Archivi del mese: febbraio 2014

La rottamazione del populismo

ImmagineQuattro senatori a cinque stelle sono stati espulsi, al termine di una procedura che prevede l’ukase di Grillo, la conseguente riunione dei gruppi parlamentari e il voto dei militanti in Rete (che chiamo voto così come i grillini sono usi chiamarlo, chiunque detenga le chiavi di accesso al sito, chiunque stabilisca le dimensioni della platea dei votanti, chiunque verifichi gli indirizzi IP e le relative credenziali, chiunque conteggi e chiunque certifichi i conteggi). Ma la procedura non era ancora terminata, e già un quinto senatore esprimeva solidarietà e chiedeva per sé lo stesso trattamento. Altri senatori hanno poi lasciato la riunione del gruppo, alcuni di essi paiono pronti a lasciare e tutti sono sull’orlo del pianto. Intanto, sul suo blog, Grillo promettendo di «dare il sangue nelle strade», ha rispolverato la tempra del militante rivoluzionario: «noi saremo un pochino meno ma molto, molto più coesi e forti». È infatti chiaro che per lui è questione di forza, non di democrazia. Il fatto che la critica non possa trovare ospitalità all’interno del movimento la dice tutta sulla natura del movimento (e in verità la dice da tempo, visto che di espulsioni è punteggiata tutta la sua storia). Esaltando lo spirito illuministico, Immanuel Kant diceva di vivere in un tempo in cui persino il trono e l’altare dovevano accettare di essere sottoposti a discussione critica. Pensava che nemmeno alla maestà del Re e alla santità di Dio (o del Papa) dovessero essere risparmiate critiche pubbliche: è evidente che, nonostante il cielo stellato sopra di lui, non sapeva nulla di Beppe Grillo e delle sue cinque stelle, tra le quali la critica è tanto poco ammessa, che viene giudicata irricevibile anche quando si derubrica spontaneamente a cazzata, come ha fatto ieri il senatore Battista in una video-testimonianza riversata in rete a propria discolpa: «È possibile che quattro senatori vengano espulsi per il reato di cazzata? Se fosse così quanti altri parlamentari del Movimento Cinque Stelle avrebbero dovuto espellere?». Effettivamente: non lo sappiamo. Il numero di quelli che sono sul punto di lasciare è però in crescita, e forse non dipende solo dal fatto che «questi qua» – come si è sentito urlare ieri da parte dei dissidenti – «sono peggio dei fascisti». Forse c’è dell’altro. Forse si percepisce che una fase nuova può aprirsi, e che rimanere nel novero dei rivoluzionari duri e puri non porta da nessuna parte.

Fare un nuovo gruppo può invece portare da qualche altra parte. I grillini dissenzienti si guardano bene da confermare voci di contatti, di intese in Parlamento e disponibilità a future alleanze, ed è probabile che, allo stato, non vi sia ancora nulla del genere. Ma lo scenario politico è sicuramente in movimento. Le ragioni principali  sono due: una è il fattore Renzi. Del quale si potrà dire quel che si vuole, ma non si potrà non riconoscere l’accelerazione che ha impresso alla vicenda politica del Paese. Renzi ha bisogno di «cambiare verso», e di mostrare tangibilmente che il verso sta cambiando davvero: tutta la retorica grillina sul sistema marcio e irriformabile rischia di finire rottamata, se qualche segnale di cambiamento arriva davvero agli italiani.

L’altra ragione è il fattore tempo. La logica da militanza rivoluzionaria che Grillo impone al movimento funziona infatti nei tempi brevi: persino i primi cristiani, che di fede dovevano averne, avevano tuttavia bisogno di pensare che l’apocalisse era vicina, per sopportare il peso del martirio. Allungatisi i tempi, qualcosa mutò nella loro fede, che restò sempre sostanza di cose sperate, ma dovette rinunciare all’immediata soddisfazione terrena. Quello che sperano i grillini ortodossi (c’è infatti un’ortodossia, così come ci sono eresie e, probabilmente, scismi) è che davvero «viene l’ora ed è adesso». O, al massimo, che l’appuntamento decisivo e finale sia fissato per la prossima, ormai imminente campagna per le Europee. Ma se i tempi si allungano, se si va al 2018, se si completa la legislatura, se Renzi comincia davvero a governare e qualche riforma la porta a casa, anche la fede grillina, anche il fervore rivoluzionario pentastellato sarà costretto a mutare indirizzo.

Ebbene, in mezzo a molte promesse che attendono di essere verificate, una cosa l’ha detta chiara Renzi: il suo è un governo politico. L’impasse è finita, le supplenze sono finite, i governi di necessità pure: i tempi potrebbero davvero allungarsi. Si compiranno delle scelte, e si verrà giudicati per quelle. Tra i grillini c’è qualcuno che vorrebbe assaporare il sapore delle scelte, cominciare a fare politica entro il nuovo orizzonte temporale e non aspettare l’Armageddon. Ma dentro il movimento questo non si può fare.

(Il Mattino, 27 febbraio 2014)

Cambiare in corsa: la scommessa di Renzi

ImmagineSe si fossero trovate allineati nella casella di partenza una nuova maggioranza, un nuovo Parlamento, un nuovo Presidente del Consiglio, un nuovo programma, sarebbe stato più semplice: per tutti. Non è andata così. E non poteva andare così, nelle condizioni date.  Ma al nuovo giro che comincia oggi, è un fatto che Renzi parte due passi avanti rispetto a tutto il resto. Per l’investimento politico in cui è impegnato: lui e con lui tutto il partito democratico, non certo per le mani in tasca al Senato o per il computer tenuto in bella mostra ieri, alla Camera, sul banco del governo.

Questi aspetti del personaggio dicono però che una ventata di novità ha investito la politica italiana: in replica alla Camera, Renzi ha parlato ancora a braccio, ma ha impiegato un buon quarto d’ora, e speso parole assai intense, per celebrare la sacralità del luogo. Dunque: non si è trattato di irriverenza o di semplice noncuranza. Anzi: nonostante lo sfoggio di capacità multitasking del premier, che porta il pc in aula, legge, twitta, beve il caffè e ascolta il dibattito contemporaneamente (e chi non lo fa, oggi, se è costretto a riunioni lunghe sei ore e mezza, tanto quanto la discussione parlamentare?) proprio non è sembrato che l’Aula che aveva davanti fosse per lui sorda e grigia. Nessun pericolo per la democrazia, dunque. Si è trattato anzi di un tentativo di rappresentarla, anzi quasi di viverla, in maniera che riuscisse comprensibile, moderna, vera e reale. In questo tentativo, non tutto – com’è ovvio – funziona allo stesso modo, e proprio l’intervento di ieri alla Camera dimostra la velocità con cui Renzi è capace di correggere il tiro. Al Senato aveva infatti risposto alle critiche di chi lamentava la vaghezza delle sue parole, e la mancanza di questo o quel pezzo del programma, obiettando che non sono certo le parole che servono, bensì i fatti. Ora, se in quella sede non avesse tenuto un discorso di sessantotto minuti, forse questa replica sarebbe apparsa più convincente. O forse nemmeno in questo caso, dal momento che non sarebbe convincente neanche il prete che dal pulpito saltasse l’omelia domenicale perché quelle che contano non sono le prediche ma soltanto le opere di bene. Passando però alla Camera Renzi ha tenuto un discorso più contenuto, e soprattutto più composto, persino più gonfio di sana retorica, ma proprio per questo più conveniente al luogo e alla circostanza. E il governo ha potuto prendere il largo.

Come la nave di Teseo. Della trireme guidata dall’eroe ateniese ci racconta infatti Plutarco che  si dovettero sostituire tutte le assi e le vele e i chiodi, e i filosofi non smettevano di discutere se allora, pur essendo cambiati tutti i pezzi, si potesse dire che l’imbarcazione fosse rimasta la stessa. Il fatto è che a prestare un’identità alla nave erano il nome, la missione, il viaggio: così anche Renzi non sembra temere di cambiare in corsa, o forse persino le carte in tavola (e questo sarà forse un problema per Alfano e il Nuovo Centro Destra, alle prese con lo spauracchio di Berlusconi), mantenendo però l’identità del suo governo in forza di un investimento, di una scommessa squisitamente politica.

