Archivi del mese: gennaio 2014

Sulla pelle dell’Italia

ImmagineQuando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare. I duri e i grillini. Solo che il gioco si chiama democrazia parlamentare, e troppa durezza rischia di ammaccarlo seriamente. Le cronache di queste giornate raccontano di insulti, risse, occupazioni: del deputato che insulta in maniera greve le colleghe e si becca una sfilza di denunce; di quell’altro che insulta invece il Presidente della Repubblica senza preoccuparsi di sconfinare nel vilipendio; di molti deputati pentastellati che tentano l’assalto a questo o a quell’aula, con l’obiettivo di bloccare i lavori e di oscurare i passi compiuti nel lavoro parlamentare, sull’Imu e sulla legge elettorale, approdata finalmente in aula. Poi ci scappa lo spintone, lo scappellotto, la manata: uno chiede scusa, un altro nega l’intenzione, un altro, invece, se la ride.

Ma non è lo scompiglio, creato ad arte in queste ore, a destare preoccupazione. Prima dei grillini, a inizio secolo erano stati i socialisti a praticare l’arte dell’ostruzionismo. Nel dopoguerra sono stati i comunisti, contro la legge truffa e l’adesione alla Nato, e ancora i cronisti si passano fra di loro l’articolo del Corriere su Giancarlo Pajetta che salta intrepido tra i banchi per lanciarsi con foga nella mischia. Hanno fatto ostruzionismo persino i democristiani, lo hanno condotto alla sublimazione perfetta i radicali.

Tutto già visto, tutto già sentito, si direbbe allora. E invece no. Perché i grillini ci aggiungono, dal canto loro, una profonda sfiducia e un senso di estraneità nei confronti della prassi parlamentare, che va ben oltre una maniera intransigente di fare opposizione. Non è la gravità degli episodi, dunque, in discussione, ma l’interpretazione che della prassi democratica offrono i «cittadini» grillini. Che si vogliono cittadini proprio per quello, perché non si sentono parlamentari, come se ci fosse qualcosa di male nel solo appartenere al Parlamento. Ha dichiarato quel Luigi Di Maio, grillino, che, forse incidentalmente, è anche vice Presidente della Camera: «se si sopprimono i diritti dell’opposizione, il conflitto si sposta oltre il regolamento e forse oltre il Parlamento». La frase può certamente essere derubricata tra le dichiarazioni a effetto che cadono in un clima surriscaldato, se non fosse che oltre il Parlamento il Movimento si trova già da sempre, per definizione, anzi per statuto: nei pressi cioè di quella consultazione diretta virtuale, inventata sulla Rete a beneficio dei followers del blog di Grillo (non certo dell’universalità dei cittadini), che pretende di essere la vera, unica e sola democrazia. Per questo, non è vero affatto che in un Parlamento ormai esangue, incapace di legiferare e mortificato dalla continua decretazione d’urgenza, la pratica squisitamente parlamentare dell’ostruzionismo ridà finalmente fiato alle Camere e paradossalmente ripristina la centralità che spetta loro, secondo Costituzione. È vero invece il contrario: appena qualcosa comincia a muoversi tra i banchi del Parlamento – un decreto, una legge, una riforma – i deputati grillini si agitano e si scalmanano perché tutto invece rimanga immobile, bloccato, inutile, così da confermare il loro giudizio sull’irreformabilità della politica e, en passant, sull’impraticabilità della mediazione parlamentare. Si oppongono alla singola misura parlamentare, e si sentono investiti di una missione che non possono al contempo realizzare in nessun Parlamento.

Dopodiché quel che fanno lo fanno anche in maniera alquanto confusa e improvvisata. Basta leggere la richiesta di messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica, un atto che definire sconclusionato è fargli una gentilezza, ma che serve ad alzare il livello dello scontro, a cancellare presso l’opinione pubblica ogni barlume di senso istituzionale e, non dimentichiamolo, a lanciarsi nella campagna elettorale.

Perché bisogna dir meglio: sarà anche confusa e improvvisata la richiesta, ma non lo è affatto la determinazione con cui Beppe Grillo scende in campagna elettorale, in vista delle Europee. In quello non c’è nulla di improvvisato. Lì il gioco si fa veramente duro, e Beppe Grillo ha iniziato a giocarlo.

(L’Unità, 31 gennaio 2014)

La classe dirigente che non c’è

ImmagineDomanda: «Ma esiste una nuova classe politica nel Mezzogiorno? Esistono cento uomini d’acciaio, col cervello lucido e l’abnegazione indispensabile per lottare per una grande idea?». Risposta: no, allo stato non esistono. E così la domanda che fu posta in un’ora drammatica dal grande meridionalista irpino, Guido Dorso, risuona ancora oggi più che mai attuale: ce l’abbiamo una nuova classe politica? E se non ce l’abbiamo, ce l’avremo? E chi ce la darà: l’Italicum di Matteo Renzi? Siccome è in discussione la madre di tutte le riforme, la domanda è ineludibile: la legge elettorale che il Parlamento si appresta a votare aiuterà il Mezzogiorno a selezionare «cento uomini d’acciaio» (ma anche cinquanta, vanno bene anche cinquanta)? È singolare che in tutto questo discutere di leggi elettorali, modelli spagnoli riveduti e corretti, soglie e preferenze, premi e collegi, turni e doppi turni, una domanda sulla selezione della classe dirigente per il tramite della legge e dei partiti non si sia nemmeno posta. Che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa.

Intendiamoci: la via dello sviluppo del Mezzogiorno non passa attraverso una epocale sfida fra Orazi e Curiazi. Non basta cioè prendere una sporca dozzina di uomini per fare tutto il lavoro. L’idea di Guido Dorso, che sono le minoranze dirigenti a determinare lo svolgimento storico, non è sufficiente. Ma ciò non toglie che il problema esiste, se i vent’anni che abbiamo alle spalle difficilmente saranno archiviati come i più riusciti, dal punto di vista della leva di dirigenti, amministratori, uomini politici e di Stato che in questa stagione sono venuti alla ribalta. E questo nonostante i dirompenti referendum elettorali che inaugurarono, con la preferenza unica, la seconda Repubblica, nonostante gli homini noves che la fine dei vecchi partiti ha portato in prima fila (insieme però ad un bel po’ di personale di seconda fila), nonostante la rutilante stagione dei sindaci.

