Domanda: «Ma esiste una nuova classe politica nel Mezzogiorno? Esistono cento uomini d’acciaio, col cervello lucido e l’abnegazione indispensabile per lottare per una grande idea?». Risposta: no, allo stato non esistono. E così la domanda che fu posta in un’ora drammatica dal grande meridionalista irpino, Guido Dorso, risuona ancora oggi più che mai attuale: ce l’abbiamo una nuova classe politica? E se non ce l’abbiamo, ce l’avremo? E chi ce la darà: l’Italicum di Matteo Renzi? Siccome è in discussione la madre di tutte le riforme, la domanda è ineludibile: la legge elettorale che il Parlamento si appresta a votare aiuterà il Mezzogiorno a selezionare «cento uomini d’acciaio» (ma anche cinquanta, vanno bene anche cinquanta)? È singolare che in tutto questo discutere di leggi elettorali, modelli spagnoli riveduti e corretti, soglie e preferenze, premi e collegi, turni e doppi turni, una domanda sulla selezione della classe dirigente per il tramite della legge e dei partiti non si sia nemmeno posta. Che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa.
Intendiamoci: la via dello sviluppo del Mezzogiorno non passa attraverso una epocale sfida fra Orazi e Curiazi. Non basta cioè prendere una sporca dozzina di uomini per fare tutto il lavoro. L’idea di Guido Dorso, che sono le minoranze dirigenti a determinare lo svolgimento storico, non è sufficiente. Ma ciò non toglie che il problema esiste, se i vent’anni che abbiamo alle spalle difficilmente saranno archiviati come i più riusciti, dal punto di vista della leva di dirigenti, amministratori, uomini politici e di Stato che in questa stagione sono venuti alla ribalta. E questo nonostante i dirompenti referendum elettorali che inaugurarono, con la preferenza unica, la seconda Repubblica, nonostante gli homini noves che la fine dei vecchi partiti ha portato in prima fila (insieme però ad un bel po’ di personale di seconda fila), nonostante la rutilante stagione dei sindaci.
Che però continua, e non solo perché c’è ora un giovane sindaco alla guida del Pd. Nel Mezzogiorno, è ancora ai sindaci delle città maggiori che si guarda, come se non ci fosse nient’altro a cui aggrapparsi oltre le poltrone di primo cittadino. Il fatto è che l’assenza di un robusto e largo tessuto democratico, e di una società civile vigile, attenta, operosa, ha finito coll’assorbire gli elementi di novità legati alle elezioni diretta dei sindaci (e, ricordiamolo, al progressivo svuotamento dei consigli comunali), fino a che non sono riaffiorati antichi vizi, ben noti malcostumi. La personalizzazione della politica si è così rovesciata in un personalismo cocciuto e quasi es-lege, fino all’insostituibilità con cui si pretende di mantenere un doppio incarico, ministeriale e amministrativo, nonostante il palese conflitto di interessi e i pronunciamenti della magistratura (è il caso di De Luca). L’emergere di nuove soggettività, di nuovi protagonismi, fuori dei tradizionali quadri di partito, si è invece rovesciato in un radicalismo astratto e velleitario, combinato a una buona dose di incompetenza amministrativa (è il caso di De Magistris). Quanto infine all’ultimo esempio balzato agli onori della cronaca, quello di Nunzia De Girolamo, esemplifica piuttosto bene un altro processo: il consumarsi di una trama di parole, ragioni, idee, che anche solo per ipocrisia proteggeva un tempo la funzione politica, e il suo rivelarsi come mero punto di coagulo di interessi diversi, più o meno leciti, più o meno confessabili.
Se però lasciamo perdere questa o quella esemplificazione, rimane ancora da constatare l’abbondante quota di trasformismo che ha accompagnato la religione del maggioritario officiata in tutti questi anni: all’ombra dei grandi partiti (sempre meno grandi) cambi di casacca e micro-partiti hanno restituito lo spettacolo di una politica incapace non solo di produrre cambiamenti reali, ma anche di esibire buone ragioni: non solo non vediamo i primi, ma non capiamo nemmeno dove si trovino le seconde.
Molto, dunque, è rimasto incompiuto. La seconda Repubblica sorta sotto le insegne del rinnovamento è invecchiata senza aver prodotto alcuna innovazione durevole, degna di rimanere. Ruit hora: ci apprestiamo a varare la terza, e non sappiamo ancora a quale santo votarci.
(Il Mattino, 28 gennaio 2014)