Che ieri è risuonata più volte, specie nel rivolgersi ai grillini (apparsi come la vera forza a cui Renzi vuole sottrarre consensi nel paese): voi siete quelli che non conoscono la democrazia interna, noi siamo quelli che credono nella democrazia; voi siete quelli che disprezzano la politica, noi siamo quelli che ci credono ancora; voi siete quelli che considerano irriformabile il sistema, noi siamo quelli che provano a fare, da subito, la riforma elettorale e quella istituzionale; voi siete quelli che danno la colpa all’Europa, noi siamo quelli che citano Spinelli e considerano l’Europa una «straordinaria opportunità» e puntano sul semestre europeo per ridefinire compiti ruoli e responsabilità dell’Italia nel contesto internazionale.

Poi Renzi ha aggiunto: basta? No che non basta. E in effetti non basta. I termini del programma economico e sociale di Renzi attendono di essere molto meglio definiti: scuola, cuneo fiscale, riforma del lavoro, riforma della pubblica amministrazione, strumenti per la crescita sono titoli generali, che il governo e il Parlamento devono ancora riempire di contenuti. Ma da quel che s’è visto Renzi ha la capacità di cambiare qualche pezzo, di sostituire un remo o una trave, se non funziona, e tuttavia di tenere la rotta. O almeno di provarci: questo è l’impegno che ha assunto. E la navigazione è appena cominciata.

(L’Unità, 27 febbraio 2014)

Rocco Hunt, il rap che scalda il cuore

ImmagineQualcuno che prima o poi dedicasse una canzone «ai pisciaiuoli e ai fruttaioli» ci doveva pur essere. E un genere musicale in cui si può scrivere per «mio zio ca si scet’ ‘a matina» e per «Gennar ca avut’ o’ criaturo»: pure quello ci doveva essere.  Ci doveva essere e c’è: è a Sanremo, l’autore si chiama Rocco Pagliarulo, in arte Rocco Hunt, ha solo diciannove anni e con il suo rap, «Nu juorno buono», sta descrivendo un pezzo di società meridionale che in televisione non ci finisce spesso, e neppure nei dischi. E prova pure a restituirgli un po’ di orgoglio: «Questo posto non deve morire/ La mia gene non deve partire/Il mio accento si deve sentire». E si sente, e come se si sente l’accento, anche se nell’esibizione all’Ariston lo ha un po’ smorzato, facendo del dialetto un uso più moderato di quanto il testo della sua canzone prevedesse. Ma ci sta: «competition is competition» e Rocco Hunt voleva vincere. Non gli bastava andare a Sanremo, voleva pure vincere la gara. Anzi, per la verità, l’una e l’altra cosa lui le voleva fare per gli amici, per la mamma, per i genitori, presenti in sala e pronti ad applaudirlo insieme a tutta la sua città, Salerno. E nel quartiere di Pastena, il più popoloso, per lui hanno allestito i maxischermi, votato e fatto il tifo. Forse il rap americano suona più aspro e duro, più maleducato, ma è anche vero che lì non hanno la terra del sole da opporre alla terra dei fuochi.

Ora, non è che Rocco Hunt abbia letto «Ferito a morte» di La Capria e abbia deciso di mettere in versi il mito della bella giornata. Non è che le parole della sua canzone rivelino un precoce talento letterario o una acuta coscienza politica. Non si tratta nemmeno di esaltare l’autenticità del ragazzo. Quella, peraltro, è indubbia e non può non essere apprezzata. Ma ciò non toglie che Rocco Hunt ha in programma un disco con la Sony, che dovrebbe arrivare nell’anno in corso, anche grazie all’esperienza sanremese: e questa è sicuramente, per Rocco, un’ottima notizia, ma è anche un indice del fatto che la genuinità è compatibile con le ferree esigenze dell’industria discografica. Si potrebbe dire che le cose non sono molto diverse da come andarono negli anni Ottanta con un altro prodotto di periferia: l’Eros Ramazzotti che da ragazzo romano di borgata vinse tra i giovani, per divenire poi una star internazionale, sposare una ragazza svizzera e prendere il volo nel firmamento della musica pop. O con Laura Pausini, la ragazza emiliana che ancora oggi, divenuta a sua volta una star, parla con commozione della cucina della sua terra.

Ma non è questo il punto: Rocco Hunt è bravo, il suo rap funziona, e lui farà la strada che farà, e non gli si può non augurare che sia la più lunga e luminosa possibile. Il punto è invece che Rocco ha già il merito di aver provato a far sentire le voci così poco ascoltate di un rione popolare, i pisciaiuoli e i fruttaioli che gridano tra i banchi di un mercato, un senso di appartenenza e di comunità che scalda il cuore. Perché non finisce necessariamente in oleografia, non rimane confinato nei circuiti della canzone dialettale, e non corregge la rappresentazione della realtà meridionale per avere il permesso di salire sul palco della canzone italiana.

E poi oggi nasce il nuovo governo: non lo vedete il nesso? Se non lo vedete è un problema non di Rocco o del suo «juorno buono» ma del giorno del nuovo governo, della politica italiana, e della sua capacità di farsi capire dal Paese. Parliamo sulle colonne di questo giornale tutti i giorni di Mezzogiorno, ne vediamo e denunciamo tutti i limiti, le arretratezze, le inefficienze. Però non possiamo non chiederci se meriti un po’ più di rispetto, e di attenzione. Sul Sud, attendiamo allora anche Renzi alla prova dei fatti, decisi, almeno fintanto che non darà qualche segnale, ad ascoltare ancora il rap di Rocco Hunt. Lì c’è effettivamente un’aria un po’ diversa e l’orgoglio di dire che, anche se mancano il lavoro e le aziende, «’sta matina nun ce’ manca niente».

(Il Mattino, 22 febbraio 2014)

Il sogno della buona politica

ImmagineHo fatto un sogno. E benché siamo inclini a pensare che i sogni riflettano quasi soltanto esperienze personali, l’antropologia si interroga da tempo, non senza profitto, sulla natura pubblica dei sogni; perciò non sarà forse inutile che lo racconti qui. Nel mio sogno, Matteo Renzi recitava continuamente a se stesso, come un mantra incantatorio, l’articolo novantacinque della Costituzione, primo comma: «Il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile». Chiunque incontrasse, complice forse la sua «smisurata ambizione», non faceva altro che ribadire che il responsabile è lui. E la cosa faceva un certo effetto, almeno nel mio sogno, quasi che dell’articolo se ne fosse persa la memoria. Perciò Renzi andava al bar e sciorinava l’articolo; riceveva i partiti e faceva lo stesso; andava in Europa e non ripeteva altro. Poi però succedeva – nel sogno, dico – che qualcuno chissà come gli ricordava che però un altro articolo affida al Presidente della Repubblica il potere di nomina dei ministri. E lui, come se appena l’avesse ascoltato, prendeva allora a ripetere ossessivamente: «su mia proposta, però, su mia proposta!» e subito la scena cambiava – come accade nei sogni –, e il presidente incaricato me lo vedevo sventolare fogli e foglietti con su scritte le sue proposte. E le sventolava dappertutto, ai giornalisti, agli amici, ai confidenti: a quelli bene intenzionati e pure ai male intenzionati. A tutti, invariabilmente, Renzi aveva da proporre la stessa cosa: solo nomi autorevoli, ma di un’autorevolezza nuova, che quasi non s’era sentita prima. Io stesso nel sogno mi pare che fossi alquanto sconcertato: questo nome non lo trovo tra gli ospiti fissi di un salotto televisivo, mi sorprendevo a pensare; quest’altro deve essere persona di grande qualità, ma non è la firma di nessun giornale quotidiano; quest’altro ancora non è per nulla telegenico, e poi non mi ricordo che abbia mai preso in prestito una metafora dal mondo del calcio, come invece usa fare. Sono italiani, esultava però Renzi nel mio sogno, e li ho trovati io! Li ho portati io al governo senza farmeli suggerire da giornali e tv! E intorno a lui lo staff affollato dei comunicatori sudava freddo e si chiedeva smarrito se almeno sapessero twittare, tutti questi nuovi ministri che Renzi voleva portare nel governo. Perché lui stesso, nel sogno, non è che avesse d’improvviso perso la capacità di scrivere un twit: diretto, efficace, arguto. Ma gli è che ci si era tutti un po’ stufati di questa benedetta arguzia: così la si lasciava agli altri, ai collaboratori, oppure a Grillo, che a far battute rimaneva il più bravo anche nel mio sogno, ma i ministri non li si sceglieva secondo l’indice di popolarità, ma per quello che sapevano fare per davvero.