Che però continua, e non solo perché c’è ora un giovane sindaco alla guida del Pd. Nel Mezzogiorno, è ancora ai sindaci delle città maggiori che si guarda, come se non ci fosse nient’altro a cui aggrapparsi oltre le poltrone di primo cittadino. Il fatto è che l’assenza di un robusto e largo tessuto democratico, e di una società civile vigile, attenta, operosa, ha finito coll’assorbire gli elementi di novità legati alle elezioni diretta dei sindaci (e, ricordiamolo, al progressivo svuotamento dei consigli comunali), fino a che non sono riaffiorati antichi vizi, ben noti malcostumi. La personalizzazione della politica si è così rovesciata in un personalismo cocciuto e quasi es-lege, fino all’insostituibilità con cui si pretende di mantenere un doppio incarico, ministeriale e amministrativo, nonostante il palese conflitto di interessi e i pronunciamenti della magistratura (è il caso di De Luca). L’emergere di nuove soggettività, di nuovi protagonismi, fuori dei tradizionali quadri di partito, si è invece rovesciato in un radicalismo astratto e velleitario, combinato a una buona dose di incompetenza amministrativa (è il caso di De Magistris). Quanto infine all’ultimo esempio balzato agli onori della cronaca, quello di Nunzia De Girolamo, esemplifica piuttosto bene un altro processo: il consumarsi di una trama di parole, ragioni, idee, che anche solo per ipocrisia proteggeva un tempo la funzione politica, e il suo rivelarsi come mero punto di coagulo di interessi diversi, più o meno leciti, più o meno confessabili.

Se però lasciamo perdere questa o quella esemplificazione, rimane ancora da constatare l’abbondante quota di trasformismo che ha accompagnato la religione del maggioritario officiata in tutti questi anni: all’ombra dei grandi partiti (sempre meno grandi) cambi di casacca e micro-partiti hanno restituito lo spettacolo di una politica incapace non solo di produrre cambiamenti reali, ma anche di esibire buone ragioni: non solo non vediamo i primi, ma non capiamo nemmeno dove si trovino le seconde.

Molto, dunque, è rimasto incompiuto. La seconda Repubblica sorta sotto le insegne del rinnovamento è invecchiata senza aver prodotto alcuna innovazione durevole, degna di rimanere.  Ruit hora: ci apprestiamo a varare la terza, e non sappiamo ancora a quale santo votarci.

(Il Mattino, 28 gennaio 2014)

Se si batte il tempo insieme

ImmagineMa il governo: che fine fa? L’accordo raggiunto da Renzi con Berlusconi sulla legge elettorale non risolve il problema, ma anzi lo pone. E non si tratta di alimentare nuovamente sospetti sulle reali intenzioni di Renzi. Il segretario ha tagliato corto: mi accusavate di voler far cadere il governo per andare subito alle elezioni, e magari avrei pure avuto il mio tornaconto, e invece sono venuto a patti con Berlusconi per fare le riforme di cui si parla vanamente da vent’anni. Per fare la riforma istituzionale e per fare la riforma elettorale: non solo l’una o solo l’altra. E le riforme richiedono tempo. E dunque il governo deve durare almeno un altro annetto: se il disegno riformatore si compie, non c’è motivo di buttarlo giù.  Naturalmente, rimane ancora una subordinata: il percorso avviato si inceppa, e la situazione precipita subito verso le elezioni. Ma sta il fatto che per quanto forte sia l’accelerazione impressa in queste settimane, il percorso tracciato da Renzi «di persona personalmente» – come dice Agatino Catarella, l’agente del commissario Montalbano – deve pur sempre dispiegarsi in un arco temporale che il segretario vuole certo, definito, ma che, ribadiamolo, prende il suo tempo.

Di qui la domanda: nel frattempo, il governo cosa  fa? Con tutta l’attenzione mediatica che si sposta sulla segreteria del partito democratico, con l’avvio dei lavori parlamentari intorno alla legge elettorale, quali margini di azione restano al governo? Quali possibili risultati?Letta sarà anche bravissimo in politica estera, come ha detto qualche sera fa il leader del Pd: parla inglese, riceve regine e va in missione a Bruxelles; ma non è ancora il ministro degli Esteri di un governo a guida Renzi. E dunque? Delle due l’una: o il governo prova a vivacchiare nel cortile di casa nostra, galleggiando sugli umori parlamentari che variamente circoleranno in questi mesi, come un corpo quasi estraneo alla vera partita politica in corso; oppure si accorcia drasticamente la distanza fra il partito e il governo. La prima ipotesi si scontra però, innanzitutto, contro la dichiarata volontà di Letta di non rimanere a far la guardia al bidone. Il Presidente del Consiglio ha sempre detto che non sarebbe restato a Palazzo Chigi a qualunque costo, e il costo, per il paese, di uno stiracchiamento lungo un anno non sarebbe affatto un costo qualunque. In secondo luogo, sta il versante economico e sociale dell’azione di governo, quel piano di riforme a cui Renzi stesso ha alluso con il Jobs Act, rimasto però, per il momento, allo stadio di una serie di titoli. Può Renzi decidere di vivere quest’anno pericolosamente, sempre sotto i riflettori, mentre il governo a guida Pd sbriga solo l’ordinaria amministrazione? Può funzionare, per tutto il tempo che ci separa dalle prossime elezioni, o il Pd (e, va da sé, il paese) pagherebbe un prezzo assai alto per una simile condotta? Resta l’altra ipotesi, l’accorciamento delle distanze. Che difficilmente può spingersi fino all’identificazione: l’idea che Renzi possa guidare fin d’ora un nuovo governo di scopo, per un breve termine, convince poco anche come semplice suggestione. Ma il «rimpasto», concepito non per soddisfare questo o quell’appetito, spostare Tizio o promuovere Sempronio, ma per saldare i bulloni dell’esecutivo e consentire anche ad esso una corsa più spedita non è più un’evenienza improbabile. Perché, certo, Renzi è così tanto il nuovo che anche Enrico Letta sta rapidamente scivolando tra i vecchi, ma uno spettacolo del genere non tiene il cartellone per un anno intero. E non è detto che lo sketch non consumi anche il primattore, alla lunga. L’uno è rock, e l’altro è lento, direbbe Celentano. Ma allora o non ce la fanno proprio a stare insieme, oppure provano davvero a battere il tempo insieme. Almeno per un po’. 

(L’Unità, 24 gennaio 2014)

Il lato oscuro della provincia

ImmagineUn prelato, un notaio, un commercialista. Finché le cronache hanno raccontato le scorribande nel mondo della finanza di monsignor Scarano, il quadro che le sue imprese criminali componevano poteva essere collocato all’ombra del Cupolone, nel fitto sottobosco di intrighi legati alla finanza vaticana (su cui finalmente si comincia a fare un po’ di luce). Ma l’inchiesta si è allargata – come sempre accade in Italia – agli amici e ai parenti, e così sta venendo fuori qualcosa di diverso, che appartiene ad un altro genere letterario: non più una storia di delitti e tonache, ma il racconto sordido e molle di un pezzo dell’eterna provincia italiana. Dei suoi piccoli arrivismi e dei suoi grandi conformismi, delle sue pusillanimi certezze e delle sue tronfie velleità. Il prelato mondano, l’amico imprenditore, il professionista imbroglione, la parente stretta, il pretucolo. E, su tutti, un fiume di denaro.

