Archivi del giorno: gennaio 16, 2014

Il vero volto del Carroccio

ImageL’incontro fra il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, e la leader del Front National, Marine Le Pen, fuga ogni dubbio: le contestazioni all’indirizzo del ministro Cecile Kyenge non possono essere derubricate alla voce folclore padano, ma definiscono una piattaforma  politica. Anti-euro, ma soprattutto anti-immigrazione e xenofoba. Roberto Maroni, che è stato ministro dell’interno ed è attualmente presidente della regione Lombardia, prova, con massicce dosi di ipocrisia, a negare che vi sia del razzismo nelle posizioni della Lega: si tratta solo di critiche, dice, come se si potesse criticare il colore della pelle o la semplice presenza di un ministro di colore nel governo italiano. In attesa dunque di conoscere la definizione di razzismo di Roberto Maroni o di Flavio Tosi, cioè del volto gentile della Lega, e di capire come possa essere ristretta a tal punto da non includervi gli apprezzamenti riservati al ministro per la «negritudine», occorre comunque prendere atto del nuovo corso impresso con decisione alla Lega dal segretario Matteo Salvini. Il quale Salvini, a proposito della pubblicazione da parte del giornale La Padania, dell’agenda di appuntamenti del ministro per l’integrazione, ha a sua volta negato che l’iniziativa avesse un significato intimidatorio: «mica abbiamo scritto di andarla a picchiare», ha dichiarato, lasciando nel lettore il dubbio se stesse negando o più sottilmente denegando, così di fatto indicando il possibile passo successivo nell’escalation di attacchi indirizzati al ministro.

Che forse sono effettivamente destinati ad aumentare con l’inizio della campagna per le Europee. Ma questo non significa che bastino i timori o le aspettative per il voto di giugno del neo-segretario, chiamato a rilanciare la Lega dopo la fine dell’era Bossi e l’interregno di Maroni, per ridimensionare le preoccupazioni che simili atteggiamenti suscitano. È vero infatti che la Lega non ha mai mancato di alzare i toni, in simili circostanze, ma è vero anche che il passaggio dal populismo becero al razzismo dichiarato nell’avversione nei confronti dell’«altro», del «diverso», dello «straniero», non è così lontano dall’essere compiuto. E c’è il rischio che ben prima dei dirigenti politici, che scherzano con la materia cercando di lucrare a fini elettorali, sia l’elettorato della Lega a far propri comportamenti razzisti violenti e discriminatori. Francamente, non è un azzardo che possiamo permetterci.

E invece Salvini incontra Marine Le Pen, e la Padania fa l’elenco dei luoghi dove appostarsi per incontrare Cecile Kyenge. E il partito e il giornale della Lega accampano la libertà di opinione, la libertà di stampa, e mandano alti lai contro la censura e gridano al sequestro preventivo: non hanno mica detto che occorre impartire una punizione esemplare a questi stranieri che insozzano il suolo patrio, loro. E così, sempre non dicendo questo o quello, fomentano l’odio, alimentano l’intolleranza, minacciano la democrazia.

Quel che invece è da dire con forza è che c’è certamente un’Italia moderna, civile, aperta, rispettosa ed anzi amante delle differenze, che è pronta per un dibattito maturo e sereno sui temi dell’integrazione e per introdurre finalmente nella legislazione italiana una legge avanzata sullo ius soli, che allinei il paese alle più significative esperienze dei paesi occidentali. Questo è da dire, e da fare. Non minimizzare o prendere sotto gamba, perché la diffusione di movimenti razzisti e xenofobi nell’Europa di oggi, nonostante le terribili lezioni del passato, è un dato di realtà, che va contrastato con la massima fermezza. Finché infatti i venti di crisi continueranno a soffiare, sappiamo purtroppo – per la terribile esperienza che ha conosciuto l’Europa nel Novecento – che la risposta progressista non è affatto scontata, ma va anzi conquistata e difesa. E dunque: Matteo Salvini incontri pure Marine Le Pen; noi però non facciamo mancare al paese l’incontro con i socialisti e democratici europei.