Se costoro sanno fare sono dei tecnici, pensavo allora, contento di aver trovato finalmente come etichettare il nuovo titolare degli Esteri, o dell’Economia, o della Cultura. E invece no! Renzi nel sogno non finiva di sorprendermi, e tirava fuori un ragionamento che fatico a ricordare, ma che più o meno andava così: vedi, se alla Salute non ci metto un dottore, o alla Difesa un generale, non è che all’Economia ci deve andare per forza un economista. Io, nel sogno, sbigottivo: questa cosa che all’economia potesse non andarci un economista non l’avevo mai pensata, erano almeno vent’anni che non mi veniva a mente, e così mi chiedevo smarrito se non fosse per colpa dello spiritaccio dei toscani, che Renzi la faceva così facile. E tutto mi vacillava intorno – come a volte capita, nei sogni – e mi chiedevo stordito chi mai potesse andarci allora, se non un economista, se non un tecnico plurilaureato: uno cioè che fosse competentissimo e autorevolissimo e rigorosissimo. E Renzi, sancta simplicitas!, mi sorrideva accattivante e mi diceva: ma è ovvio, un politico. Vedi, mi faceva, l’azione del governo è un’azione politica (ricordi l’articolo 95?), e per compiere un’azione politica c’è poco da fare: ci vuole un politico. Semplice, no? Quanto all’autorevolezza: lo so che ti suona strano, ma quella gli viene proprio dal fatto che è un politico, il che vuol dire ad un tempo: uno che fa quel che fa in autonomia, in quanto rappresentante del popolo, e uno che lo fa perché sceglie, perché decide, perché si prende le sue brave responsabilità, e non già perché non può non farlo, o perché lo chiedono i mercati, o le agenzie di rating, o l’Europa. Che poi, se non c’è la politica, concludeva Renzi, non ti accorgi che l’Europa e le agenzie di rating finiscono per chiedere le stesse cose? E questo, almeno nel mio sogno, voleva proprio dire che qualcosa non andava per il verso giusto.

Però i sogni finiscono all’alba, e al risveglio non tutto fila liscio come nel sogno. Questo mio sogno poi è finito ancora prima, per poter andare in stampa. E così mi sono chiesto, svegliandomi, quanto tempo restasse ancora della notte.

(Il Mattino, 21 febbraio 2014)

Perché non credere al Sud cattivo

ImmagineC’è un paragrafo del libro di Vittorio Daniele e Paolo Malanima su «Il divario Nord-Sud in Italia», apparso nel 2011, al quale conviene forse tornare, ora che la discussione si è riaccesa grazie ad un altro libro, «Perché il Sud è rimasto indietro», dello storico dell’economia Emanuele Felice. Libro, quest’ulimo, che viene peraltro dopo quelli di Luca Ricolfi e di Stella e Rizzo, per limitarsi solo agli ultimi prodotti editoriali che provano a consolidare una precisa narrazione (una volta si diceva ideologia) intorno al Mezzogiorno e alla questione meridionale.  Nel libro di Felice questa narrazione prende la forma di una tesi, presentata in forma equivoca e senza troppe sfumature: non c’è bisogno di cercare chissà dove per trovare i motivi della profonda differenza fra Sud e Nord, perché quella causa è da rintracciarsi non altrove che nel Sud medesimo, e innanzitutto nella inadeguatezza delle sue classi dirigenti, nelle sue responsabilità storiche e politiche, nei suoi misfatti, reiterati nel corso dei decenni e anzi dei secoli. Con in più l’aggravante che, ormai, il problema è cresciuto di dimensione, e il declino dell’intero Paese dipende essenzialmente dall’incapacità del Sud d’Italia di tenere i comportamenti virtuosi propri del resto del Paese. Qualunque discorso che sposti dunque l’attenzione sullo Stato unitario e sulle scelte compiute dall’unità d’Italia in poi dal ceto politico nazionale viene considerato, in quest’ottica, colpevolmente auto-assolutorio: parte perciò di quella stessa colpa che il Sud porta con sé praticamente da sempre.

Ora, non c’è bisogno di scomodare Benedetto Croce per ripetere ancora una volta che la storia è storia contemporanea: non si rimette mano alla questione meridionale e alle sue cause lontane o vicine – e soprattutto non si torna a discuterne sulle pagine dei giornali quotidiani – se non per rianimare il dibattito politico, ed eventualmente orientarne le scelte fondamentali. Lo si vede bene leggendo ad esempio Luca Ricolfi, che sulle pagine del Corriere del Mezzogiorno (e nel suo libro di prossima uscita) non manca di indicare la madre di tutte le soluzioni. Se infatti nel Mezzogiorno si spende poco, perché i fondi europei rimangono largamente sottoutilizzati, e si spende male, perché quel poco che si spende non sortisce alcun effetto concreto, l’unica è che lo Stato «batta in ritirata» e smetta di drogare la società meridionale alimentando parassitismo, clientelismo, assistenzialismo. Va da sé che prendere le distanze dallo shock liberista e meritocratico di Ricolfi non significa stare dalla parte dei parassiti, delle clientele o dei fannulloni: eppure si fa fatica, ormai, a far valere questa semplice distinzione. Chiedersi se la questione meridionale non debba essere riportata al centro delle politiche nazionali (dei suoi impegni di spesa e delle sue politiche sugli investimenti) diviene infatti in automatico, nella narrazione oggi imperante, un modo surrettizio per alimentare gli antichi vizi e le antiche corruttele.

Il libro di Emanuele Felice torna utile allo scopo. Pare infatti funzionare così. Premessa prima: il nodo è la cattiva qualità delle classi dirigenti meridionali in un quadro politico e istituzionale arretrato; premessa seconda: l’intervento pubblico – nazionale o sovranazionale – non fa che alimentare quella classe dirigente incapace e corrotta; conclusione: perpetuarlo significa aggravare il male, piuttosto che curarlo.

A ben vedere, il discorso di Felice può in realtà essere volto piuttosto a smorzare certe sirene che si sono ascoltate negli ultimi anni: una è il pensiero meridiano di Franco Cassano, e in genere quei discorsi che rifiutano di applicare alle condizioni del Sud d’Italia le categorie dell’arretratezza, della convergenza o del sottosviluppo, per il motivo che esse sembrano supporre standard di sviluppo e di civiltà confacenti ad altre società, ad altri contesti sociali e antropologici. Un’altra è il pensiero neoborbonico, che prova a rappresentare le condizioni del Sud d’Italia in termini tali, che tutto nel processo di unificazione avrebbe significato per il Mezzogiorno una perdita secca (o un immiserimento, o uno sfruttamento).

Ma in verità non c’è bisogno di ascoltare né l’una né l’altra sirena per prendere qualche distanza dallo schema proposto da Emanuele Felice. Basta tornare a quel paragrafo del libro sopra ricordato di Daniele e Malanima (e ripreso ieri su questo giornale con grande dovizia da Marco Esposito). Il paragrafo s’intitola «Le cause delle cause» e sta nella sezione finale dell’ultimo capitolo della loro ricerca, dedicato a «Società, istituzioni, geografia». Tutto il libro contiene una preziosa raccolta di dati, prevalentemente quantitativi, sull’economia del Mezzogiorno nei 150 anni dell’Unità d’Italia. Sui cambiamenti nella produzione, nel lavoro, nella produttività delle diverse aree del Paese. Dopodiché si giunge a quel paragrafo finale, al quale i due autori malvolentieri si dedicano, avendo già mostrato che il divario Nord-Sud «è da attribuire a differenze nella produttività del lavoro e nel tasso di occupazione». Se non che incombe la domanda: «ma per quali motivi il Sud ha avuto a lungo un divario di produttività rispetto al Nord?», e qui spuntano fuori proprio quella società, quelle istituzioni e a volte perfino quella geografia con la quale si vuol dannare in eternità il Mezzogiorno. Ci pensava per esempio già il curato Pierre Charron, nel ‘600, agli albori della modernità: a causa del clima caldo e umido, i meridionali sono indolenti e pigri. Et voilà: la spiegazione sul divario di produttività è bella che servita. Ma si tratti del clima, di limiti antropologici, dell’insufficiente esperienza comunale in età medievale, o del susseguirsi delle dominazioni al Sud – prima araba, poi normanna, poi spagnola – si arriva sempre a una «causa causarum» ultima e fondamentale che in verità non spiega proprio nulla. Per i due autori, invece, molto «più modestamente», la causa del divario sta nello stesso sviluppo economico del paese, e nel «processo di concentrazione geografica dell’industria» al Nord (il che peraltro spiega come il divario si sia ridotto in maniera significativa solo negli anni dell’intervento straordinario, nel secondo dopoguerra). Ma, se è così, se la «causa delle cause» va cercata nella forma e nella direzione dello sviluppo italiano, e dunque negli interessi che lo hanno guidato, l’idea che sia tutta colpa della neghittosità meridionale, o della immoralità delle genti del Sud e della sua classe dirigente non basta più. Il nodo diviene un’altra volta il rapporto fra tutte e due le parti del Paese: e non assolve l’una così come non assolve l’altra.  E, per finire, non assolve neppure quelle ricostruzioni storiche che sui rapporti reali fra politica ed economia preferiscono ormai sorvolare, come se la prima non avesse più alcuna capacità di determinare in positivo lo «spazio di gioco» della seconda,. Ce l’ha invece: magari non più a livello nazionale, ma sul più vasto scenario europeo. Ed è guardando a quello scenario che non conviene cedere a narrazioni che finiscono con l’abbandonare il Sud d’Italia al suo destino, come il peso di un’inutile zavorra.