Salerno è una città di provincia: per dimensioni e per tradizioni. Vive a pochi chilometri da una capitale, Napoli, e da almeno un paio di decenni ha deciso di soffrirne. Vive prevalentemente di commercio e di edilizia, e di una classe media formata da un ampio ceto impiegatizio e da sovraffollati ordini professionali. Commercianti, dipendenti pubblici, avvocati e, certo, notai e commercialisti. A cui finiscono con il mancare le grandi imprese e i grandi affari che una città di provincia, nel Sud del nostro paese, non riesce ad offrire. Perciò si arrangiano. Passeggiano sul corso, si incontrano in tribunale, fanno un po’ di anticamera, molte telefonate, poco cinema e pochissimi libri. E poi si arrangiano.

Negli anni Settanta, Salerno ha provato ad essere un polo di sviluppo industriale: non c’è riuscita. Di quella stagione è rimasto poco o nulla, ed anzi gli ultimi anni sono stati segnati da eventi a dir poco traumatici: la chiusura della fabbrica Marzotto, l’arresto e la caduta di Pier Luigi Crudele (il fondatore di Finmatica), e soprattutto il fallimento del pastificio Amato, che tuttora fa tremare i palazzi che contano. Il suo storico stabilimento sorgeva nella zona più popolosa della città: ora è soltanto un edificio cadente e abbandonato.

Monsignor Scarano, invece, ha casa nel centro storico: è lì che teneva le sue tele, i suoi Van Gogh e i suoi De Chirico, a pochi passi dal Duomo. Quante volte abbia percorso quei passi non è dato sapere, ma è più facile immaginarlo diretto verso altri luoghi della città: verso case private, uffici tecnici, sportelli bancari, studi professionali. I luoghi in cui poteva mettere a frutto le sue relazioni importanti, e a disposizione i suoi conti correnti.

I luoghi in cui si ritira una borghesia cittadina dedita più all’affare che all’intrapresa, dotata più della proverbiale, italica furbizia che di genuino spirito imprenditoriale e di robusta etica pubblica. Il giovane presidente di Confindustria, Mauro Maccauro, sta provando a dare una voce nuova alla categoria, dopo anni di afonia, ma, per il momento almeno, ai salernitani ne arriva forte e chiara una sola, di voce. Ogni settimana, di pomeriggio, per un paio d’ore, su una cortese tv locale: quella del primo cittadino, Vincenzo De Luca. Raccontare Salerno è impossibile senza parlare di De Luca, identificatosi a tal punto con la sua città da aver dichiarato una volta: «Mi piace immaginare l’urna con le mie ceneri posta al centro di questa piazza sul mare».

La grande piazza, insieme all’enorme edificio che la contorna, non è ancora terminata, e su di essa pende anzi un aspro contenzioso, ma già adesso funziona bene come metafora dello spirito con cui De Luca ha guidato la città, o forse del modo in cui la città si è lasciata guidare in questi anni: poche chiacchiere, tante costruzioni, tante spacconate, e la saldatura fra gli interessi dell’imprenditoria edile (l’unica rimasta in città) e lo spirito popolare, soddisfatto da standard di ordine e pulizia superiori a quelli di altre città meridionali ed anche dalle continue polemiche contro il napolicentrismo della Regione. E così il sindaco di una città che negli anni Settanta e Ottanta conosceva l’estremismo e il terrorismo (ma anche vivaci fermenti artistici, letterari, teatrali), il sindaco che in quegli anni sì laureò in filosofia con una tesi sulla concezione dello Stato in Marx e in Lenin, nomina oggi come nemici della città due sole categorie: non la destra o la sinistra, i fascisti o gli imperialisti, ma i «cialtroni» e i «cafoni» (a parte Napoli, ovviamente). Eppure, né il prelato, né il notaio né il commercialista appartengono all’una o all’altra categoria. Siedono invece nei circoli cittadini, frequentano gli ambienti giusti, coltivano la rete di amicizie su cui si regge una città smidollata, che evidentemente si piega docile in pubblico per tramare in privato.

Anche il ventennale, incontrastato dominio di De Luca mostra però qualche piccola incrinatura. E non tanto per la vicenda ormai kafkiana del doppio incarico, al ministero e al palazzo di città, che il sindaco si guarda bene dal risolvere. E neppure per la presenza di nuovi avversari politici o di un nuovo spirito pubblico, ma perché tutte le cose mortali finiscono, e questa fatalistica saggezza funziona bene in provincia. In realtà, Il comune naviga in cattive acque, se a fine anno i revisori dei conti hanno bocciato l’ultima manovra di bilancio, e se si è visto costretto a vendere l’unica azienda partecipata che produce utili, la Centrale del Latte.

De Luca però tira avanti, e si tira dietro la città: siccome i salernitani vanno orgogliosi del loro lungomare e delle passeggiate, il sindaco ha regalato loro, per il periodo natalizio, le «luci d’artista», cioè luminarie stradali più vistose che mai (ma anche più costose: poco meno di tre milioni di euro, che in periodo di crisi si fanno sentire). Portano vagoni di turisti  – quelli però da un giorno: una pizzetta, una passeggiata e poi di nuovo sul pullman -, ma soprattutto solleticano l’orgoglio cittadino, in tempi in cui la squadra del cuore non dà invece particolari soddisfazioni.

De Luca tira avanti, e riempie tutto lo spazio pubblico. Lo condiziona, lo occupa, lo satura. In privato, il prelato, il notaio e il commercialista si scambiano telefonate, favori, denari. Uno chiede del vino, l’altro si informa sulla casa. Nessuno si accorge di nulla. Avevamo in città sei tele di Van Gogh e nessuno ne sapeva un accidenti.

(Il Mattino, 23 gennaio 2014)

L’eterna purezza. Quella sindrome da Livorno ad oggi

ImmagineSiccome tutto è cominciato con una divisione, nel ’21, e visto che ieri ne era anche l’anniversario, le dimissioni di Gianni Cuperlo hanno di nuovo sollevato il fantasma della scissione. Qualcuno ha detto che la storia, la «magistra vitae», insegna che da essa, in realtà, non si può imparare nulla, e perciò non tireremo in ballo né la nascita del partito comunista a Livorno, più di novant’anni fa, né la scissione di palazzo Barberini del ’47, da cui nacque il Psdi, né quella da cui nacque invece di Rifondazione comunista, oltre vent’anni fa, né alcuno degli episodi minori che punteggiano la storia della sinistra italiana. Resta però che le tensioni prodottesi nell’ultima Direzione del Pd, che ha approvato l’accordo raggiunto da Renzi con Berlusconi e provocato le dimissioni del presidente del partito, «debbono allarmare», come ha detto un altro esponente dimissionario di quel partito, Fassina, che per colpa di un «Fassina chi?» del segretario ha lasciato bruscamente il governo (salvo definire ieri «ottimo» il lavoro fatto da Renzi). Ma allarmare non per le ragioni che dice lui, cioè per mancanza di pluralismo interno, ma perché, si tratti o no di attacchi personali, quelli che Renzi causa col sorriso sulle labbra e la perfidia nelle parole sono movimenti tellurici profondi, in cui risuonano echi antichi, e che sommuovono il Pd ben oltre la normale dialettica fra maggioranza e minoranza.