(L’Unità, 16 gennaio 2014)

Valérie: umiliata davanti alla Francia

ImageSiccome la distinzione fra pubblico e privato è un pilastro fondamentale della civiltà giuridica e politica moderna si capisce che venga evocata tutte le volte che si ritiene che sia minacciata. La privacy è un bene prezioso, la cui tutela è tanto più importante quanto più aumenta la possibilità e la disponibilità tecnica e sociale di investirla di attenzione ed evidenza pubbliche. Che però le scorribande in motocicletta del presidente della Repubblica francese e le sue incursioni in appartamenti di dubbia proprietà suscitino l’interessa della stampa e dei media rientra perfettamente in ciò che l’opinione pubblica transalpina ha il diritto di sapere. Il presidente Hollande non è ovviamente tenuto a spiegare i suoi sentimenti in pubblico: può amare tutte le donne che vuole, tradirle o essere loro fedele; ma non può evitare che i suoi comportamenti prendano una rilevanza più ampia delle vicende sentimentali di ogni altro cittadino francese, per il fatto che investono un personaggio pubblico e contribuiscono a descriverne la condotta. Non sono solo in gioco questioni di sicurezza, sebbene il fotografo che lo ha immortalato con il casco prima che sparisse in un garage abbia notato la preoccupante assenza di qualsiasi misura di protezione. Sta anche il fatto che la stessa costruzione dei personaggi pubblici richiede sempre più spesso inserti di vita privata: Nel caso dell’Eliseo: come trascurare il fatto che lo stesso Hollande non ha mancato in passato di sfruttare a suo favore i narcisismi sentimentali del predecessore Sarkozy? E come sorvolare sugli sforzi compiuti nel corso degli anni nella costruzione della figura della «première dame», che non è certo una personalità costituzionalmente profilata, in Francia o altrove, ma concorre all’immagine pubblica del Capo dello Stato in un numero sempre maggiore di paesi, determinandone almeno in parte le fortune politiche? La dottrina in materia, d’altra parte, è costante: il diritto alla privacy è attenuato in ragione del rilievo pubblico della persona. Hollande ha perciò ragione di trovare «dolorosa» non solo la vicenda personale che lo riguarda, ma anche il clamore che suscita, ma è quel genere di «dolore», cioè di sacrificio personale, che l’incarico da lui assunto richiede che egli sopporti. Ed è molto improbabile che non ne fosse consapevole. È improbabile, cioè, per non dire impossibile, che non considerasse lui stesso imprudente spostarsi su uno scooter per le vie della capitale, inseguendo un nuovo amore.

Dopodiché è vero: le trasformazioni della vita pubblica spostano sempre un po’ più avanti il confine della morbosità, della curiosità pruriginosa, del pettegolezzo. La vita privata finisce nella disponibilità del pubblico, di altri attori sociali, tutte le volte che le nostre preferenze private o i nostri soggettivi desideri sono catturati e usati, quando non manipolati, dal mercato così come dai mass media. E a volte ci finisce anche su una base completamente volontaria: basta guardare quanti lacerti di vite individuali finiscono nello spazio dei social network, per rendersene conto. Ma il caso di Hollande non c’entra con l’intrusività delle nuove tecnologie: c’entra invece con le debolezze di un uomo, e con il giudizio che su di esse, in democrazia, il pubblico ha il diritto di rendere.

In Italia, siamo invece alle prese con le intemperanze private ma decisamente meno romantiche del ministro dell’Agricoltura, catturate da una registrazione non autorizzata e finite poi sui giornali. Anche Nunzia De Girolamo ha chiesto il rispetto della privacy. Nel suo caso, è indubbio che una riunione privata, in un’abitazione privata, sia stata violata abusivamente. Ma un conto è la possibilità che «l’illecita captazione» sia o meno utilizzabile in sedi processuali, un altro sono i chiarimenti richiesti al ministro, per i quali farebbe male a ricorrere allo scudo inviolabile della privacy. Una cosa, insomma, sono i termini del diritto, e la circoscrizione in base ad essi degli spazi di riservatezza personale, un’altra è la sede pubblica delle ragioni, che devono sempre poter essere fornite per giustificare i propri comportamenti, quando coinvolgano – com’è questo il caso – la gestione amministrativa di un’azienda pubblica.

Certo, non succederà mai che Hollande si occupi dell’ASL di Benevento, o che la De Girolamo finisca su «Closer» per aver tradito il marito, il democratico Francesco Boccia: le due vicende sono diverse e non possono essere confuse insieme. Ma non è nemmeno il mancato rispetto della privacy la chiave che spiega l’attenzione loro riservata dall’opinione pubblica.