(Il Mattino, 20 febbraio 2014)

La democrazia svuotata

ImmagineCom’era in quel film di Woody Allen, «Io e Annie», quando in coda al cinema c’è l’intellettuale che sproloquia di Fellini e McLuhan – il mezzo è il messaggio – e spunta Marshall McLuhan in persona a confutarne le opinioni? Ecco, non vorremmo che ci toccasse in sorte qualcosa del genere, ma tutto questo streaming che il movimento cinque stelle ci sta regalando – prima streaming con Bersani, poi streaming con Letta, ora streaming con Renzi – meriterebbe un corso alla Columbia University su tv, media e politica. Perché i grillini lo presentano come un passo avanti sulla strada della democrazia futura, mentre quello che si vede è un terribile passo all’indietro, che con l’esercizio della democrazia non c’entra nulla. Figuratevi: uno pensa che accendere le telecamere nel luogo in cui il presidente del consiglio incaricato tiene le consultazioni consente di vedere in diretta web come nasce un governo, e scopre invece che la politica si sposta giocoforza altrove (non penserete mica che i ministri si scelgano davanti alle telecamere?), e l’unico effetto di una simile trovata è quello di vedere piuttosto Beppe Grillo tenere il suo spettacolo, beninteso ad uso degli spettatori e non certo degli interlocutori. Di interlocuzione non c’è anzi la minima traccia: il mezzo non lo consente. Grillo invece parla, interrompe, sproloquia: tutto fa meno che imbastire un discorso politico, la traccia di un programma, un elenco di priorità. Nulla, perché nulla del genere serve.

Grillo, d’altra parte, manco ci voleva andare. Ma sul blog hanno vinto i favorevoli e allora lui si è sobbarcato il viaggio alla volta di Roma. Ciò però non gli ha impedito di fare l’esatto contrario di quel che gli chiedevano in rete: anche Grillo fa dunque i suoi «colpetti di Stato». E mentre teorizza serioso che, in tempi di democrazia diretta, il mandato parlamentare deve essere meramente esecutivo, fa tutt’altro che eseguire quel che gli viene chiesto, quando tocca a lui interpretare il mandato ricevuto. Di diretto c’è solo il modo in cui lui dirige le cose. Sicché va, riduce al silenzio gli altri membri della delegazione pentastellata, e non si perita neppure di dare la parola a Renzi. Gliela toglie anzi subito, e gli spiega che «qualunque cosa dica non è credibile».

Qualunque cosa. Sicché Renzi non è credibile, la politica non è credibile, i partiti non sono credibili, e la democrazia fondata sui partiti – cioè l’unica che il mondo occidentale abbia conosciuto in età moderna – neppure quella è credibile. Discutere con Renzi avrebbe significato allora conferire una patente di credibilità al tentativo di formare un governo, e con esso alle forme costituzionali in cui il tentativo è calato, e Grillo quella patente non intende rilasciarla. Come accidente secondario, però, sta il fatto che ha contemporaneamente ritirato la patente anche ai suoi stessi capigruppo, ai quali pure ha tolto la parola. Se infatti con Bersani e con Letta Grillo era rimasto in Liguria, questa volta a Roma è andato di persona, forse perché temeva l’abilità comunicativa di Renzi, forse perché non si fidava dei suoi o non li giudicava all’altezza, o forse perché tocca soltanto a lui interpretare la scena madre. Quale che sia stato il motivo, il risultato è quel che si è visto: non un colloquio, non un confronto, non una discussione, nulla di neanche lontanamente democratico, ma uno solo che parla mentre tutti gli altri azzittiscono.

In cosa è diverso questo schema dagli show del comico genovese (di cui Renzi, in un eccesso di «captatio benevolentiae», ha confessato di aver comprato in passato tutti i biglietti)? In nulla. Ma questo è quello che passa lo streaming, e il discrimine sul quale si gioca la partita politica rimane perciò uno soltanto: credito o discredito. Personale, beninteso: non istituzionale. Davvero ci vorrebbe allora McLuhan, per definire la mediatizzazione della politica come quella trasformazione dell’esperienza in cui lo svuotamento dei contenuti è direttamente proporzionale alla procurata finzione di immediatezza. D’altra parte: cosa c’è di più immediato di un insulto, di un attacco personale, di uno sberleffo o di una battuta salace? Cosa c’è di meglio per rappresentare la frustrazione crescente dell’elettorato (e però per non far altro che rappresentarla, nel senso teatrale, cioè spettacolare e non politico, dell’espressione?) Chi infatti si seguirebbe lo streaming di Grillo, se Grillo non regalasse al pubblico una sua performance? Perciò: fuori i secondi, fuori Crimi e Lombardi e quelli che son venuti dopo, e dentro direttamente lui, il primattore.

Coi risultati che abbiamo visto: in termini di ascolto, sì, ma anche, di salute della politica e della democrazia. 

(L’Unità, 20 febbraio 2014)

La crisi non cancelli le cattedre di filosofia

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Un appello per la filosofia

Questo, per la filosofia e per la cultura umanistica in generale, è un momento non facile. Prevale un’ideologia tecnocratica, per la quale ogni conoscenza dev’essere finalizzata a una prestazione, le scienze di base sono subordinate alle discipline applicative e tutto, alla fine, dev’essere orientato all’utile. Lo stesso sapere si riduce a una procedura, e procedurali ed organizzative rischiano di essere anche le modalità della sua costruzione e valutazione. Un conoscere è valido solo se raggiunge specifici risultati. Efficacia ed efficienza sono ciò che viene chiesto agli studiosi: anche nell’ambito delle discipline umanistiche.

In questo quadro non stupiscono, per restare nell’ambito filosofico, l’eliminazione della Filosofia teoretica da molti corsi universitari di Scienze dell’educazione, nonché, per quanto riguarda le scuole secondarie, l’idea di ridurre a due anni la formazione filosofica, a seguito del progetto per ora sperimentale di abbreviare il ciclo a quattro anni. Allo stesso modo non sorprende il fatto che, nonostante il diffondersi negli ultimi decenni delle etiche applicate (come la bioetica, l’etica ambientale, l’etica economica, l’etica della comunicazione) a tutt’oggi la bioetica è considerata nelle declaratorie una disciplina che rientra ufficialmente nei settori disciplinari della medicina e del diritto piuttosto che della filosofia. Con la conseguenza che viene privilegiato per questa materia un insegnamento di carattere procedurale, piuttosto che una formazione volta a fare chiarezza sui motivi di certe scelte per aiutare a prendere decisioni responsabili.

Ma tutto questo è la punta di un iceberg. È il segno che, privilegiando un pensiero unico modellato sulle procedure tecnologiche, abbiamo rinunciato alla nostra tradizione, alle molteplici espressioni della nostra umanità, e siamo diventati tutti più poveri nella riflessione e nella capacità critica. Si tratta di un problema che interessa anzitutto la dimensione educativa. Ma più in generale ne va del ruolo che, nel nostro paese, può giocare la dimensione della cultura. 