La sinistra sembra tornare cioè prigioniera dell’idea che, per conservare intatte le proprie ragioni, bisogna tenerle al riparo e portarle fuori. Dentro non possono convivere, senza corrompersi. Su questo schema Francesco Piccolo ha scritto il libro che oggi rischia di vincere lo Strega: la sindrome della purezza, che porta con sé l’idea che alla guida del Pd ci sia oggi una specie di  Berluschino, qualcuno di estraneo alla tradizione storica della sinistra, un alieno che non rispetta le regole (o forse soltanto certe liturgie), e con cui perciò non si può stare insieme.

Ora, però, guardando un po’ fuori di casa nostra: nessuna scissione si è prodotta quando, per esempio, Tony Blair ha preso in mano il partito laburista e ne ha fatto il New Labour, spostandolo su posizioni neocentriste (la cosiddetta Terza Via). E neppure nell’SPD si sono verificati terremoti significativi, quando Gerhard Schroeder ha preso il partito che era stato di Willy Brandt e di Helmut Schmidt e lo ha portato anche lui su posizioni di «nuovo centro» (die neue Mitte). Ovviamente, questo non può né deve togliere un grammo al peso delle ragioni dell’attuale minoranza, anche perché il bilancio di quelle esperienze è tuttora aperto, storicamente e politicamente. Né è detto che Renzi intenda ripercorrere quelle strade (e soprattutto che sia più di sinistra Letta, tanto per stare ai termini reali della contesa in casa Pd). In ogni caso, come si è conclusa la Direzione incriminata? Con un voto. E quanti voti contrari ha ricevuto la relazione del segretario? Nessuno, solo poche decine di astenuti. E cosa succederà ora nei gruppi parlamentari? Vedremo, ma non si può dire che le regole della vita democratica di un partito non siano rispettate, per il fatto che il segretario fa battute sgradevoli o presenta l’accordo così come è stato raggiunto, cioè come un accordo complessivo, in cui le diversi parti sono legate insieme. La necessità che le lega insieme è, in effetti, di ordine politico, non giuridico-costituzionale: ma non per questo non esiste o non va considerata. Di punti da discutere ce ne possono essere, ovviamente, a cominciare dal delicato tema delle preferenze o dal rapporto che la legge stabilirebbe fra rappresentatività e governabilità. Ma una minoranza che non sapesse affrontare una discussione su questi temi dentro il Pd, e pensasse invece di portarla fuori, e lamentasse il carattere padronale della gestione renziana dopo nemmeno due mesi dalla sua elezione per via del carattere poco fiorito del suo eloquio, commetterebbe come minimo un errore di prospettiva.

Le passioni, diceva Descartes, sono lenti deformanti, che a volte ingigantiscono ciò che è piccolo e altre volte rimpiccioliscono ciò che è grande. Forse, allora, si tratta solo di questo: che di fronte alle importanti sfide che attendono il Paese, il governo, e pure il Pd, non sempre tutti inforcano gli occhiali giusti. Né discernono, a causa delle umane, troppo umane passioni, gli interessi reali in gioco.

(Il Messaggero, 22 gennaio 2014)

Vattimo, pensiero debole e tentazioni forti

ImageLa notizia c’è: Gianni Vattimo, uno dei maggiori filosofi italiani viventi, bussa alla porta di Grillo. Si capisce: a giugno si vota di nuovo per le europee, dove evidentemente il filosofo, attuale europarlamentare, si trova bene e vuole tornare. Una volta lo disse pure, citando Enrico Mattei: anche per me i partiti sono come i taxi, si prendono quando servono. Ora, se fosse soltanto un episodio di calcio-mercato (dopo tutto, è aperto fino a fine gennaio) non metterebbe conto di parlarne. Ma il fatto è che Vattimo è un pezzo significativo della filosofia italiana dell’ultimo mezzo secolo, oltre ad essere internazionalmente noto. Chi quindi volesse capire cosa è accaduto nella cultura del nostro Paese dopo il declino della tradizione storicista e l’interruzione della linea De Sanctis-Croce-Gramsci, su cui si è innestato il tronco principale della sinistra italiana, non altro dovrebbe leggere che i libri di Gianni Vattimo. Chi inoltre volesse sapere cosa mai sia stato il «pensiero debole», l’etichetta inventata da Vattimo (e da Pier Aldo Rovatti), e capirlo non con i difficili mezzi della filosofia, ma almeno della sociologia della cultura, potrebbe forse studiare con profitto, per intero, la vivace biografia del filosofo torinese, fino all’abboccamento di ieri. Perché, per il Vattimo filosofo, debole, o da indebolire, è la struttura stessa della realtà: presa così com’è (o meglio: come sembra essere), la realtà è troppo perentoria, autoritaria, e infine violenta. Presa invece alla leggera, la realtà si lascerebbe modificare, cambiare, interpretare in infiniti modi. Ricordate la tesi marxiana: finora i filosofi si sono limitati a interpretare il mondo, ora si tratta di modificarlo? Ebbene, Vattimo e l’ermeneutica filosofica contemporanea hanno mostrato che interpretare è già modificare, e dunque l’opposizione marxiana non ha motivo d’essere (per la gioia dei filosofi idealisti più disinvolti e la disperazione dei materialisti più impenitenti).

Ma i torti o le ragioni teoretiche non sono uguali ai meriti o ai demeriti culturali: grazie a Vattimo (non solo a lui, ma anzitutto a lui) pensatori fino ad allora considerati di destra, quando non schiettamente nazisti, sono divenuti sorprendentemente, sul finire degli anni Settanta, numi tutelari della sinistra: Nietzsche, Heidegger, Schmitt. Ma soprattutto il primo, Federico Nietzsche, lui stesso così ben modificabile, e assimilabile, e malleabile, da potersi rendere disponibile in edicola a prezzi popolari (lì dove invece i filosofi di solito non si vendono) e da comparire perfino nelle canzonette: vedi l’indimenticabile «Nietzsche (pronuncia: «nice») che dice? Boh, boh!» di Zucchero Fornaciari.

Vattimo ha sempre sostenuto che le sue posizioni di sinistra, e anzi di sinistra radicale, anarchico-libertaria, anticapitalista, antagonista, pacifista, antisionista e antiamericana (e pure, da ultimo, anti-Tav: il filosofo torinese non si è mai fatto risparmiare nulla) vanno a braccetto con la sua ontologia debole. Che quindi si intende: dalla parte dei deboli. La sua parabola politica è però ancora più istruttiva: c’è infatti un nesso molto evidente fra l’avversione sessantottina e post-sessantottina nei confronti del pesante e bolso partito comunista, che il giovane Vattimo condivideva con i gruppi extra-parlamentari, e la simpatia che oggi il vecchio Vattimo mostra di nutrire verso i Cinque Stelle. Il tratto comune è l’ostilità nei confronti di tutto ciò che sa di ufficialità, istituzionalità, autorità, normalità, di tutto quello che si presta ad essere descritto come facente parte di un sistema: che si tratti insomma del sistema della morale piuttosto che di quello delle leggi e dello Stato, il nietzscheanesimo di sinistra di Vattimo si troverà sempre all’opposizione. Per principio (e un po’ anche per comodità).