(Il Messaggero, 16 gennaio 2014)

San Carlo, il futuro rubato

ImageLe cifre che la Soprintendente snocciola al Mattino per raccontare la crisi del San Carlo sono eloquenti: due milioni all’anno per pensioni aggiuntive maturate versando il due per cento circa dello stipendio sono un fardello insopportabile, per il teatro. Ed è un fardello che grava da decenni, che si trasmette con la reversibilità della pensione, e che dunque nemmeno la morte estingue. Una palla al piede di cui il lirico cittadino non è riuscito e non può, allo stato, liberarsi, e che tuttavia appesantisce drammaticamente i costi di gestione. Lo scontro consumatosi nel cda, con le dimissioni di Caldoro, Cesaro, Villari e Maddaloni, e il passaggio dell’Ente sotto la vigilanza del Ministero, mette nuovamente allo scoperto una realtà con la quale è sempre più difficile fare i conti. I conti, anzi, non tornano affatto. Ora, può darsi che non sia stata una mossa indovinata la mancata adesione alle «misure di risanamento delle fondazioni lirico-sinfoniche e di rilancio del sistema nazionale musicale di eccellenza» – così recita, all’articolo 11, il decreto Valore Cultura approvato in pompa magna dal governo, l’autunno scorso. O forse lo è stata. O forse le condizioni imposte dal decreto per l’accesso al fondo messo a disposizione dal governo erano troppo punitive (e quel fondo troppo esiguo). Di sicuro, però, quello che il San Carlo si porta sul groppone dalla metà degli anni Settanta,  con le centinaia di prestazioni pensionistiche supplementari  erogate a fronte di contributi bassissimi, non ha nulla a che vedere con  i temi del decreto: la cultura, gli spettacoli dal vivo, l’eccellenza musicale. Ha a che vedere invece con la necessità di riscrivere il patto sociale su cui poggia la costituzione materiale del nostro Paese.

Questa necessità non la si riesce ad affrontare da troppo tempo: non con i governi tecnici, non con le larghe intese, e nemmeno, a quanto pare, con le piccole. E invece, in una situazione di così profonda recessione come quella che attraversa l’Italia da più di un lustro a questa parte, mettere mano alla sua forma fondamentale, al suo disegno istituzionale, alle sue regole elettorali, ed anche ai lineamenti di fondo della sua composizione sociale ed economica è indispensabile. Altrimenti non si va da nessuna parte. Di pesi, infatti, come quello che il San Carlo si porta sul dorso, sorta di meteoriti provenienti non dallo spazio, ma sì da un’altra epoca, ve ne sono parecchi, nel nostro paese, e andrebbero spazzati via. Basti pensare, per stare in argomento, alle centinaia di migliaia di baby pensionati ancora in circolazione: il quarantennale del provvedimento approvato dal governo Rumor è stato celebrato pochi giorni fa, il che ci riporta a quegli stessi anni in cui al San Carlo si aggiungevano con colpevole faciloneria gli assegni pensionistici.

 Orbene, non si tratta neppure di denunciare la profondità disparità di trattamento tra chi oggi gode di trattamenti previdenziali di così evidente favore e chi invece non sa neppure se un trattamento previdenziale ce l’avrà. Del resto, la seconda Repubblica, dal 1995 in poi, ha più volte messo mano alla riforma delle pensioni, segnando, tra molte incertezze e non poche incoerenze e iniquità, il passaggio ad un sistema retributivo che non consente più il verificarsi di simili situazioni. Resta comunque il fatto che certi diritti sono acquisiti e non è facile (e forse neppure possibile, in punta di diritto) toccarli. Ma al compito di ripensare il patto sociale su cui regge la condizione e l’esercizio effettivo di una cittadinanza democratica bisognerà pur cominciare a dedicarsi. È un compito eminentemente politico: non si tratta di semplice razionalità economica, e neppure solo di questioni di giustizia tra classi sociali o tra generazioni; è l’idea che abbiamo del nostro paese, che dobbiamo poter tracciare nelle leggi fondamentali che ne disegnano la fisionomia. C’è ovviamente una profonda differenza fra gli anni Settanta ed oggi, e non è affatto (o soltanto) la differenza fra le vacche grasse di allora e le vacche magre, anzi ormai inscheletrite, di oggi. O fra l’epoca dei grandi politici di massa e delle grandi lotte sindacali, e la sempre più estesa spoliticizzazione dei rapporti sociali di oggi. E, a pensarci, il punto non è nemmeno che quegli anni non possono tornare, oppure che non possono né debbono gravare ancora sul presente. Il punto vero è che non si vede una classe dirigente in grado di pensare quella differenza, di andare cioè oltre il risentimento e l’acrimonia o, all’opposto, il lutto e la malinconia,tenendo in una mano il giudizio storico e, nell’altra, un’autentica visione politica e progettuale.

Così si mettono pezze qua e là, come sarà richiesto di fare anche per il San Carlo, e il campo rimane ingombro di detriti appartenuti ad un’altra epoca e non ancora rimossi.

(Il Mattino, 12 gennaio 2014)