È necessario cambiare rotta. È necessario contrastare questa deriva. Lo si può fare anzitutto bloccando i progetti che riducono o addirittura eliminano lo spazio della filosofia nell’istruzione secondaria e nell’insegnamento universitario. Lo si può fare chiedendo al nuovo governo impegni precisi: non solo per l’ammodernamento delle strutture scolastiche e universitarie, ma anzitutto per il sostegno e il rilancio di una cultura autenticamente umanistica, come sfondo all’interno del quale anche la ricerca scientifica e tecnologica acquista significato.

È questo il modo in cui può trovare rilancio anche un’azione politica intesa come responsabilità del pensiero nei confronti della dimensione pubblica e del mondo. È questo il modo in cui il nostro paese può essere fedele al suo passato. È questo il modo in cui esso può trovare una vera collocazione nel presente e nel futuro dell’Europa.

18 febbraio 2014

 

IL TESTO DELL’APPELLO PUO’ ESSERE SOTTOSCRITTO SUL SITO:

http://www.lascuola.it/it/home/editrice_detail/1392806297867/tutte_le_news/

 Promotori: Roberto Esposito, Adriano Fabris, Giovanni Reale

 Primi firmatari: Massimo Adinolfi, Luigi Alici, Dario Antiseri, Luisella Battaglia, Franco Biasutti, Remo Bodei, Laura Boella, Francesco Botturi, Giuseppe Cantillo, Dino Cofrancesco, Raimondo Cubeddu, Fulvio De Giorgi, Maurizio Ferraris, Mariapaola Fimiani, Piergiorgio Grassi, Enrica Lisciani Petrini, Eugenio Mazzarella, Salvatore Natoli, Giuseppe Nicolaci, Luigi Papi, Luciano Pazzaglia, Paola Ricci Sindoni, Giuseppe Riconda, Leonardo Samonà, Emanuele Severino, Giusi Strummiello, Gianni Vattimo, Carmelo Vigna.

Grillo e gli altri, il Festival dello strillo

ImmagineUn leader politico democratico: dove va, nel bel mezzo di una crisi politica? Va al Quirinale, per le consultazioni con il Capo dello Stato? No che non ci va, perché per lui il Presidente è un golpista, o un mezzo golpista, e la politica non si fa mica nel chiuso dei Palazzi. Va allora a Palazzo Chigi, dal Presidente del Consiglio incaricato? Ma niente affatto: se quel leader si chiama Beppe Grillo, e ha un trascorso importante nel mondo dello spettacolo, non può non sapere che il palcoscenico più importante è in Riviera, a Sanremo, dove comincia il sessantaquattresimo festival della canzone italiana. È lì che lo vedranno gli italiani, è lì che si parla al Paese. Lo sanno pure i lavoratori che chiedono a Fazio di dare loro voce, e il bravo presentatore, naturalmente lo fa. Quanto a Beppe Grillo, lui va: ci mancherebbe pure. Ha preso otto milioni di voti, e dove li porta: ma a Sanremo, che diamine! Prenota dunque i biglietti e raggiunge ardimentoso l’Ariston, i fiori, le canzonette e il muro di telecamere che lo aspetta goloso. E lui, a sua volta, non aspetta altro.

Per attaccare proprio il muro, cioè il mezzo, la televisione, i giornalisti. Perché, certo, le battute contro Renzi e la politica italiana Grillo non se le fa mai mancare; il vuoto, il nulla, i debiti, le banche. Ma questa volta il comico genovese prende soprattutto di mira la Rai, il direttore generale Gubitosi, il servizio pubblico, il mezzo televisivo, e lo fa nel luogo più televisivo d’Italia, là dove gli italiani ogni anni arrivano solo grazie alla televisione (salvo gli abbonati che hanno vinto un posto in prima fila). Lì dove si festeggia la canzone, ma dove, più ancora, la televisione festeggia se stessa.

Che straordinaria operazione critica, che coraggioso smascheramento del mezzo, che vertiginosa «mise en abîme»! Solo che non va affatto così: nessuno smascheramento critico. Il comizio dato da Grillo, infatti, funziona che è una meraviglia per lo spettatore che stasera vuole starsene comodo davanti alla tv. Sente Grillo gridare ai giornalisti che hanno «facce terribili», che hanno «aliti che sono terrificanti» e perciò che se ne stiano distanti: e chi non la vuole sentire una cosa così, detta in mezzo alla calca dei microfoni e delle telecamere? Chi non ha piacere di indignarsi e sghignazzare con così poca spesa?

A casa tutti, grida furioso Grillo: una volta di più. Ma certo: è stato in tv, ha fatto il suo comizio nell’Hyde Park della televisione italiana, lo hanno ascoltato, le agenzie hanno rilanciato le sue parole di fuoco, può davvero tornare a casa soddisfatto. Gli ascolti, state sicuri, premieranno lui. E pure la Rai.

(Il Mattino, 19 febbraio 2014) 

Barca, confidenze al finto Vendola

ImmagineLe mirabolanti avventure di Simplicius Simplicissimus, alias Fabrizio Barca. A cui ne capitano di tutti i colori: che l’editore – anzi: «il padrone» – di Repubblica gli faccia pressione perché accetti il ministero dell’economia, che gli giungano messaggi più o meno obliqui in tal senso senza che nessuno glielo chieda direttamente; che nessuno gli domandi cosa mai farebbe, una volta divenuto ministro; che infine vuoti il sacco con il finto Vendola che gli telefona per raccoglierne le confidenze. E come al personaggio del romanzo picaresco che attraversa la Germania del Seicento in mezzo a guerre e stregonerie e buffonerie di ogni tipo, così, forse, a Fabrizio Barca capiterà alla fine, che dopo avere attraversato la politica italiana si ritirerà in un’isola deserta, lontano  da quel mondo rovesciato in cui si è visto catapultato suo malgrado.

Perché Barca le sue esperienze politiche e di governo le ha fatte. E le ha fatte anche bene. Ministro della coesione territoriale del governo Monti, è tra i pochi ministri di cui si conserva un giudizio quasi unanimemente positivo. E che, a giudicare dalla telefonata mandata in onda dalla trasmissione radiofonica La zanzara (non nuova a queste imprese) conserva della politica un’idea, tutto sommato, sana: si va al governo per governare, e si va solo se le idee su quel che è da fare sono discusse e condivise. Ci si va sulla base di un progetto politico. Ma i personaggi che lo circondano, che gli girano attorno, che gli mandano sms, che gli fanno pressione, tutto gli chiedono meno che questo. Lui peraltro le spiegherebbe volentieri le sue idee: non ha neppure il profilo dell’intellettuale rinchiuso in una torre d’avorio, e anzi in un’impresa politica è stato sul punto di buttarsi a capofitto, dopo l’esperienza di governo. Ma non di questo si tratta: si muove piuttosto il grande imprenditore (il che peraltro per lui varrebbe come un buon motivo per tenersi alla larga), si muove la grande giornalista, è tutta una trama di contatti, relazioni, telefonate, in cui il malcapitato si trova sballottato senza volerlo, e senza neppure raccapezzarcisi: «Non essendoci un’idea, siamo agli slogan… vedo uno sfarinamento veramente impressionante… evitiamo che nasca una cosa alla quale vengo forzato». Evitiamo, sembra dire, anzi: evitatemi di andare al governo come una sciocca figurina su un album. Simplicius Simplicissimus Barca è scioccato: la mia cultura non importa, è tutto improvvisato, vogliono solo il nome che fornirebbe «la copertura a sinistra», cosa ci metterei sotto quella copertura non vogliono nemmeno saperlo: roba da pazzi.

Già: da pazzi. Diceva Pascal: gli uomini sono così folli, che sarebbe da folli non trattarli come tali. Barca invece voleva conservare l’illusione che Palazzo Chigi non sia ancora una nave di folli alla deriva. Il timoniere forse non c’entra: è troppo presto per dirlo, e dopo tutto Barca tiene fuori Renzi dalla sarabanda. Ma tutt’intorno sembrano muoversi ormai come impazziti. Il mondo reale della politica italiana sembra aver compiuto per intero il suo «tour de folie», e chi non vuole imbarcarsi rischia di finire la sua avventura come Simplicius Simplicissimus: per i fatti suoi, a coltivare un campicello in riva al lago.

