Archivi del mese: marzo 2014

La post-modernità di Masullo e il compito umano di vivere

ImmagineTre «stati di nichilismo», tre «situazioni sintomatiche della cultura europea», tre colpi di sonda gettati per decifrare la situazione spirituale del nostro tempo. Aldo Masullo ha riunito in un unico volume tre saggi apparsi tra il 1984 e il 1996, indicandone a distanza di tempo il filo conduttore e riconoscendone ancora valida l’ambizione. Il filo conduttore è il nichilismo non più come una questione metafisica, ma come la condizione dell’umanità contemporanea. Il più inquietante di tutti gli ospiti, di cui aveva parlato Nietzsche alla fine dell’Ottocento, non si presenta più come una forma più o meno acuta di malessere culturale, o come una più o meno esacerbata reazione ideologica, o come una più o meno fondata proposizione filosofica, ma come una ben radicata forma di vita quotidiana. «Il paradosso estremo del nichilismo» non è più l’affare di un concetto o di un sistema teorico, non è una vertigine speculativa, e neppure un fremito intellettuale che percorre  le forme più alte della cultura occidentale, ma è ormai, secondo il filosofo napoletano, un’esperienza ordinaria, perfino banale: «il vivente non ha il tempo di vivere». Le indagini che nel corso della sua lunga e feconda ricerca filosofica Masullo ha condotto sui temi della temporalità, dell’affettività, della paticità dell’esistere, e di cui sono documento importante lavori come «Il tempo e la grazia» (Donzelli, 1995) e «Paticità e indifferenza» (Il Nuovo Melangolo, 2003) consentono però, sul bordo stesso di questa esperienza, un esercizio di pensiero per nulla banale o ordinario. Questa è infatti l’ambizione dei saggi qui raccolti:  «esercitare il pensiero a non lasciarsi annichilire». Da un lato le potenze che premono sull’esistenza umana, sulla stessa figura antropologica – prima fra tutte la tecnologia, l’accelerazione mai vista prima che l’innovazione tecnologica ha impresso alle nostre vite – dall’altro lato un rigoroso esercizio di pensiero, l’hegeliana «fatica del concetto», il tentativo cioè di tenere insieme e cucire i termini frammentati della nostra vita.

Questo tentativo si dispiega su più piani, e attraverso un’ampiezza di riferimenti che procura un lieve senso di vertigine. Sono convocate in poche, densissime pagine, Parmenide e Platone, Leibniz e Kant, Bergson e Husserl, Heidegger e Derrida per non dire che dei maggiori, con cui Masullo si confronta. Sul piano ontologico, Masullo ci restituisce la modernità, anzi la post-modernità del nostro tempo non solamente come una perdita irreparabile di certezze, sostanza, ordine, ma anche come un’occasione – un’altra espressione cara al filosofo -, anzi come l’invenzione sempre possibile, ma perciò anche mai assicurata a priori, di «inaudite occasioni di libertà». Modernità significa, in una sola parola, presente. Il presente di un mondo «sempre-ancora-in-via-di-farsi», e dunque rimesso alla responsabilità dell’agire umano, non più costretto a conformarsi all’eternità di un ordine antico, al mondo «sempre già tutto fatto» della metafisica classica. Post-modernità significa ancora presente, ma ormai disarticolato, frantumato, e sospinto da un’enorme fretta, consumato da una velocità disperante, che ci consegna sì alla contingenza, alla variabilità del vivere così come alle fantasmagorie del consumo e della merce, ma sottraendoci sempre più la ventura di convertirli in un senso, anzi in una dimensione di con-sensualità condivisa che rimane, per Masullo studioso attento dell’intersoggettività, il «nucleo propulsivo del senso»