Perciò la notizia di oggi c’è, ma non deve stupire. Uno pensa che stia nella disinvoltura con cui Vattimo sale e scende dai taxi: ma per stigmatizzare quella, basta un articolo un po’ irridente. E invece la notizia sta nello sfarinamento della cultura di sinistra del nostro paese: per quella, c’è bisogno ahimè di una riflessione più seria.

(Il Mattino, 17 gennaio 2014)

Il vero volto del Carroccio

ImageL’incontro fra il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, e la leader del Front National, Marine Le Pen, fuga ogni dubbio: le contestazioni all’indirizzo del ministro Cecile Kyenge non possono essere derubricate alla voce folclore padano, ma definiscono una piattaforma  politica. Anti-euro, ma soprattutto anti-immigrazione e xenofoba. Roberto Maroni, che è stato ministro dell’interno ed è attualmente presidente della regione Lombardia, prova, con massicce dosi di ipocrisia, a negare che vi sia del razzismo nelle posizioni della Lega: si tratta solo di critiche, dice, come se si potesse criticare il colore della pelle o la semplice presenza di un ministro di colore nel governo italiano. In attesa dunque di conoscere la definizione di razzismo di Roberto Maroni o di Flavio Tosi, cioè del volto gentile della Lega, e di capire come possa essere ristretta a tal punto da non includervi gli apprezzamenti riservati al ministro per la «negritudine», occorre comunque prendere atto del nuovo corso impresso con decisione alla Lega dal segretario Matteo Salvini. Il quale Salvini, a proposito della pubblicazione da parte del giornale La Padania, dell’agenda di appuntamenti del ministro per l’integrazione, ha a sua volta negato che l’iniziativa avesse un significato intimidatorio: «mica abbiamo scritto di andarla a picchiare», ha dichiarato, lasciando nel lettore il dubbio se stesse negando o più sottilmente denegando, così di fatto indicando il possibile passo successivo nell’escalation di attacchi indirizzati al ministro.

Che forse sono effettivamente destinati ad aumentare con l’inizio della campagna per le Europee. Ma questo non significa che bastino i timori o le aspettative per il voto di giugno del neo-segretario, chiamato a rilanciare la Lega dopo la fine dell’era Bossi e l’interregno di Maroni, per ridimensionare le preoccupazioni che simili atteggiamenti suscitano. È vero infatti che la Lega non ha mai mancato di alzare i toni, in simili circostanze, ma è vero anche che il passaggio dal populismo becero al razzismo dichiarato nell’avversione nei confronti dell’«altro», del «diverso», dello «straniero», non è così lontano dall’essere compiuto. E c’è il rischio che ben prima dei dirigenti politici, che scherzano con la materia cercando di lucrare a fini elettorali, sia l’elettorato della Lega a far propri comportamenti razzisti violenti e discriminatori. Francamente, non è un azzardo che possiamo permetterci.

E invece Salvini incontra Marine Le Pen, e la Padania fa l’elenco dei luoghi dove appostarsi per incontrare Cecile Kyenge. E il partito e il giornale della Lega accampano la libertà di opinione, la libertà di stampa, e mandano alti lai contro la censura e gridano al sequestro preventivo: non hanno mica detto che occorre impartire una punizione esemplare a questi stranieri che insozzano il suolo patrio, loro. E così, sempre non dicendo questo o quello, fomentano l’odio, alimentano l’intolleranza, minacciano la democrazia.

Quel che invece è da dire con forza è che c’è certamente un’Italia moderna, civile, aperta, rispettosa ed anzi amante delle differenze, che è pronta per un dibattito maturo e sereno sui temi dell’integrazione e per introdurre finalmente nella legislazione italiana una legge avanzata sullo ius soli, che allinei il paese alle più significative esperienze dei paesi occidentali. Questo è da dire, e da fare. Non minimizzare o prendere sotto gamba, perché la diffusione di movimenti razzisti e xenofobi nell’Europa di oggi, nonostante le terribili lezioni del passato, è un dato di realtà, che va contrastato con la massima fermezza. Finché infatti i venti di crisi continueranno a soffiare, sappiamo purtroppo – per la terribile esperienza che ha conosciuto l’Europa nel Novecento – che la risposta progressista non è affatto scontata, ma va anzi conquistata e difesa. E dunque: Matteo Salvini incontri pure Marine Le Pen; noi però non facciamo mancare al paese l’incontro con i socialisti e democratici europei.

(L’Unità, 16 gennaio 2014)

Valérie: umiliata davanti alla Francia

ImageSiccome la distinzione fra pubblico e privato è un pilastro fondamentale della civiltà giuridica e politica moderna si capisce che venga evocata tutte le volte che si ritiene che sia minacciata. La privacy è un bene prezioso, la cui tutela è tanto più importante quanto più aumenta la possibilità e la disponibilità tecnica e sociale di investirla di attenzione ed evidenza pubbliche. Che però le scorribande in motocicletta del presidente della Repubblica francese e le sue incursioni in appartamenti di dubbia proprietà suscitino l’interessa della stampa e dei media rientra perfettamente in ciò che l’opinione pubblica transalpina ha il diritto di sapere. Il presidente Hollande non è ovviamente tenuto a spiegare i suoi sentimenti in pubblico: può amare tutte le donne che vuole, tradirle o essere loro fedele; ma non può evitare che i suoi comportamenti prendano una rilevanza più ampia delle vicende sentimentali di ogni altro cittadino francese, per il fatto che investono un personaggio pubblico e contribuiscono a descriverne la condotta. Non sono solo in gioco questioni di sicurezza, sebbene il fotografo che lo ha immortalato con il casco prima che sparisse in un garage abbia notato la preoccupante assenza di qualsiasi misura di protezione. Sta anche il fatto che la stessa costruzione dei personaggi pubblici richiede sempre più spesso inserti di vita privata: Nel caso dell’Eliseo: come trascurare il fatto che lo stesso Hollande non ha mancato in passato di sfruttare a suo favore i narcisismi sentimentali del predecessore Sarkozy? E come sorvolare sugli sforzi compiuti nel corso degli anni nella costruzione della figura della «première dame», che non è certo una personalità costituzionalmente profilata, in Francia o altrove, ma concorre all’immagine pubblica del Capo dello Stato in un numero sempre maggiore di paesi, determinandone almeno in parte le fortune politiche? La dottrina in materia, d’altra parte, è costante: il diritto alla privacy è attenuato in ragione del rilievo pubblico della persona. Hollande ha perciò ragione di trovare «dolorosa» non solo la vicenda personale che lo riguarda, ma anche il clamore che suscita, ma è quel genere di «dolore», cioè di sacrificio personale, che l’incarico da lui assunto richiede che egli sopporti. Ed è molto improbabile che non ne fosse consapevole. È improbabile, cioè, per non dire impossibile, che non considerasse lui stesso imprudente spostarsi su uno scooter per le vie della capitale, inseguendo un nuovo amore.