(Il Mattino, 18 febbraio 2014)

Le parole di Elkann. Il danno e la beffa dei giovani che non trovano lavoro

Acquisizione a schermo intero 22022014 122222.bmpPrima di commentare le parole con cui John Elkann ha criticato i giovani d’oggi, poco determinati a cercare lavoro, poco ambiziosi, poco desiderosi di emergere, converrà proporre qualche breve cenno biografico. Nato povero e privo di mezzi, Giovanni, detto John o Gioann dai suoi amici contadini della Langhe, è divenuto Presidente della Fiat grazie a una borsa di studio per studenti meritevoli ottenuta al termine della scuola dell’obbligo. Assunto come ascensorista con un contratto a tempo determinato presso una piccola azienda della cintura torinese, è riuscito a mantenersi agli studi grazie al suo umile lavoro. Sgobbando dodici ore al giorno, ha conquistato la stima del padroncino, che lo ha presto promosso applicato di segreteria per via della sua bella calligrafia. Di lì è stato un turbinio di successi: passato all’ufficio legale della Fiat come praticante, in pochissimi anni ha raggiunto i vertici del gruppo torinese, senza mai dimenticare le sue umili origini. Oggi, forte dei successi ottenuti solo grazie al suo impegno indefesso e senza alcun aiuto da parte della famiglia, guardandosi indietro e ripercorrendo la sua incredibile storia, fatta di sacrificio personale e spirito di abnegazione, può insegnare – a quelli che, proprio come lui, vogliono farcela – che nella vita conta solo il carattere: non la fortuna, non i natali, non le amicizie o le parentele, e soprattutto non tutte quelle balle che l’istituto nazionale di statistica va diffondendo sulla disoccupazione giovanile, sulle difficoltà di accesso al credito, sul prodotto interno lordo o su non so cos’altro.

Il lavoro c’è: basta cercarlo, spiega Elkann dall’alto della sua esperienza. Senza fare troppo gli schizzinosi, come direbbe la Fornero, e senza neppure starsene in panciolle a casa come bamboccioni, per dirla invece con Padoa-Schioppa. E a quelli che tirano fuori la storia secondo cui questa è forse la prima generazione a cui non possiamo promettere un futuro migliore del presente, John Elkann obietta, con la sicurezza dell’uomo che si è fatto tutto da solo e non deve dire grazie a nessuno: «Abbiamo più opportunità di quelle su cui potevano contare i nostri genitori». Sociologici ed economisti, storici e giuslavoristi si affannano a ragionare sulla crisi, cercando chissà quali ricette, ed ecco che John, con semplicità disarmante, se ne esce con la mancanza di determinazione delle giovani generazioni. Che il lavoro non lo cercano, non sia mai: loro lo vogliono servito comodo sotto casa e senza nemmeno una goccia di sudore da versare. È colpa loro, insomma. Perché Elkann, per quanto si sforzi, proprio non vede «una situazione di bisogno», vede piuttosto che «non c’è ambizione». In poche parole: non fingete, vi sta bene così.

Le parole di commento, allora. Solo due: cornuti e mazziati. Oppure: oltre il danno la beffa. Oltre il danno della disoccupazione, oltre stipendi tra i più bassi d’Europa, oltre, qui al Sud, la necessità di emigrare – necessità che però Elkann potrebbe presentare come piacere di esplorare il mondo verso nuove avventure – ci sta pure la beffa del capitalista (si può usare la parola?) che ti addossa la colpa di non sbatterti abbastanza per cercare lavoro. Alla prossima intervista, c’è caso che Elkann si inventi le «workhouses», istituti di correzione per fannulloni sfaccendati e senza lavoro, a cui imporre coattivamente prestazioni d’opera sottopagate. Così offerta e domanda di lavoro finalmente si incontreranno di nuovo. È una buona idea, la ebbero in Inghilterra nel ‘600, e aveva due pregi: colpevolizzava i poveri, e produceva manodopera a basso costo. Cosa si può volere di più?

Niente. Qualcosa di meno, forse. Ricordate Bartleby, lo scrivano di Hermann Melville, quello che, impiegato come copista in uno studio legale, comincia a un certo punto a rifiutarsi di svolgere le sue mansioni, e a furia di ripetere «preferirei di no» si lascia addirittura morire? Bene: John Elkann lo taccerebbe di fannullaggine, o di neghittosità, senza scorgere in quel rifiuto alcuna traccia di una critica radicale alle condizioni di lavoro e di vita moderne. Preghi allora Elkann che nelle aziende che presiede nessuno incroci le braccia e cominci a dire «preferirei di no», come Bartleby; trovi anzi un altro modo per rivolgersi alle giovani generazioni. Che per fortuna ancora preferiscono o preferirebbero di sì: preferirebbero – e come! – lavorare, preferirebbero pure arricchirsi, mettere a frutto i loro talenti, costruire una società migliore e un mondo più giusto, e invece debbono sperare che le borse di studio non si riducano ulteriormente, che si trovi uno straccio di contratto anche come ascensorista, che le ore di lavoro siano regolarmente retribuite, e che ce la si possa fare anche senza santi in paradiso. Proprio come ha avuto non la fortuna ma senz’altro il merito di farcela John o Gioann Elkann, l’umile contadino delle Langhe divenuto Presidente della Fiat.

(Il Mattino, 17 febbraio 2014)

La nuova sinistra alla prova dell’ambizione

ImmaginePrima c’è il voto, poi c’è la maggioranza, poi c’è il governo: questa è la fisiologia. Ma nell’emergenza in cui vive ormai da anni il sistema politico e istituzionale italiano, emergenza che ha raggiunto il culmine pochi mesi fa, con la rielezione di Giorgio Napolitano alla Presidenza della Repubblica, la sequenza sembra essersi invertita, più per necessità che per scelta:  si individua così anzitutto quella personalità che, per indiscusso prestigio, è in grado di formare un governo e di raccogliere una maggioranza in Parlamento; si sottopone soltanto poi il suo operato al corpo elettorale (che in verità non sempre ha mostrato di gradire). Anche la spinta e l’impeto che sta conducendo Matteo Renzi alla guida del governo non proviene direttamente dal voto popolare, benché sia sostenuta dal grande consenso riscosso dal sindaco di Firenze nelle primarie del dicembre scorso: nei modi e nelle forme, il passaggio di consegne che in questi giorni si sta consumando non ci riporta dunque ancora dentro lo schema naturale delle cose.

Renzi ne è ben consapevole e, ieri, in Direzione, non ha nascosto la difficoltà. Difficoltà che però è, o è stata sin qui, nelle cose: nella incapacità delle forze politiche di riformare la legge elettorale, nelle forti pulsioni populiste e anti-sistema dei grillini, che sottraggono al gioco parlamentare più di un quarto dei voti espressi; nell’anomalia di larghe intese che non hanno retto ai pesanti strascichi giudiziari della seconda Repubblica; nella crisi economica, sociale e finanziaria che ha condotto il governo su un sentiero apparso obbligato, e tuttavia impervio e non percorribile ancora a lungo. Questo quadro non è affatto alle nostre spalle: in particolare, la Direzione del partito democratico di ieri non ha affatto chiarito quali nuove strade prenderà l’attività di governo, né ha potuto delineare la fisionomia di una nuova maggioranza a sostegno del primo governo a guida Renzi.

E tuttavia, tutto ciò detto e riconosciuto, ieri si è affermato un dato politicamente assai rilevante, che si farebbe un gran torto a sottovalutare, per esempio riducendo tutta la partita in corso a uno scontro tra persone. Renzi ha fatto bene a non smentire la sua «smisurata ambizione politica»: quale paese infatti vorrebbe essere guidato da uomini, forze, partiti, privi di ambizioni? Ma con un voto molto largo e convinto, che ha superato i confini della maggioranza congressuale, riducendo a poco più di una decina i contrari, il Pd ha accettato di condividere per intero quella ambizione, scartando soluzioni raccogliticce di scarsa tenuta, o improvvisi precipizi elettorali. Si è assunto con ciò il peso di una scommessa politica piena, che non si cela più sotto i velami strani di algidi governi tecnici, ma porta per la prima volta il suo leader alla più alta responsabilità di governo. Finora l’impresa era riuscita solo al centrodestra, con Berlusconi. Ora, dall’altra parte, è Renzi a provarci: è un fatto del tutto inedito nella storia del centrosinistra italiano. Che peraltro lo obbliga a dare la più difficile delle prove: quella dimostrazione di compattezza che neanche il centrodestra al governo ha saputo dare (rompendosi più volte: con la Lega, con Casini, con Fini, e via elencando).