Sul piano morale, il punto di partenza ineludibile resta la tesi nietzscheana: «Non ci sono fenomeni morali, ma c’è solo un’interpretazione morale di questi fenomeni». Non esistono fenomeni morali significa: ogni ipotesi di fondazione della morale – in un cielo di valori, nell’oggettività della natura, in Dio o nella coscienza – è destinata a fallire. Eppure, dopo aver posto la nostra epoca sotto il segno di queste parole, dopo aver percorso la china discendente che conduce infine il soggetto morale a non essere che «il punto di incontro fra ciò che una persona vuole e ciò che il mondo le consente di essere» (Richard Sennett, secondo una logica che in fondo esprime il punto di vista della più moderna teoria dei sistemi sociali), dopo aver paventato il rischio che si assottigli fino a scomparire «la discontinuità tra l’etologia animale e la sociologia umana», Masullo prova ugualmente a chiarire come «in qualche modo sia ancora ragionevole parlare dell’universalità dei valori».

In qualche modo. In quale modo? Secondo quale ragionevolezza? Il filosofo napoletano prova da tempo a disegnare una figura della soggettività che, senza più infrastrutture metafisiche, resti tuttavia ancora capace non già di intendere il vero – e dunque la verità del valore – ma, più autenticamente, di patirlo. E di aprirsi in questa dimensione pàtica, affettiva, sensibile, a quell’originaria con-sensualità che sola ci preserva dall’assoluto non senso dell’esistere. Siamo uomini, insomma, perché siamo fra gli uomini, anche se questo «fra» è quanto di più precario vi sia. Cade qui la critica al vizio di teoreticismo della filosofia, che colpisce perfino Martin Heidegger, nonostante gli sforzi da lui condotti per porre la fenomenologia dell’Esserci sul terreno dell’esistenza –, e questa critica è forse, di questi saggi e più in generale delle ricerche di Masullo, il frutto più significativo. La sequenza che la filosofia del ‘900 ha provato infatti a delineare – dall’essere al linguaggio al tempo alla morte – per decostruire l’orizzonte metafisico classico, manca secondo Masullo di un termine essenziale, che può mutarne il senso. Può, anzi, nuovamente donarglielo. La morte è infatti sempre la possibilità di un vivente: proviene cioè dalla vita, non dal concetto, e solo alla vita, alla vita reale, empirica, non all’essere o all’eterno può mettere un termine. Nessun nulla è abbastanza nulla – si potrebbe dire allora –, nessuna insensatezza è tanto tragica, oppure giocosa e irresponsabile per sbalzarci fuori dalle nostre vite e sottrarci al compito «umano, troppo umano» di viverne con passione la serietà.

(Il Mattino, 29 marzo 2014)

Ma non c’è solo il mercato

ImmagineMagari, se potessimo parafrasare Pascal, potremmo perfino trovarci d’accordo: il mercato ha le sue ragioni che la ragione non conosce. Nell’originale si trattava del cuore, e Pascal ne rivendicava per l’appunto le ragioni, irriducibili ad una razionalità «étriquée», più ristretta e insensibile alle dimensioni sulle quali il cuore è capace invece di sporgersi. Nel caso di Mauro Moretti, l’amministratore delegato delle Ferrovie che ieri è intervenuto sul taglio degli stipendi ai supermanager, non si tratta del cuore ma di reclamare le ragioni del mercato, la razionalità nella determinazioni dei compensi dei manager posti al vertice di imprese grandi e complesse, che è il mercato, secondo Moretti, a dover fissare. Secondo l’impeccabile logica della domanda e dell’offerta. Secondo questa logica, peraltro, Moretti non è certo il più bravo di tutti, visto che non è quello che prende più soldi di tutti. Lui stesso tiene a informarci che il suo collega tedesco prende tre volte e mezzo più di lui (che già guadagna cifre di poco sotto al milione di euro). Ma noi vorremmo invece continuare a pensare che il nostro amministratore delegato è davvero il più bravo di tutti, e, come vi sono le ragioni del mercato, così vi è un’altra più importante ragione per rimanere comunque al proprio posto, in Italia, specie in tempi di crisi, a guidare le ferrovie dello Stato e a dare così una mano al Paese.