Dopodiché è vero: le trasformazioni della vita pubblica spostano sempre un po’ più avanti il confine della morbosità, della curiosità pruriginosa, del pettegolezzo. La vita privata finisce nella disponibilità del pubblico, di altri attori sociali, tutte le volte che le nostre preferenze private o i nostri soggettivi desideri sono catturati e usati, quando non manipolati, dal mercato così come dai mass media. E a volte ci finisce anche su una base completamente volontaria: basta guardare quanti lacerti di vite individuali finiscono nello spazio dei social network, per rendersene conto. Ma il caso di Hollande non c’entra con l’intrusività delle nuove tecnologie: c’entra invece con le debolezze di un uomo, e con il giudizio che su di esse, in democrazia, il pubblico ha il diritto di rendere.

In Italia, siamo invece alle prese con le intemperanze private ma decisamente meno romantiche del ministro dell’Agricoltura, catturate da una registrazione non autorizzata e finite poi sui giornali. Anche Nunzia De Girolamo ha chiesto il rispetto della privacy. Nel suo caso, è indubbio che una riunione privata, in un’abitazione privata, sia stata violata abusivamente. Ma un conto è la possibilità che «l’illecita captazione» sia o meno utilizzabile in sedi processuali, un altro sono i chiarimenti richiesti al ministro, per i quali farebbe male a ricorrere allo scudo inviolabile della privacy. Una cosa, insomma, sono i termini del diritto, e la circoscrizione in base ad essi degli spazi di riservatezza personale, un’altra è la sede pubblica delle ragioni, che devono sempre poter essere fornite per giustificare i propri comportamenti, quando coinvolgano – com’è questo il caso – la gestione amministrativa di un’azienda pubblica.

Certo, non succederà mai che Hollande si occupi dell’ASL di Benevento, o che la De Girolamo finisca su «Closer» per aver tradito il marito, il democratico Francesco Boccia: le due vicende sono diverse e non possono essere confuse insieme. Ma non è nemmeno il mancato rispetto della privacy la chiave che spiega l’attenzione loro riservata dall’opinione pubblica.

(Il Messaggero, 16 gennaio 2014)

San Carlo, il futuro rubato

ImageLe cifre che la Soprintendente snocciola al Mattino per raccontare la crisi del San Carlo sono eloquenti: due milioni all’anno per pensioni aggiuntive maturate versando il due per cento circa dello stipendio sono un fardello insopportabile, per il teatro. Ed è un fardello che grava da decenni, che si trasmette con la reversibilità della pensione, e che dunque nemmeno la morte estingue. Una palla al piede di cui il lirico cittadino non è riuscito e non può, allo stato, liberarsi, e che tuttavia appesantisce drammaticamente i costi di gestione. Lo scontro consumatosi nel cda, con le dimissioni di Caldoro, Cesaro, Villari e Maddaloni, e il passaggio dell’Ente sotto la vigilanza del Ministero, mette nuovamente allo scoperto una realtà con la quale è sempre più difficile fare i conti. I conti, anzi, non tornano affatto. Ora, può darsi che non sia stata una mossa indovinata la mancata adesione alle «misure di risanamento delle fondazioni lirico-sinfoniche e di rilancio del sistema nazionale musicale di eccellenza» – così recita, all’articolo 11, il decreto Valore Cultura approvato in pompa magna dal governo, l’autunno scorso. O forse lo è stata. O forse le condizioni imposte dal decreto per l’accesso al fondo messo a disposizione dal governo erano troppo punitive (e quel fondo troppo esiguo). Di sicuro, però, quello che il San Carlo si porta sul groppone dalla metà degli anni Settanta,  con le centinaia di prestazioni pensionistiche supplementari  erogate a fronte di contributi bassissimi, non ha nulla a che vedere con  i temi del decreto: la cultura, gli spettacoli dal vivo, l’eccellenza musicale. Ha a che vedere invece con la necessità di riscrivere il patto sociale su cui poggia la costituzione materiale del nostro Paese.

Questa necessità non la si riesce ad affrontare da troppo tempo: non con i governi tecnici, non con le larghe intese, e nemmeno, a quanto pare, con le piccole. E invece, in una situazione di così profonda recessione come quella che attraversa l’Italia da più di un lustro a questa parte, mettere mano alla sua forma fondamentale, al suo disegno istituzionale, alle sue regole elettorali, ed anche ai lineamenti di fondo della sua composizione sociale ed economica è indispensabile. Altrimenti non si va da nessuna parte. Di pesi, infatti, come quello che il San Carlo si porta sul dorso, sorta di meteoriti provenienti non dallo spazio, ma sì da un’altra epoca, ve ne sono parecchi, nel nostro paese, e andrebbero spazzati via. Basti pensare, per stare in argomento, alle centinaia di migliaia di baby pensionati ancora in circolazione: il quarantennale del provvedimento approvato dal governo Rumor è stato celebrato pochi giorni fa, il che ci riporta a quegli stessi anni in cui al San Carlo si aggiungevano con colpevole faciloneria gli assegni pensionistici.

 Orbene, non si tratta neppure di denunciare la profondità disparità di trattamento tra chi oggi gode di trattamenti previdenziali di così evidente favore e chi invece non sa neppure se un trattamento previdenziale ce l’avrà. Del resto, la seconda Repubblica, dal 1995 in poi, ha più volte messo mano alla riforma delle pensioni, segnando, tra molte incertezze e non poche incoerenze e iniquità, il passaggio ad un sistema retributivo che non consente più il verificarsi di simili situazioni. Resta comunque il fatto che certi diritti sono acquisiti e non è facile (e forse neppure possibile, in punta di diritto) toccarli. Ma al compito di ripensare il patto sociale su cui regge la condizione e l’esercizio effettivo di una cittadinanza democratica bisognerà pur cominciare a dedicarsi. È un compito eminentemente politico: non si tratta di semplice razionalità economica, e neppure solo di questioni di giustizia tra classi sociali o tra generazioni; è l’idea che abbiamo del nostro paese, che dobbiamo poter tracciare nelle leggi fondamentali che ne disegnano la fisionomia. C’è ovviamente una profonda differenza fra gli anni Settanta ed oggi, e non è affatto (o soltanto) la differenza fra le vacche grasse di allora e le vacche magre, anzi ormai inscheletrite, di oggi. O fra l’epoca dei grandi politici di massa e delle grandi lotte sindacali, e la sempre più estesa spoliticizzazione dei rapporti sociali di oggi. E, a pensarci, il punto non è nemmeno che quegli anni non possono tornare, oppure che non possono né debbono gravare ancora sul presente. Il punto vero è che non si vede una classe dirigente in grado di pensare quella differenza, di andare cioè oltre il risentimento e l’acrimonia o, all’opposto, il lutto e la malinconia,tenendo in una mano il giudizio storico e, nell’altra, un’autentica visione politica e progettuale.

