Archivi del giorno: gennaio 28, 2014

La classe dirigente che non c’è

ImmagineDomanda: «Ma esiste una nuova classe politica nel Mezzogiorno? Esistono cento uomini d’acciaio, col cervello lucido e l’abnegazione indispensabile per lottare per una grande idea?». Risposta: no, allo stato non esistono. E così la domanda che fu posta in un’ora drammatica dal grande meridionalista irpino, Guido Dorso, risuona ancora oggi più che mai attuale: ce l’abbiamo una nuova classe politica? E se non ce l’abbiamo, ce l’avremo? E chi ce la darà: l’Italicum di Matteo Renzi? Siccome è in discussione la madre di tutte le riforme, la domanda è ineludibile: la legge elettorale che il Parlamento si appresta a votare aiuterà il Mezzogiorno a selezionare «cento uomini d’acciaio» (ma anche cinquanta, vanno bene anche cinquanta)? È singolare che in tutto questo discutere di leggi elettorali, modelli spagnoli riveduti e corretti, soglie e preferenze, premi e collegi, turni e doppi turni, una domanda sulla selezione della classe dirigente per il tramite della legge e dei partiti non si sia nemmeno posta. Che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa.

Intendiamoci: la via dello sviluppo del Mezzogiorno non passa attraverso una epocale sfida fra Orazi e Curiazi. Non basta cioè prendere una sporca dozzina di uomini per fare tutto il lavoro. L’idea di Guido Dorso, che sono le minoranze dirigenti a determinare lo svolgimento storico, non è sufficiente. Ma ciò non toglie che il problema esiste, se i vent’anni che abbiamo alle spalle difficilmente saranno archiviati come i più riusciti, dal punto di vista della leva di dirigenti, amministratori, uomini politici e di Stato che in questa stagione sono venuti alla ribalta. E questo nonostante i dirompenti referendum elettorali che inaugurarono, con la preferenza unica, la seconda Repubblica, nonostante gli homini noves che la fine dei vecchi partiti ha portato in prima fila (insieme però ad un bel po’ di personale di seconda fila), nonostante la rutilante stagione dei sindaci.

Che però continua, e non solo perché c’è ora un giovane sindaco alla guida del Pd. Nel Mezzogiorno, è ancora ai sindaci delle città maggiori che si guarda, come se non ci fosse nient’altro a cui aggrapparsi oltre le poltrone di primo cittadino. Il fatto è che l’assenza di un robusto e largo tessuto democratico, e di una società civile vigile, attenta, operosa, ha finito coll’assorbire gli elementi di novità legati alle elezioni diretta dei sindaci (e, ricordiamolo, al progressivo svuotamento dei consigli comunali), fino a che non sono riaffiorati antichi vizi, ben noti malcostumi. La personalizzazione della politica si è così rovesciata in un personalismo cocciuto e quasi es-lege, fino all’insostituibilità con cui si pretende di mantenere un doppio incarico, ministeriale e amministrativo, nonostante il palese conflitto di interessi e i pronunciamenti della magistratura (è il caso di De Luca). L’emergere di nuove soggettività, di nuovi protagonismi, fuori dei tradizionali quadri di partito, si è invece rovesciato in un radicalismo astratto e velleitario, combinato a una buona dose di incompetenza amministrativa (è il caso di De Magistris). Quanto infine all’ultimo esempio balzato agli onori della cronaca, quello di Nunzia De Girolamo, esemplifica piuttosto bene un altro processo: il consumarsi di una trama di parole, ragioni, idee, che anche solo per ipocrisia proteggeva un tempo la funzione politica, e il suo rivelarsi come mero punto di coagulo di interessi diversi, più o meno leciti, più o meno confessabili.

Se però lasciamo perdere questa o quella esemplificazione, rimane ancora da constatare l’abbondante quota di trasformismo che ha accompagnato la religione del maggioritario officiata in tutti questi anni: all’ombra dei grandi partiti (sempre meno grandi) cambi di casacca e micro-partiti hanno restituito lo spettacolo di una politica incapace non solo di produrre cambiamenti reali, ma anche di esibire buone ragioni: non solo non vediamo i primi, ma non capiamo nemmeno dove si trovino le seconde.