Certo, quell’altra ragione si presenta con il volto della politica, che oggi appare ai più deturpato (e pure di questo in verità ci sono le ragioni). Ma forse non dobbiamo arrivare per questo al punto di capovolgere il detto di Pascal, e mancare di riconoscere non la razionalità economica, ma una più larga e comprensiva razionalità, che a quella non si riduce.  

Così Moretti dice: è una cosa sbagliata parametrare lo stipendio dei dirigenti pubblici di aziende di Stato a quello del Presidente della Repubblica, e chiedere che si stia al di sotto. Dice che è una cosa sbagliata ma intende: non è razionale, non rientra nella logica del mercato. Ed effettivamente alla Presidenza della Repubblica non si arriva come si arriva alla guida dell’Enel o delle Ferrovie. Il Quirinale è ancora, chissà per quanto, fuori mercato. Ma il senso del riferimento all’appannaggio del Presidente sta evidentemente nel far presente a chi opera sul mercato che, contemporaneamente, come uomo e come cittadino opera anche in una società e in uno Stato, anche se a volte sembra proprio che non riconosca questi altri luoghi in cui soltanto possono mantenersi le istituzioni del mercato. E ciò, si vorrebbe aggiungere, al netto di qualunque considerazione sulla perfezione del regime concorrenziale che vi regnerebbe, e che in realtà non vi regna affatto.

Qualche tempo fa, il filosofo Avishai Margalit ha pubblicato un libro dal titolo molto promettente: «The Decent Society», la società decente. In quel libro Margalit non si preoccupava tanto della giustizia quanto, appunto, della decenza. Una società può essere giusta nella distribuzione dei beni o dei diritti primari – e tuttavia, sia detto per inciso, Margalit non aveva certo in mente l’Italia contemporanea come esempio di società giusta – e tuttavia infliggere umiliazioni ad una parte significativa dei propri cittadini, anche quando questi non avessero a subire alcun torto. Esemplifichiamo a nostro vantaggio. Un’espressione come quella che parla di «schiaffo alla miseria» ha a che fare con l’offesa che può essere recata ai membri poveri di una società, anche quando si riferisce a fatti, episodi, circostanze che rientrano nel pieno diritto di chi assesta quello schiaffo, poiché per esempio è nel diritto di chiunque viva in una società liberale di mercato guadagnare (così come sperperare) cifre spropositate, se soltanto si trova qualcuno disposto a offrirle. Le ragioni del mercato, potremmo dire, non conoscono schiaffi alla miseria. Ma la ragione umana – e non dico qui nemmeno la ragione politica, o la ragione morale – quegli schiaffi li conosce e come, e di solito è ragione, si riconosce cioè come ragione, proprio in quanto cerca di non tirarli.

Ora, nessuno pensa che Moretti intendesse ieri mollare qualche schiaffo. Le sue preoccupazioni sono anzi condivisibili, anche perché sono sicuramente slegate dall’interesse personale. E quand’anche invece fossero ad esso legate, non vi sarebbe nulla di male a considerare il proprio personale interesse, nelle scelte professionali e non solo in quelle. Ma dicevamo le preoccupazioni. In breve. nessuno vuole depauperare il patrimonio (che supponiamo volentieri grandissimo) di competenze, professionalità, conoscenze a disposizione dell’Amministrazione pubblica e dello Stato. Ma la scelta del governo non intende affatto provocare nulla del genere. Posto però, come ha detto il premier Renzi ieri, che se ne riconosca la ratio. Ma così siamo daccapo a Pascal, e alla necessità di conoscere le ragioni di tutti, e non solo quelle del mercato.