Così si mettono pezze qua e là, come sarà richiesto di fare anche per il San Carlo, e il campo rimane ingombro di detriti appartenuti ad un’altra epoca e non ancora rimossi.

(Il Mattino, 12 gennaio 2014)

I due saperi, rivali o alleati

«Il Mulino» riapre il dibattito su scienza e umanesimo. Il degrado degli studi produce una politica senza idee

Antonio Carioti, Corriere della sera, 13/01/2014

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Il grido d’allarme in favore dell’umanesimo lanciato da Alberto Asor Rosa, Roberto Esposito ed Ernesto Galli della Loggia, pubblicato dalla rivista «Il Mulino», denuncia lo svilimento degli studi storici, filosofici e letterari come un pericolo mortale per l’Italia. Un tema che può essere considerato da svariati punti di vista. L’appello non è piaciuto agli autori convinti che il guaio peggiore del Paese sia piuttosto la carenza di cultura scientifica, mentre altri studiosi ne hanno apprezzato e sottolineato la valenza sul terreno politico. Al primo gruppo appartiene Gilberto Corbellini, autore del saggio Scienza (Bollati Boringhieri): «Io insegno Storia della medicina e vedo che quasi tutti gli studenti escono dalla scuola superiore senza sapere nulla del metodo scientifico, senza avere idea, per esempio, di come si accerta l’efficacia di un farmaco: poi non c’è da stupirsi se si dà credito agli imbonitori, come nel caso Stamina». A suo avviso l’appello uscito sul «Mulino» ha un taglio conservatore: «È pervaso dall’idea che la conoscenza umanistica sia più profonda e dinamica, rispetto al presunto appiattimento del sapere scientifico». Assai diverso l’approccio di Massimo Adinolfi, docente di Filosofia teoretica e autore del saggio Continuare Spinoza (Editori Internazionali Riuniti), che ha commentato positivamente l’appello sul «Messaggero» del 5 gennaio: «Il punto cruciale colto dai tre sottoscrittori riguarda il destino della politica.Essa in Italia ha tratto la sua linfa da una tradizione impregnata di cultura umanistica. Se quel patrimonio storico finisce nel dimenticatoio, come sta accadendo, si perdono le coordinate della vita pubblica. E poi ci ritroviamo ad essere governati da partiti come quelli attuali: formazioni senz’anima e senza storia, incapaci persino di declinare un albero genealogico coerente».

Non tutti però apprezzano il retroterra della cultura politica italiana. Molto critico si mostra ad esempio il sociologo Luciano Pellicani nel libro Contro la modernità (Rubbettino), scritto con Elio Cadelo: «L’appello uscito sul “Mulino” — dichiara — rispecchia una grave arretratezza. Penso all’invettiva contro la cosiddetta “idolatria del mercato”, che forse ha un senso negli Stati Uniti, ma è paradossale in un Paese votato allo statalismo come il nostro. Quanto alla tradizione politica, nelle campagne elettorali italiane non si fa cenno ai temi della ricerca scientifica, che sono invece centrali nei dibattiti delle presidenziali americane. Lungi da me l’idea di sottovalutare l’importanza della letteratura o della filosofia, ma l’emergenza di cui soffriamo è su un altro versante». Roberto Esposito, firmatario dell’appello, mette in guardia contro gli equivoci: «Abbiamo puntato l’attenzione sull’umanesimo in modo molto netto, forse anche provocatorio, ma non pensiamo certo che si debbano ridimensionare le discipline scientifiche. E siamo consapevoli della necessità di un’osmosi.
Essa tuttavia è possibile solo se ciascuno dei due ambiti (anzi tre, se si aggiungono le scienze sociali come l’economia e la sociologia) mantiene la sua specificità. L’errore è omologare i saperi come fanno certi meccanismi di valutazione, tutti basati su parametri quantitativi e oggettivi, che non possono valere per gli studi umanistici, fortemente caratterizzati in senso qualitativo e soggettivo».
Su questo Corbellini concorda: «Anch’io trovo ridicole le modalità di valutazione oggi in uso e la sceneggiata dell’abilitazione nazionale per la docenza universitaria. I tre firmatari dell’appello hanno ragione nel definire umiliante e provinciale la richiesta che un commissario straniero partecipi alle procedure di valutazione. Ed è assurdo che chi scrive fesserie in inglese abbia più probabilità di essere abilitato rispetto a chi scrive cose intelligenti, ma solo in italiano». Tuttavia, a suo avviso, questi sono proprio i risultati di una tradizione che ha svalutato la scienza: «La nostra classe politica, cui si devono i guasti denunciati sul “Mulino”, non viene quasi tutta da una formazione umanistica? Servirebbe una franca autocritica da parte di chi opera in quel campo. Invece l’appello esalta i tratti peculiari dell’identità italiana, proponendo quasi una riedizione del Primato di Vincenzo Gioberti, men- tre trascura il ruolo cruciale che la scienza ha giocato nello sviluppo della modernità, della tolleranza e della democrazia liberale».
È un’impostazione che non convince Adinolfi: «L’idea che tutti i Paesi si debbano adeguare a un modello unico liberale di matrice anglosassone mi sembra priva di senso storico. In realtà l’Italia del dopoguerra ha conosciuto enormi progressi economici e civili finché hanno tenuto i filoni politico-culturali originali radicati nella nostra vicenda nazionale, come il cattolicesimo democratico della Dc e la tradizione socialista del movimento operaio. Quando quei riferimenti ideali si sono consunti, il nostro Paese ha perso quota ed è entrato in una fase di grave declino». «Vorrei ricordare — osserva a sua volta Esposito — che l’attuale ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, e il suo predecessore, Francesco Profumo, sono docenti di materie scientifiche, quindi il monopolio dell’umanesimo al governo non esiste più. Riconosco comunque che la tradizione culturale italiana è stata spesso interpretata in modo mediocre dalle classi dirigenti. Aggiungo che tuttavia negli Stati Uniti, dove ha sempre prevalso il sapere scientifico, oggi si riscopre l’importanza della visione umanistica e proprio la filosofia italiana è molto apprezzatra. Ma quella espressa nel nostro appello sul “Mulino” non è una posizione di difesa identitaria: semmai abbiamo voluto sottolineare una innegabile specificità italiana, cioè il ricchissimo patrimonio artistico e culturale che ci deriva dal passato. È una risorsa immensa, di cui altri Paesi non dispongono. Ma come si può valorizzarla, se si emarginano gli studi umanistici?». Pellicani pensa che la priorità sia un’altra: «Mancano i laureati in matematica e in fisica, per giunta i più dotati tra loro vanno all’estero. E troppi studiosi di materie umanistiche continuano a ignorare gli sviluppi delle scienze naturali e il loro contributo alla comprensione delle nostre esperienze individuali e sociali. Mi sembra che temano un’invasione di campo, anche per la diffidenza diffusa verso tutto ciò che è misurabile e quantitativo. Io invece, come sociologo, giudico prezioso, per esempio, l’apporto della psicologia evoluzionista, che studia il tasso di condizionamento biologico nei comportamenti della specie umana». Esposito nega però ogni paura di contaminazione: «Nessuna chiusura. Al contrario, personalmente parlo da anni di biopolitica, cioè sostengo la necessità di mettere in rapporto politica e dinamiche biologico-naturali. Neuroscienze e filosofia trovano un terreno comune nella categoria di bios, la vita biologica, attraverso la quale si va facendo strada un nuovo paradigma scientifico più flessibile, attento al divenire, alle differenze, alle varianti. Ma un confronto fecondo esige che non si pretenda di allineare tutti i saperi lungo l’unico orizzonte delle scienze naturali».

