La notizia c’è: Gianni Vattimo, uno dei maggiori filosofi italiani viventi, bussa alla porta di Grillo. Si capisce: a giugno si vota di nuovo per le europee, dove evidentemente il filosofo, attuale europarlamentare, si trova bene e vuole tornare. Una volta lo disse pure, citando Enrico Mattei: anche per me i partiti sono come i taxi, si prendono quando servono. Ora, se fosse soltanto un episodio di calcio-mercato (dopo tutto, è aperto fino a fine gennaio) non metterebbe conto di parlarne. Ma il fatto è che Vattimo è un pezzo significativo della filosofia italiana dell’ultimo mezzo secolo, oltre ad essere internazionalmente noto. Chi quindi volesse capire cosa è accaduto nella cultura del nostro Paese dopo il declino della tradizione storicista e l’interruzione della linea De Sanctis-Croce-Gramsci, su cui si è innestato il tronco principale della sinistra italiana, non altro dovrebbe leggere che i libri di Gianni Vattimo. Chi inoltre volesse sapere cosa mai sia stato il «pensiero debole», l’etichetta inventata da Vattimo (e da Pier Aldo Rovatti), e capirlo non con i difficili mezzi della filosofia, ma almeno della sociologia della cultura, potrebbe forse studiare con profitto, per intero, la vivace biografia del filosofo torinese, fino all’abboccamento di ieri. Perché, per il Vattimo filosofo, debole, o da indebolire, è la struttura stessa della realtà: presa così com’è (o meglio: come sembra essere), la realtà è troppo perentoria, autoritaria, e infine violenta. Presa invece alla leggera, la realtà si lascerebbe modificare, cambiare, interpretare in infiniti modi. Ricordate la tesi marxiana: finora i filosofi si sono limitati a interpretare il mondo, ora si tratta di modificarlo? Ebbene, Vattimo e l’ermeneutica filosofica contemporanea hanno mostrato che interpretare è già modificare, e dunque l’opposizione marxiana non ha motivo d’essere (per la gioia dei filosofi idealisti più disinvolti e la disperazione dei materialisti più impenitenti).
Ma i torti o le ragioni teoretiche non sono uguali ai meriti o ai demeriti culturali: grazie a Vattimo (non solo a lui, ma anzitutto a lui) pensatori fino ad allora considerati di destra, quando non schiettamente nazisti, sono divenuti sorprendentemente, sul finire degli anni Settanta, numi tutelari della sinistra: Nietzsche, Heidegger, Schmitt. Ma soprattutto il primo, Federico Nietzsche, lui stesso così ben modificabile, e assimilabile, e malleabile, da potersi rendere disponibile in edicola a prezzi popolari (lì dove invece i filosofi di solito non si vendono) e da comparire perfino nelle canzonette: vedi l’indimenticabile «Nietzsche (pronuncia: «nice») che dice? Boh, boh!» di Zucchero Fornaciari.
Vattimo ha sempre sostenuto che le sue posizioni di sinistra, e anzi di sinistra radicale, anarchico-libertaria, anticapitalista, antagonista, pacifista, antisionista e antiamericana (e pure, da ultimo, anti-Tav: il filosofo torinese non si è mai fatto risparmiare nulla) vanno a braccetto con la sua ontologia debole. Che quindi si intende: dalla parte dei deboli. La sua parabola politica è però ancora più istruttiva: c’è infatti un nesso molto evidente fra l’avversione sessantottina e post-sessantottina nei confronti del pesante e bolso partito comunista, che il giovane Vattimo condivideva con i gruppi extra-parlamentari, e la simpatia che oggi il vecchio Vattimo mostra di nutrire verso i Cinque Stelle. Il tratto comune è l’ostilità nei confronti di tutto ciò che sa di ufficialità, istituzionalità, autorità, normalità, di tutto quello che si presta ad essere descritto come facente parte di un sistema: che si tratti insomma del sistema della morale piuttosto che di quello delle leggi e dello Stato, il nietzscheanesimo di sinistra di Vattimo si troverà sempre all’opposizione. Per principio (e un po’ anche per comodità).
Perciò la notizia di oggi c’è, ma non deve stupire. Uno pensa che stia nella disinvoltura con cui Vattimo sale e scende dai taxi: ma per stigmatizzare quella, basta un articolo un po’ irridente. E invece la notizia sta nello sfarinamento della cultura di sinistra del nostro paese: per quella, c’è bisogno ahimè di una riflessione più seria.
(Il Mattino, 17 gennaio 2014)