(L’Unità, 22 marzo 2014

Antimafia, le parole senza voce

ImmagineSe Casal di Principe non ha partecipato alla marcia per don Diana nel ventennale della morte per omertà e connivenza con la camorra, o semplicemente per quieto vivere, è una sconfitta per l’antimafia; e se invece non vi ha partecipato perché disperata oppure priva di prospettiva, come taluno ha detto, oppure semplicemente perché stanca e sfiduciata, come forse è più probabile, anche in questo caso è una sconfitta per l’antimafia, e forse anche una sconfitta più bruciante. In un caso e nell’altro, però, per l’antimafia è una sconfitta.

È singolare quanta cura, a volte, si metta nel non vedere i fatti. Il fatto, il semplice fatto che da una parte abbiano sfilato gli alunni delle elementari e i parlamentari dell’Antimafia, insieme alle autorità e alla Chiesa locale, e da un’altra, da tutt’altra parte sia rimasta la maggioranza dei cittadini mostra ad oculos, che l’una parte non vuol più dire nulla per l’altra. Le spiegazioni vengono dopo; il fatto invece è questo, e bisognerebbe prenderne atto. Quando ci si mette in cerca affannosa delle cause, è già troppo tardi. Il compito civile, e sociale, dell’antimafia non è infatti un compito conoscitivo, inquirente, giudiziario, legislativo: sta accanto a tutti questi ma non si risolve in essi.  Ha a che vedere invece con l’esigenza di ritrovare parole e gesti eloquenti per la generalità dei cittadini a cui le istituzioni si rivolgono. Cosa che evidentemente le marce come quella di ieri l’altro non riescono più ad essere, nonostante l’indubbia buona volontà di organizzatori e partecipanti. E l’avverbio «evidentemente» non è scelto a caso, ma perché l’evidenza sia più forte e lampante delle prediche moraleggianti, più o meno sincere, che i casalesi si devono in questa come in ogni altra circostanza sorbire.

Così come scrivo casalesi a bella posta. Nella stanchezza e nella sfiducia c’è infatti anche questo, che da quelle parti bisogna lottare persino per i nomi. Perché casalese non sia sinonimo di camorrista ma voglia dire abitante di Casale e nulla più. Se però non sappiamo restituire il nome alle cose, alle persone, perché le persone dovrebbero andare appresso ai discorsi?

Certo: per quanto significativo, l’episodio è solo un episodio. Ma comprenderne il significato vuol dire andare al di là di esso e auspicare un più generale ripensamento di come difendere e promuovere la legalità, la sicurezza, la rinascita civile di una città, di un territorio o di un pezzo del Paese. Senza impancarsi in difese ufficiali sempre uguali a se stesse, e senza nemmeno ergersi a coscienze indignate, come se ogni volta che si prova a discutere – ma più semplicemente direi: a stare ai fatti – si attentasse ai valori irrinunciabili della Costituzione, al sacrario della coscienza morale o a quello del diritto e della legge. Nulla di tutto ciò. Se Casal di Principe non marcia non è perché sta contro quelli che marciano, ma perché non capisce più che senso abbia marciare. E non basta certo puntare il dito severi per mettere tutti in riga. Fiaccolate, sit-in e ogni genere di manifestazione si organizzano dappertutto per i più svariati motivi e va bene così. Ma pure le manifestazioni nascono e muoiono: hanno il loro tempo e il loro senso, che a volte può essere ritrovato così come a volte può finire. E finisce davvero, quando tutt’intorno cambia la scena, e la vita. O quando, al contrario, non cambia nulla affatto, e non si è in grado mettere in campo niente: in termini di promozione, non solo di repressione; e di ricostruzione, non solo di distruzione. Nessuna economia malata muore se non nasce un’economia sana. Cosa , al dunque, è più eloquente: il fallimento nella gestione dei beni confiscati alla camorra o l’ennesimo discorso ufficiale?

Nessuno vuole, con ciò, replicare astiosamente le polemiche contro i professionisti dell’antimafia, perché pure quelle vengono usate in maniera spesso strumentale. Ma verificare onestamente come vanno le cose, e rendersi conto che non vanno e che una gestione ottusa, burocratica, leguleia non produce risultati è davvero il minimo che si possa fare.