Israele e Palestina? Due Stati: anzi, neppure uno

ImageLa grammatica politica della modernità, alla quale ancora apparteniamo, poggia su pochi concetti fondamentali: il popolo e la nazione, la sovranità e lo Stato, l’individuo e il cittadino.  Altre figure fanno la loro comparsa nel corso del tempo: la persona, ad esempio, oppure la classe, o il partito, modificando ma non compromettendo le relazioni fondamentali che si stabiliscono tra quei primi elementi. Ora, la tesi fondamentale del nuovo, prezioso libro della filosofa Donatella Di Cesare (Israele. Terra, ritorno, anarchia, Bollati Boringhieri) è che l’esistenza dello Stato di Israele non si lascia comprendere dentro quel plesso concettuale.  Il libro corre lungo due linee principali: la vicenda storica del sionismo e il suo rapporto con la nuova entità statale nata dopo la seconda guerra mondiale, da una parte; dall’altra, i fondamenti teorici di una politica pensata a partire da ciò che grazie al pensiero ebraico del ‘900 – Martin Buber, Gustav Landauer e Emmanuel Lévinas, sopratutto – eccede il perimetro della politica moderna. La data decisiva, intorno a cui tutto ruota, è proprio il ’48, l’atto di nascita di Israele: dopo quella data, ad essere “patria tra le nazioni” non è più il singolo ebreo, come era stato fino ad allora – e fino all’immane eccidio della Shoah –, ma lo stesso Stato di Israele, la cui posizione nel consesso internazionale rimane controversa (e da parte araba contestata in radice, fino a negarne l’esistenza stessa). Il ritorno degli ebrei nella terra promessa non spegne però la singolarità di una vicenda storica e messianica, che la Di Cesare si rifiuta di declinare come eccezionalità (che è solo l’opposto della sua reiezione). Questa singolarità è piuttosto un’alterità, un essere stranieri nella propria patria, sulla propria terra che può – anzi, deve – aiutare la politica occidentale a liberarsi della sua fascinazione per l’identità e le radici, e dalla sua letale statolatria, rivelatasi una volta per tutte dentro il recinto di Auschwitz. Sul suo fondamento è possibile anche proporre una diversa considerazione del conflitto arabo-israeliano, che non può per la Di Cesare trovare soluzione nella costituzione di due Stati per le due nazioni, israeliana e palestinese, quanto piuttosto nella disarticolazione della equivalenza nazione-Stato, e nell’oltrepassamento an-archico dell’idea stessa dello Stato. Ricollegandosi infine alla tradizione del socialismo utopico, contro il socialismo “scientifico” di Marx, Donatella Di Cesare disegna la figura di una cittadinanza aperta, ospitale, sganciata dalle chiusure mortifere del territorio e dello Stato, e i lineamenti teorici di un pensiero ebraico della giustizia che rifiuta radicalmente il momento machiavelliano del pensiero moderno: nessun fine giustifica i mezzi, e nessun mezzo violento consente mai di raggiungere un fine giusto.

(Il Mattino, 9 gennaio 2014)

Appello degli intellettuali: difendiamo l’umanesimo

ImageAl centro dell’allarmato appello in difesa dei saperi umanistici promosso da tre intellettuali di diversa formazione e cultura politica – Roberto Esposito, Ernesto Galli della Loggia, Alberto Asor Rossa – stanno due termini più uno: la tradizione umanistica, la tradizione italiana e, terzo, l’incrocio tra le prime due. Gran parte della discussione anche vivace suscitata dal testo, apparso sulla rivista Il Mulino, ha riguardato quasi soltanto il primo termine. Così, se gli autori scrivono preoccupati che si profila un tempo in cui più nessuno saprà chi mai sia stato Plinio (ma già oggi quanti lo sanno?), è all’intera sorte della civiltà greco-latina, mediata dall’umanesimo italiano ed europeo, che pensano. Non credo però in chiave meramente conservativa, se ciò che rivendicano è il nesso costitutivo col futuro che così si mantiene: c’è infatti un futuro solo per chi ha un passato, è vero. Ma è vero anche il contrario: c’è passato solo per chi ha futuro, e può dunque mediare e tradurre la propria eredità in nuovi contesti di senso. Il guaio è che, in Italia (e siamo al secondo termine), uno dei luoghi fondamentali di quella mediazione, cioè il sistema dell’insegnamento e della ricerca, è in condizioni critiche. Per gli autori, a risentirne sono soprattutto le scienze umane, passate sulla lama di criteri di valutazione che ne mortificano le specificità, ma più in generale è il bilancio delle trasformazioni subite dall’università italiana negli ultimi quindici anni che suona, nel suo complesso, negativo. Ben venga dunque un appello che quel bilancio chiede, perlomeno, di farlo.

Il nocciolo del problema è però in quel terzo termine, che ha un nome e un luogo preciso: la politica e lo Stato italiano. La crisi dei saperi umanistici porta infatti con sé, in Italia, la crisi della politica, dal momento che di quei saperi è costituito nel nostro Paese il linguaggio stesso della politica. Questo è il nodo cruciale, la tesi su cui pensare, dibattere, prendere posizione. E invece quanti, e sono tanti, si sono affrettati a lamentare il carattere o il tono «passatista» dell’appello – un’idea di cultura umanistica come luogo di memoria e di identità da mettere al riparo dal progresso tecno-scientifico, dalle forze anonime del mercato, dall’aggressione della lingua inglese – non hanno detto una parola sull’epicentro di questa crisi, cioè sulla politica. E, purtroppo, si può fare la figura di essere moderni, al passo coi tempi e con le nuove generazioni ma rimanere ciononostante in posizione di subalternità: rivendicare la propria nicchia di internazionalità non significa ancora, infatti, avere un progetto culturale e una visione politica per il Paese intero. E, al momento, all’orizzonte non si vede affatto chi mai una tale visione davvero ce l’abbia.

(Il Messaggero, 5 gennaio 2014)