Archivi del giorno: gennaio 9, 2014

Israele e Palestina? Due Stati: anzi, neppure uno

ImageLa grammatica politica della modernità, alla quale ancora apparteniamo, poggia su pochi concetti fondamentali: il popolo e la nazione, la sovranità e lo Stato, l’individuo e il cittadino.  Altre figure fanno la loro comparsa nel corso del tempo: la persona, ad esempio, oppure la classe, o il partito, modificando ma non compromettendo le relazioni fondamentali che si stabiliscono tra quei primi elementi. Ora, la tesi fondamentale del nuovo, prezioso libro della filosofa Donatella Di Cesare (Israele. Terra, ritorno, anarchia, Bollati Boringhieri) è che l’esistenza dello Stato di Israele non si lascia comprendere dentro quel plesso concettuale.  Il libro corre lungo due linee principali: la vicenda storica del sionismo e il suo rapporto con la nuova entità statale nata dopo la seconda guerra mondiale, da una parte; dall’altra, i fondamenti teorici di una politica pensata a partire da ciò che grazie al pensiero ebraico del ‘900 – Martin Buber, Gustav Landauer e Emmanuel Lévinas, sopratutto – eccede il perimetro della politica moderna. La data decisiva, intorno a cui tutto ruota, è proprio il ’48, l’atto di nascita di Israele: dopo quella data, ad essere “patria tra le nazioni” non è più il singolo ebreo, come era stato fino ad allora – e fino all’immane eccidio della Shoah –, ma lo stesso Stato di Israele, la cui posizione nel consesso internazionale rimane controversa (e da parte araba contestata in radice, fino a negarne l’esistenza stessa). Il ritorno degli ebrei nella terra promessa non spegne però la singolarità di una vicenda storica e messianica, che la Di Cesare si rifiuta di declinare come eccezionalità (che è solo l’opposto della sua reiezione). Questa singolarità è piuttosto un’alterità, un essere stranieri nella propria patria, sulla propria terra che può – anzi, deve – aiutare la politica occidentale a liberarsi della sua fascinazione per l’identità e le radici, e dalla sua letale statolatria, rivelatasi una volta per tutte dentro il recinto di Auschwitz. Sul suo fondamento è possibile anche proporre una diversa considerazione del conflitto arabo-israeliano, che non può per la Di Cesare trovare soluzione nella costituzione di due Stati per le due nazioni, israeliana e palestinese, quanto piuttosto nella disarticolazione della equivalenza nazione-Stato, e nell’oltrepassamento an-archico dell’idea stessa dello Stato. Ricollegandosi infine alla tradizione del socialismo utopico, contro il socialismo “scientifico” di Marx, Donatella Di Cesare disegna la figura di una cittadinanza aperta, ospitale, sganciata dalle chiusure mortifere del territorio e dello Stato, e i lineamenti teorici di un pensiero ebraico della giustizia che rifiuta radicalmente il momento machiavelliano del pensiero moderno: nessun fine giustifica i mezzi, e nessun mezzo violento consente mai di raggiungere un fine giusto.

(Il Mattino, 9 gennaio 2014)

Appello degli intellettuali: difendiamo l’umanesimo

ImageAl centro dell’allarmato appello in difesa dei saperi umanistici promosso da tre intellettuali di diversa formazione e cultura politica – Roberto Esposito, Ernesto Galli della Loggia, Alberto Asor Rossa – stanno due termini più uno: la tradizione umanistica, la tradizione italiana e, terzo, l’incrocio tra le prime due. Gran parte della discussione anche vivace suscitata dal testo, apparso sulla rivista Il Mulino, ha riguardato quasi soltanto il primo termine. Così, se gli autori scrivono preoccupati che si profila un tempo in cui più nessuno saprà chi mai sia stato Plinio (ma già oggi quanti lo sanno?), è all’intera sorte della civiltà greco-latina, mediata dall’umanesimo italiano ed europeo, che pensano. Non credo però in chiave meramente conservativa, se ciò che rivendicano è il nesso costitutivo col futuro che così si mantiene: c’è infatti un futuro solo per chi ha un passato, è vero. Ma è vero anche il contrario: c’è passato solo per chi ha futuro, e può dunque mediare e tradurre la propria eredità in nuovi contesti di senso. Il guaio è che, in Italia (e siamo al secondo termine), uno dei luoghi fondamentali di quella mediazione, cioè il sistema dell’insegnamento e della ricerca, è in condizioni critiche. Per gli autori, a risentirne sono soprattutto le scienze umane, passate sulla lama di criteri di valutazione che ne mortificano le specificità, ma più in generale è il bilancio delle trasformazioni subite dall’università italiana negli ultimi quindici anni che suona, nel suo complesso, negativo. Ben venga dunque un appello che quel bilancio chiede, perlomeno, di farlo.

Il nocciolo del problema è però in quel terzo termine, che ha un nome e un luogo preciso: la politica e lo Stato italiano. La crisi dei saperi umanistici porta infatti con sé, in Italia, la crisi della politica, dal momento che di quei saperi è costituito nel nostro Paese il linguaggio stesso della politica. Questo è il nodo cruciale, la tesi su cui pensare, dibattere, prendere posizione. E invece quanti, e sono tanti, si sono affrettati a lamentare il carattere o il tono «passatista» dell’appello – un’idea di cultura umanistica come luogo di memoria e di identità da mettere al riparo dal progresso tecno-scientifico, dalle forze anonime del mercato, dall’aggressione della lingua inglese – non hanno detto una parola sull’epicentro di questa crisi, cioè sulla politica. E, purtroppo, si può fare la figura di essere moderni, al passo coi tempi e con le nuove generazioni ma rimanere ciononostante in posizione di subalternità: rivendicare la propria nicchia di internazionalità non significa ancora, infatti, avere un progetto culturale e una visione politica per il Paese intero. E, al momento, all’orizzonte non si vede affatto chi mai una tale visione davvero ce l’abbia.

(Il Messaggero, 5 gennaio 2014)