Naturalmente, nessuno può dire se la scommessa sarà vinta o persa. Un fattore di rischio è sicuramente rappresentato da un’altra inversione con cui la sfida di Renzi dovrà misurarsi: finora, i rapidi progressi fatti sul terreno delle riforme istituzionali sono risultati inversamente proporzionali all’efficacia dell’azione di governo. Può darsi ora che accada il contrario: che la crescita della caratura politica dell’Esecutivo smorzi l’interesse di Forza Italia per le riforme, e dunque rallenti l’intero processo. Rischia cioè di cambiare il pedale su cui Renzi è chiamato a spingere di più.

Per la verità: non è detto che sia un male. Nessuno onestamente si augura che si fermi la riforma del titolo V o quella del bicameralismo, i due punti principali dell’intesa raggiunta da Renzi con Berlusconi. Ma, di regola, i governi si giudicano anzitutto sul terreno economico e sociale, ed è su questo terreno che Matteo Renzi, da domani, sarà giudicato.

E forse passerà per questa via anche un certo qual ritorno alla fisiologia dei rapporti politici. Con un governo nel pieno della sua forza politica, l’esercizio a fisarmonica dei poteri della Presidenza della Repubblica potrà lentamente ridursi, e questo potrà essere, anche per il Presidente Napolitano, un motivo di apprezzamento del nuovo corso.

(Il Mattino, 14 febbraio 2014)

Il piglio dell’esperto senza lasciare il segno da ministro

Oggi il Mattino mi ha chiesto un breve giudizio sul Ministro delle riforme istituzionalinella pagina che ha dedicato al governo uscente. Eccolo:

«Il ministro Quagliariello esprime grande soddisfazione per l’approvazione da parte del Senato del decreto legge sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti». La soddisfazione è di due giorni fa, e non ha un filo di ironia. Come se le dichiarazioni del Ministro rese nel corso dei mesi potessero sfuggire all’impressione di comporre il taccuino di uno spettatore, più che di un attore del processo di riforme istituzionali. A disposizione del quale Quagliariello ha messo le sue competenze come esperto del gruppo di lavoro costituito da Napolitano, prima ancora che nascesse il governo Letta. Però tale è rimasto: un esperto, pur essendo diventato ministro. Nessun cambio di passo. Se le riforme andranno a buon fine, tutto avverrà almeno tre metri sopra la testa dell’esperto Quagliariello. Il governo Renzi si fa anche per quello, ed è probabile che Quagliariello saprà esprimere grande soddisfazione.

Se il segretario si gioca tutto

ImmagineSe non fosse per il titolo, che si potrebbe prestare a equivoci e ironie, il film di queste giornate potrebbe essere raccontato alla maniera del primo Kubrick, quello di «Rapina a mano armata». Un colpo all’ippodromo, raccontato da punti di vista ogni volta diversi, con flash-back sincronici che costringono lo spettatore a rivedere più volte la stessa azione, da angolature e con sottolineature differenti. È quello di cui il cronista avrebbe bisogno, per muovere nello stesso, complicato scenario il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio, il segretario del partito democratico, più gli altri attori politici (il centrodestra di Alfano, i frammento del centro montiano, la minoranza Pd) relegati per il momento nel ruolo di comprimari, ma – come accade nel film – non per questo meno decisivi per la riuscita del colpo.

Il colpo è il nuovo governo. Allo stato, tutto o quasi sembra spingere in direzione di un incarico a Matteo Renzi. Le ipotesi alternative – il rimpasto, un nuovo governo Letta, il precipizio delle elezioni – non si sono ancora definitivamente consumate, ma appaiono ormai delle subordinate rispetto al piano principale, che prevede l’arrivo del sindaco di Firenze a palazzo Chigi. In verità, non si tratta di uno sbocco naturale dell’impasse che si è creato. Fino a qualche settimana fa, la doppia velocità dimostrata da Renzi nell’incardinare il processo di riforme, a cominciare dalla legge elettorale, sembrava legata essenzialmente alla distanza dall’attività di governo. Di qui in avanti, con Renzi al posto di Letta, non sarebbe più così, e anche se la maggioranza sul terreno delle riforme istituzionali continuerebbe a non coincidere con la maggioranza di governo, l’attore che proverebbe a incassare la parte più grossa del bottino delle riforme sarebbe d’ora innanzi soltanto uno e il medesimo: il Pd di Matteo Renzi. La vera questione è dunque se, con il passaggio delle consegne, il processo innescato da Renzi conoscerà un’accelerazione o non piuttosto un freno, da parte di chi (in primo luogo Berlusconi) aveva sin qui immaginato un diverso modo di partecipare all’impresa.

L’operazione presenta cioè dei rischi. Certo, Renzi può investire un capitale di fiducia e di consenso e una credibilità ancora intatta, e genererebbe di sicuro aspettative anche maggiori di quelle sin qui riposte sul governo Letta. Se l’operazione avrà successo, e dunque col senno di poi, si potrà anzi disegnare una sequenza Monti-Letta, partorita dall’emergenza dapprima finanziaria, quindi, dopo febbraio, anche politica, che la vittoria di Renzi alle primarie del Pd avrebbe finalmente interrotto, creando l’energia politica necessaria per fissare un nuovo inizio.

Ma un nuovo inizio di solito coincide con nuove elezioni: Renzi lo sa benissimo. Scegliere di prendere le redini del governo per manifesta insufficienza del dicastero che lo ha preceduto non procura ancora una piena legittimazione (oltre a rinfocolare tensioni nello stesso Pd). O meglio: in una democrazia parlamentare – qual è ancora l’Italia – non ci sarebbe bisogno di altro. Ma tutto il progetto politico di Renzi contiene una torsione politica rispetto a quella forma, che attende ancora di compiersi: riuscirà il Sindaco a portarla a compimento da Palazzo Chigi? Di sicuro, le forze parlamentari su cui può contare sono le medesime che sostenevano Letta (salvo forse qualche piccolo aggiustamento): e allora?

Resta dalla postazione di Palazzo Chigi una valvola con cui Renzi potrebbe provare a regolare i processi: quella delle elezioni. A ogni intoppo, a ogni ritardo, a ogni involuzione del corso politico nei meandri di Montecitorio Renzi potrà mettere sul tavolo un’impazienza, un’urgenza, un senso delle cose da fare nuovo, imputando alla palude parlamentare tutte le colpe. È una scommessa: se tutto filerà liscio, Renzi e il Pd incasseranno un risultato storico. Se la corsa si inceppa, qualcuno si ricorderà più o meno amaramente delle parole del Sindaco: le elezioni convengono più a me che all’Italia.

(Non so se la metafora del film di Kubrick, colpo a parte, abbia funzionato. Quel che so è che nel film nessuno dei componenti della banda che assalta l’ippodromo conosce il piano completo dell’azione, il che è un guaio).

(L’Unità, 12 febbraio 2014)

Le frontiere chiuse della civiltà

ImmagineUno dei più alti documenti del Novecento filosofico europeo, «La crisi delle scienze europee» di Edmund Husserl, contiene un passo sull’Europa che viene spesso citato, e che mette conto di essere riproposto anche oggi. Eccolo: «Come si caratterizza la forma spirituale dell’Europa? Non geograficamente, come se fosse possibile circoscrivere su questa base gli uomini che vivono sul territorio europeo e considerarli l’umanità europea. In un senso spirituale rientrano nell’Europa i Dominions inglesi, gli Stati Uniti, ecc., ma non gli esquimesi o gli indiano che ci vengono mostrati nei baracconi delle fiere, o gli zingari vagabondi per l’Europa». Gli zingari vagabondi per l’Europa: perché ricordarli adesso? Per via del referendum in Svizzera, promosso dal partito nazionalista ed antieuropeista dell’Unione di centro, che contingenta l’immigrazione, e mette dunque un freno alla libera circolazione delle persone. Nella decisione dell’elettorato elvetico, che irrigidisce le frontiere e fissa tetti e quote «in funzione degli interessi globali dell’economia svizzera», non è da supporre un’avversione particolare nei confronti dello straniero: non si tratta di xenofobia o, peggio, di razzismo. Si tratta solo della crisi, e dell’egoismo nazionale che la crisi economica sta risvegliando nei popoli europei. Ma anche le parole di Husserl non possono certo essere tacciate di razzismo. Anzi. Quelle parole risalgono alla metà degli anni Trenta: di lì a poco, nel ’38, al filosofo tedesco, di origine ebrea, toccò di finire i suoi giorni con le SS che gli piantonavano il portone di casa, poiché in un qualche senso di Europa stabilito dai nazisti al potere (e non so quanto spirituale) gli ebrei come lui non potevano rientrare.