Non è Casale, non è il Sud, insomma, che non vuole cambiare: perché delle due parti, quella del paese «reale» che non sfila, e quella «ufficiale» che sfila, purtroppo è la seconda che non vede davvero la necessità di cambiare le cose. Di cambiare le cose e di cambiare se stessa.

(Il Mattino, 21 marzo 2014)

Severino e l’ideale della verità

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Che cos’è la verità? Si può far filosofia, anche solo accostarsi al pensiero filosofico scansando questa domanda? No, non è possibile. E però è comune convinzione che la domanda punti troppo in alto, e che non resti ormai che rinunciare a cose come l’essenza della verità, per acconciarsi alle molteplici verità storiche, empiriche, alla portata delle scienze o del buon senso. La filosofia può però presentarsi ancora come il luogo in cui questa convinzione trova il suo ultimo fondamento. In superficie, quella convinzione si presenta come un blando relativismo, più o meno consapevole di sé; ma in profondità essa poggia invece su una tesi squisitamente filosofica, che cioè ogni essere e ogni verità immutabile sia impossibile. Questa impossibilità discende a sua volta dalla fede nell’esistenza del divenire: se «tutto» diviene, tutto, quindi anche ogni essere e ogni verità, verrà annientato dal divenire.

Il divenire è il mondo in cui viviamo. Che noi si viva in questo mondo è la fede a cui nessuno vuole rinunciare. Il fascino e la forza del pensiero di Emanuele Severino sta nel tentativo di sterrare le radici di questa fede, di portare allo scoperto ciò che abita nel «sottosuolo essenziale» del nostro tempo. Se infatti il nostro tempo è dominato dalla tecnica, se il dominio della tecnica è fondato sull’impossibilità di porre un limite all’agire umano, se questa impossibilità riceve la sua sanzione ultima dal pensiero contemporaneo del divenire del «tutto», che ha il nome inquietante di nichilismo, allora è quest’ultima sanzione che deve essere investigata, criticata e infine confutata. Per Severino, si tratta infatti dell’errore radicale, anzi della follia dell’Occidente.

La cui forma più coerente si trova secondo Severino nel pensiero di Giovanni Gentile (e di Leopardi, e di Nietzsche). Si comprende dunque perché Biagio De Giovanni abbia dedicato un libro al confronto fra Giovanni Gentile e Emanuele Severino (Disputa sul divenire, Editoriale scientifica, 2014). Le ragioni di questa disputa sono peraltro esposte in un saggio, che esce ora nel fascicolo della rivista «Il Pensiero», diretta da Vincenzo Vitiello e interamente dedicato al pensatore bresciano. Gentile è però anche, per De Giovanni, colui che ha dato forma alla filosofia italiana del ‘900: se non per altro, questo confronto è dunque ineludibile per stendere un giudizio critico sulla tradizione italiana. Che questo giudizio obblighi poi alla scomodità di misurarsi con due filosofi che, per ragioni diverse, non trovano facilmente paragone nel panorama europeo del Novecento è parte essenziale del giudizio stesso. Per alcuni, del suo provincialismo. Per altri, della sua passata e presente grandezza. In ogni caso della sua specificità, divisa fra lo storicismo più radicale (imparentato fortemente con la politica), e la metafisica più impermeabile (imparentata altrettanto strettamente con la religione).

