblica si incrocia con la formazione del governo. Bersani non riesce a portare sul più alto Colle né il suo primo candidato, Franco Marini, né il secondo, Romano Prodi. Marini è respinto esplicitamente da un numero assai consistente di parlamentari del Pd; Prodi, invece, viene bocciato di nascosto, nel segreto dell’urna, da 101 parlamentari rimasti anonimi. Il primo non ce la fa perché il suo nome è frutto di una convergenza col Pdl che evidentemente in molti non sono pronti a digerire (benché la Costituzione, richiedendo alle prime votazioni un quorum più elevato, di fatto la solleciti); il secondo, forse, non ce la fa non per altro, ma perché già il primo non ce l’ha fatta. Nuovi risentimenti si uniscono cioè a vecchie tossine e producono il patatrac. L’altro nome, messo in circolo dai grillini, cioè Stefano Rodotà, è troppo lontano dal quadro politico che giocoforza si va componendo; il risultato finale è che, dietro supplica di tutto il Parlamento (salvo i Cinque Stelle), al Quirinale torna, prima volta nella storia della Repubblica, Giorgio Napolitano, cioè proprio il più robusto architrave delle larghe intese le cui premesse aveva lui stesso già posto con Monti, nella precedente legislatura. E a presiedere il governo andrà il vice di Bersani, Enrico Letta, cioè il più entusiasta sostenitore di Monti nel Pd, Letta che al Professore aveva persino mandato un biglietto augurale, gridando addirittura al miracolo. Ironia della sorte, oggi è proprio Scelta Civica, la formazione per metà disastrata di Monti, a guardare con più scetticismo le future prospettive del governo.
Intanto però le larghe intese si sono alquanto ristrette: dopo la condanna in via definitiva di Silvio Berlusconi, piovuta in un caldo pomeriggio d’estate, a fine luglio, e dopo ben cinque mesi di estenuante battaglia parlamentare intorno all’iter della decadenza, il Pdl è morto. È morto proprio, e non rinascerà più. In compenso, dalle sue ceneri è rinata, all’opposizione, Forza Italia, con a capo il sempiterno Berlusconi. Che è passato nel giro di un mese dal sul ultimo discorso al Senato di fiducia a Letta a un furibondo voto contrario: l’uomo è capace di queste svolte repentine. Ora il Cavaliere ha ripreso ad alzare i toni, a gridare al colpo di Stato (anzi: a ripetuti colpi di Stato) e a competere col populismo di Grillo, mentre in maggioranza è rimasta la pattuglia del Nuovo Centrodestra, a guida Alfano, dalle incerte basi elettorali e dunque dalla ostinata volontà di proseguire nell’azione di governo il più a lungo possibile, fino all’Europee e oltre. Osservata in termini statici, la competizione politica somiglia ormai sempre di più a un confronto fra le forze che si richiamano all’europeismo, e i populismi che incalzano dall’esterno. Per fare però dell’Europa un nuovo, espansivo arco costituzionale e non solo una fortezza difensiva degli attuali assetti proprietari e finanziari che governano il continente ci vorrebbe qualcosa di più che non appelli alla responsabilità, al rigore e al sacrificio. La rappresentazione dinamica, intanto, ci dice anche dell’altro: perché in cima al Pd sta ora lo scalpitante sindaco di Firenze, Matteo Renzi, non si sa quanto convinto della bontà dell’accordo di governo, che di sicuro non ne può però accettare un’interpretazione freddamente tecnocratica. E d’altra parte per recuperare voti e consenso, Renzi non ha ancora sterzato davvero sul versante delle politiche economiche e sociali, ma solo su quello dei costi della politica. Che si sono sicuramente imposti come il tema principale del dibattito pubblico per tutto l’anno, anche se il poco o molto che si è fatto (o si può ancora fare) difficilmente cambierà in meglio la vita degli italiani.
Se si guarda infatti il film delle primarie – una versione non adatta alle sale, vista la lunghezza, e visto pure lo statuto difficilmente decifrabile del Pd – si vede con chiarezza che la vittoria di Renzi si è decisa su questo solo fronte, cioè per il senso di stanchezza e sfiducia verso una classe dirigente, responsabile del fallimento di febbraio. Con esso, a torto o a ragione, Gianni Cuperlo è stato identificato (Pippo Civati no, e infatti se l’è cavata). Dalla parte di Cuperlo stavano D’Alema e Bersani – come se con Renzi non stessero, che so, Franceschini Veltroni o Bassolino, che di primissimo pelo non sono. Però Renzi ha vinto, e vinto alla grande. Il 2013 è stato il suo anno: l’uomo da copertina, in tutti i sensi del termine, è lui. Sue le parole intorno a cui ruota la discussione nel partito, sua anche la caricatura più riuscita (quella fatta da Crozza).
Non è tutto: in mezzo a questo mare procelloso c’è stata la clamorosa sconfitta di Alemanno alle Comunali di Roma e la vittoria di Ignazio Marino. E, alla Regione, quella più rotonda ancora di Zingaretti. E a proposito di regionali: al Nord le regioni più grandi sono ora tutte in mano alla Lega, che è invece al punto più basso della sua parabola politica: il Piemonte a Cota, sommerso dagli scandali, il Veneto a Zaia, la Lombardia a Maroni, che ha lasciato la guida della Lega all’europarlamentare Matteo Salvini. Umberto Bossi è ormai uno sbiadito ricordo, così come lo è Gianfranco Fini. Altro politico sul viale del tramonto, senza esser mai riuscito a prendersi la scena, e senza quindi il rimpianto di nessuno, è Luca Cordero Di Montezemolo. Ma questo è solo un dettaglio.
Il rinnovamento della classe politica, alla fine, c’è stato: è stato eletto il Parlamento più giovane della storia, ma per la verità non c’è nessuno che sia disposto a scommettere sulla sua superiore qualità. La giovane filosofa Michela Marzano, alla sua prima esperienza, dice che la colpa non è sua ma di chi ce l’ha mandata, della vecchia politica che non molla la presa. Ma forse è lei che non riesce ad afferrare gran che, di quel che le capita intorno. Letta però ha chiuso l’anno non solo celebrando la «guadagnata stabilità», ma anche festeggiando la nuova generazione di quarantenni salita alla ribalta della politica italiana. Una generazione, l’abbiamo già scritto su queste colonne, non la fa però l’anagrafe, la fa la storia, e dunque tutto è ancora da fare. E, quanto alla storia: nel 2013 se ne sono andati Emilio Colombo e Giulio Andreotti. Senza nostalgie ma con rispetto, forse la prima Repubblica è davvero finita (e noi che pensavamo di stare già in una seconda).