A cosa servono allora le parole di Husserl? Forse a lanciare un grido d’allarme dinanzi ai meccanismi di esclusione con cui si pretendono di definire popoli, culture, identità. E insieme a porre una domanda, la stessa  che un accanito lettore e interprete del testo husserliano, Jacques Derrida, europeista convinto, pose in una conferenza tenuta nel 1990. Ecco la domanda: «Qualcosa di unico è in corso in Europa, in ciò che ancora si chiama Europa, anche se non si sa più bene che cosa si chiami in questo modo. Di fatto, a quale concetto, a quale individuo reale, a quale entità determinata si può, a giorno d’oggi, conferire questo nome? Chi ne traccerà le frontiere? Il suo nome maschera forse ancora qualcosa che non ha ancora un volto?».

Dopo il referendum svizzero, noi cittadini europei non possiamo non domandarci nuovamente qual è, quale sarà il volto dell’Europa, quale «unicità» dovremmo aver cura di preservare, o di far accadere. Fino infatti alla barbarie nazista, si poteva ancora pensare che l’Europa lottasse, come scriveva Husserl, per il senso più autentico dell’umanità, che l’Europa fosse cioè il terreno esclusivo sul quale quel senso era fiorito: grazie alla filosofia greca, al diritto romano, alla religiosità cristiana, alla civiltà umanistico-rinascimentale, all’illuminismo moderno. Dopo la catastrofe, i popoli europei hanno dovuto porre su nuove basi quella ricerca di un’umanità razionale che appassionava Husserl: dotandosi di un’unica coscienza politica che si richiamasse innanzitutto ai valori universali della democrazia e della libertà. «L’interesse globale dell’economia» doveva e deve esser loro subordinato.

Se perciò andate in visita presso il Parlamento europeo, a Strasburgo o a Bruxelles, vedrete che i gentili funzionari che accolgono i visitatori e illustrano loro le modalità di funzionamento dell’Unione – le sue istituzioni, i suoi principi, le sue procedure – per darvi il senso della costruzione europea insisteranno in modo particolare sul suo frutto più prezioso : la pace, la libertà, i diritti (sulla prosperità negli ultimi tempi sorvolano un po’). Ma allora, se non fosse più possibile cogliere appieno quel frutto, che cosa significherebbe ancora essere europei? Certo, la Svizzera non è l’Unione: la sua storia non è la storia della comunità che a piccoli passi ha avviato nel corso dei decenni un percorso di integrazione a partire dalle macerie della guerra (che la Svizzera invece non ha conosciuto), ma «in un senso spirituale» lo è. Senza dire che, alla sua maniera, e pur mantenendo le dogane, ha aderito agli accordi europei sulla libera circolazione delle persone, che l’esito del referendum mette invece in discussione. È difficile perciò che un’Europa che sia più di una semplice espressione geografica possa avere esistenza e storia senza aspirare a un qualche senso del genere. Certo: ridefinito su nuove basi, capace di accogliere persino «gli zingari vagabondi per l’Europa», e cioè fondato sopra il comune denominatore dell’inclusione, ma esistente e soprattutto operante. Quote, contingentamenti e piantonamenti non delineano, ma anzi sfigurano il volto in cui l’umanità europea vuole ancora provare a riconoscersi.

(Il Mattino, 12 febbraio 2014)

Il potere messo a nudo dagli atleti

ImmagineC’è un misto di ipocrisia e idealismo che accompagna l’apertura dei giochi olimpici di Sochi, ma non è affatto una mistura nuova. Per polemizzare contro le discriminazioni omofobe della Russia putiniana, ben lontana dagli standard di liberalismo e democrazia di cui godono i paesi occidentali, Google offre in homepage un pezzetto della carta olimpica : «La pratica dello sport è un diritto dell’uomo. – si legge – Ogni individuo deve avere la possibilità di praticare lo sport senza discriminazioni di alcun genere e nello spirito olimpico, che esige mutua comprensione, spirito di amicizia, solidarietà e fair-play». Il colosso di Mountain View fa bene a sventolare i colori del diritto, della pace e dell’uguaglianza: sono i nostri colori. E però è lo stesso attore che pochi mesi fa, nei confronti della Cina, e in considerazione di un bacino di utenza immenso al quale non intende affatto rinunciare, ha avuto un atteggiamento assai condiscendente, accettando di rimuovere l’avviso che segnalava al navigatore gli interventi censori del governo di Pechino. C’è poi lavoro per i filosofi del diritto: se infatti la pratica dello sport è un diritto, perché non includere nello stesso paniere anche il diritto di fare pic-nic all’aria aperta o quello di vedere la tv in santa pace? Chi se la sentirebbe di proibire simili pratiche? E perché non trasformarle senz’altro in diritti? Forse, i diritti fondamentali si stanno inflazionando un po’ troppo. E, come si sa, inflazione vuol dire svalutazione.

Un conto poi è la pratica sportiva dilettantistica, un altro è lo spettacolo sportivo che offrono i Giochi. In quanto spettacolo, l’Olimpiade ha naturalmente a che fare con il potere, ossia con la sua celebrazione. E non c’è potere che non senta il bisogno di celebrarsi. D’altra parte: si è mai visto un grande evento sportivo – la finale del campionato mondiale di calcio, il Super Bowl, Wimbledon – senza la presenza di regine e capi di Stato? Se i giochi sono soltanto giochi, loro che ci fanno lì? In forma di pompa, sfarzo, parata, il potere frequenta da sempre lo spettacolo. La cerimonia di inaugurazione dei giochi olimpici è dunque la necessaria introduzione dell’evento e la dimostrazione di questa verità generale: dove c’è esibizione, c’è esercizio di potere. Se qualcuno si mostra, qualcun altro subisce, cioè si «assoggetta» alla messa in mostra. E di nuovo: dove c’è soggezione, c’è potere. L’illiberale legge promulgata da Putin conferma peraltro questa verità. Putin fa finta di non negare alcun diritto fondamentale, perché la sua legge sanziona solo la propaganda omosessuale, ma proprio così ammette che la propaganda è un potere, salvo negare agli omosessuali di essere eguali in potere a tutti gli altri (ed in particolare a lui).

Gli atleti però vanno ai giochi per gareggiare; gli spettatori per vedere,e il potere ci va per celebrarsi. La domanda è dunque: quanto l’esigenza del potere di celebrarsi toglie al piacere dello spettatore di vedere e all’atleta quello di gareggiare? Poco o nulla, in realtà. Nessuno esulterà di meno solo perché la vittoria avviene a cospetto di un semi-autocrate. Direi anzi di più: ci illudiamo, se pensiamo che il piacere sarebbe il medesimo e la sfida ugualmente appassionante anche se i giochi non fossero affatto «olimpici», se l’Olimpo non fosse ancora la sede degli dei, cioè della gloria. E come volete che sia dispensata la gloria, anche quella sportiva, se non, in mancanza degli dei antichi, almeno innanzi ai potenti della terra? È un prezzo che gli uomini debbono pagare: non a Putin (per fortuna), ma alla loro stessa umanità. E poi: per ogni imperatore che si compiace nell’arena, ci può pur sempre essere un eroe o atleta che gli leva il pugno contro (o almeno un dito, si vedrà poi quale). Perché lo spettacolo, lo sfarzo, la sfilata: saranno pure il luogo in cui il potere mette in scena e officia se stesso, ma sono anche l’occasione in cui i paramenti cadono e un bambino scopre per tutti che l’imperatore è nudo. Per l’omofobo Putin sarebbe una gran bella vergogna. (E, si sa, i campioni sono come i bambini).

(Il Mattino, 8 febbraio 2014)