Molto, dunque, è rimasto incompiuto. La seconda Repubblica sorta sotto le insegne del rinnovamento è invecchiata senza aver prodotto alcuna innovazione durevole, degna di rimanere.  Ruit hora: ci apprestiamo a varare la terza, e non sappiamo ancora a quale santo votarci.

(Il Mattino, 28 gennaio 2014)

Se si batte il tempo insieme

ImmagineMa il governo: che fine fa? L’accordo raggiunto da Renzi con Berlusconi sulla legge elettorale non risolve il problema, ma anzi lo pone. E non si tratta di alimentare nuovamente sospetti sulle reali intenzioni di Renzi. Il segretario ha tagliato corto: mi accusavate di voler far cadere il governo per andare subito alle elezioni, e magari avrei pure avuto il mio tornaconto, e invece sono venuto a patti con Berlusconi per fare le riforme di cui si parla vanamente da vent’anni. Per fare la riforma istituzionale e per fare la riforma elettorale: non solo l’una o solo l’altra. E le riforme richiedono tempo. E dunque il governo deve durare almeno un altro annetto: se il disegno riformatore si compie, non c’è motivo di buttarlo giù.  Naturalmente, rimane ancora una subordinata: il percorso avviato si inceppa, e la situazione precipita subito verso le elezioni. Ma sta il fatto che per quanto forte sia l’accelerazione impressa in queste settimane, il percorso tracciato da Renzi «di persona personalmente» – come dice Agatino Catarella, l’agente del commissario Montalbano – deve pur sempre dispiegarsi in un arco temporale che il segretario vuole certo, definito, ma che, ribadiamolo, prende il suo tempo.

Di qui la domanda: nel frattempo, il governo cosa  fa? Con tutta l’attenzione mediatica che si sposta sulla segreteria del partito democratico, con l’avvio dei lavori parlamentari intorno alla legge elettorale, quali margini di azione restano al governo? Quali possibili risultati?Letta sarà anche bravissimo in politica estera, come ha detto qualche sera fa il leader del Pd: parla inglese, riceve regine e va in missione a Bruxelles; ma non è ancora il ministro degli Esteri di un governo a guida Renzi. E dunque? Delle due l’una: o il governo prova a vivacchiare nel cortile di casa nostra, galleggiando sugli umori parlamentari che variamente circoleranno in questi mesi, come un corpo quasi estraneo alla vera partita politica in corso; oppure si accorcia drasticamente la distanza fra il partito e il governo. La prima ipotesi si scontra però, innanzitutto, contro la dichiarata volontà di Letta di non rimanere a far la guardia al bidone. Il Presidente del Consiglio ha sempre detto che non sarebbe restato a Palazzo Chigi a qualunque costo, e il costo, per il paese, di uno stiracchiamento lungo un anno non sarebbe affatto un costo qualunque. In secondo luogo, sta il versante economico e sociale dell’azione di governo, quel piano di riforme a cui Renzi stesso ha alluso con il Jobs Act, rimasto però, per il momento, allo stadio di una serie di titoli. Può Renzi decidere di vivere quest’anno pericolosamente, sempre sotto i riflettori, mentre il governo a guida Pd sbriga solo l’ordinaria amministrazione? Può funzionare, per tutto il tempo che ci separa dalle prossime elezioni, o il Pd (e, va da sé, il paese) pagherebbe un prezzo assai alto per una simile condotta? Resta l’altra ipotesi, l’accorciamento delle distanze. Che difficilmente può spingersi fino all’identificazione: l’idea che Renzi possa guidare fin d’ora un nuovo governo di scopo, per un breve termine, convince poco anche come semplice suggestione. Ma il «rimpasto», concepito non per soddisfare questo o quell’appetito, spostare Tizio o promuovere Sempronio, ma per saldare i bulloni dell’esecutivo e consentire anche ad esso una corsa più spedita non è più un’evenienza improbabile. Perché, certo, Renzi è così tanto il nuovo che anche Enrico Letta sta rapidamente scivolando tra i vecchi, ma uno spettacolo del genere non tiene il cartellone per un anno intero. E non è detto che lo sketch non consumi anche il primattore, alla lunga. L’uno è rock, e l’altro è lento, direbbe Celentano. Ma allora o non ce la fanno proprio a stare insieme, oppure provano davvero a battere il tempo insieme. Almeno per un po’. 

(L’Unità, 24 gennaio 2014)