Il fatto è che Severino è intervenuto più volte sulla modalità stessa in cui il suo pensiero si offre alla discussione: chiedendo cioè di essere contraddetto e così di venir confutato. Ora, Hegel discuteva ancora di cosa significhi confutare in filosofia, ma dopo di lui questa discussione si è presso che spenta: le questioni filosofiche sembrano salire o tramontare nell’orizzonte della cultura contemporanea – non solo italiana, in verità –  in forza di esigenze estetiche, oppure politiche, o ancora storiche, ma non più propriamente teoretiche. In forza cioè di una separazione fra verità e non contraddizione, che revoca in dubbio, per Severino, la condizione prima e ultima del pensare. Da un lato e dall’altro della linea che ha diviso negli ultimi decenni la filosofia fra analitici e continentali, la non contraddizione si è presentata infatti come un requisito puramente formale, che non impegna l’essere, la totalità di ciò che è, ma al più soltanto il discorso. Da cui gli analitici in genere non si discostano, limitando però le conseguenze «ontologiche» di tale fedeltà, mentre i continentali non temono a volte di sbarazzarsene, come dimostra la pluralità di linguaggi che non solo la filosofia, ma anche le arti e la cultura in genere parlano. Per fare solo un esempio: Martin Heidegger parlava della non contraddizione come una regola del tutto esteriore, vuota e in definitiva non vincolante, da superare in direzione di un interrogare più originario. Senza tutta questa enfasi, Carlo Sini ha di recente così replicato a Severino: «Sì, mi contraddico: e allora?» (La verità è un’avventura, GruppoAbele 2013).

Ad onta della leggerezza della domanda, si tratta di una questione decisiva. E, nel panorama del pensiero contemporaneo, non sono molti i pensatori che costringono a sollevare questioni decisive, istruendo le quali è possibile tracciare una radiografia spietata del nostro tempo. E, anche, del nostro Paese.

(Il Messaggero, 20 marzo 2014)

Il PD prigioniero di cordate e potentati

ImmagineDalle elezioni politiche è trascorso un anno, poco più. Mi auguro che il normale cittadino abbia tirato il fiato durante quest’anno, perché una nuova campagna elettorale è alle porte. Si tratta delle europee, e questa volta le europee contano. Contano perché c’è il semestre italiano, contano perché è in gioco il futuro dell’Unione europea e dell’euro; contano perché questo futuro incide come mai prima sulle nostre vite.

Così il normale cittadino. Ma il cittadino iscritto al partito democratico, o il simpatizzante, oppure il semplice elettore che segue con qualche partecipazione le vicende politiche del paese durante quest’anno non ha potuto certo rilassarsi. Anzitutto è arrivato col fiato corto alle elezioni politiche, perché aveva già partecipato alla corsa delle primarie. E, subito dopo, alle parlamentarie per la scelta dei candidati alle Camere. Poi si è rimesso a correre per le primarie vinte da Renzi. Dopodiché c’erano da formare le strutture provinciali e regionali, e in qualche caso da partecipare alle primarie per le elezioni locali, e ovviamente anche a queste ultime elezioni. E fra poco si ricomincia.

È la democrazia, si dirà. Ed effettivamente è così: finché si vota, si sceglie. E il giorno che questa facoltà di scelta ci venisse tolta (o magari fosse appoggiata dai carri armati, come in Crimea) probabilmente avremmo a dolerci della leggera ironia di cui in tempo di pace facciamo sfoggio. Ma il fatto è che una tale inflazione di voti non dimostra affatto una condizione di salute del sistema politico, bensì uno stato di stress. E di cosa ci sarebbe bisogno, allora, per affrontare un simile stress? Di un partito sano, robusto, capace di non debilitarsi per le continue, troppe sollecitazioni. Di mantenere una normale dialettica interna e un costante volume di attività anche fra un’elezione e l’altra: per costruire opinioni, individuare obiettivi politici, disegnare strategie, proporre visioni complessive ma anche rappresentare interessi, o offrire luoghi di socializzazione. Tutto ciò, in breve, che appartiene alla ragione d’essere di un partito. Tutto, o almeno qualcosa. In rete o nei circoli: da qualche parte, insomma. Ma tutto si può dire dei partiti politici, meno che stiano in salute.

E il partito democratico, nonostante Renzi, non fa eccezione alcuna. L’onda della rottamazione, peraltro, si è sollevata molto più contro i vertici nazionali del partito, che non contro i vertici locali: ritirandosi, dei primi è rimasto qualcosa – un Fassino di qua, un Franceschini di là – dei secondi, invece, quasi tutto. In Campania c’è, in verità, un nuovo segretario regionale, Assunta Tartaglione, ma sembra in queste prime settimane di lavoro subire, piuttosto che agire, ed essere diretta piuttosto che dirigere. Insomma: andar dietro alle iniziative altrui, piuttosto che prenderne. Beninteso, non si tratta di denunciare limiti personali, ma di constatare l’assenza di un collante reale fra i pezzi del partito: fra il pezzo salernitano e i pezzi napoletani, il pezzo giovane e i pezzi vecchi, quello ex democristiano e quello ex comunista, quello dei parlamentari e quello degli amministratori. Dove sia il legame fra tutti questi pezzi nessuno lo capisce. Dalle parti di Grillo o di Berlusconi il partito (o quello che è) non conosce correnti interne; nel Pd il guaio non sarebbero le correnti, se non fosse per l’assenza del partito. Alla Tartaglione tocca così di tenere insieme i pezzi, ma di tirar su qualcosa di nuovo – un rapporto nuovo con gli iscritti, con la società, con le istituzioni – non si vede ancora il cominciamento.

In queste condizioni, ai prossimi appuntamenti elettorali il Pd rischia di rimanere ancora una volta prigioniero di notabilati e clientele, cordate e potentati. Forse qualcuno pensa pure di andare con Bassolino alle elezioni comunali e De Luca a quelle regionali: l’uno e l’altro, infatti, le primarie son capaci di vincerle. Magari le vincono pure senza la consueta scia di ricorsi. Non c’è dubbio: sarebbe un favoloso dejà vu. Oppure, per scongiurare un simile esito, qualcun altro proverà ad acquistare uno straniero, un fuori quota, uno che fa un altro mestiere, pur di vincere una sfida per la quale non si è saputa formare una squadra. Sarà pure il personalismo della politica dei tempi nuovi, ma in Campania il Pd sembra ancora dividersi realmente non su opzioni politiche, ma solo nella ricerca del nome di copertina che possa coprire l’assenza di una proposta progettuale. Cosa debba essere Napoli, la Campania, il Mezzogiorno nessuno lo sa. Né tanto meno pensa che occorra saperlo. Non c’è tempo: qualche primaria di sicuro incalzerà.

(Il Mattino – Napoli, 17 marzo 2014)

Sud, la storia non si tira per la giacca

ImmagineNon è una tesi, bensì soltanto una suggestione, però degna, credo, di qualche approfondimento: mentre a ridosso del centesimo anniversario dell’unità d’Italia la storia contemporanea ha raccolto un interesse e una rilevanza che fino ad allora non aveva mai avuta, come se non ci fosse davvero bisogno di ridiscutere del passato, con il centocinquantesimo si è piuttosto riproposto un interesse per le vicende unitarie e post-unitarie, come se non ci fosse bisogno di attingere le possibilità del presente. E ora, a un passo dal 17 marzo, nel bel mezzo di una discussione tutta incentrata sul Mezzogiorno, sulle colpe, sui ritardi, sulle responsabilità e sulle omissioni, vale forse la pena rifletterci su.

Nel 1960 fu indetto il primo concorso a cattedra di storia contemporanea (a Firenze). L’interesse per il proprio tempo riceveva così un definitivo riconoscimento istituzionale. A questo interesse non erano ovviamente estranee estese preoccupazioni politiche e ideologiche, ma forse neppure il fatto che si era in pieno miracolo economico, con un prodotto interno lordo che cresceva più dell’8%, nonostante in corso d’anno si succedessero ben tre governi: un’altra Italia, insomma. Che avrebbe celebrato l’anno dopo il centenario senza particolare enfasi risorgimentale: «Nonostante le centinaia di migliaia di visitatori che Torino accolse in quei mesi – ha scritto Gilda Zazzara – mai come allora la storia del Risorgimento appariva lontana dalle curiosità e dalle passioni degli Italiani».

Sembra invece che cinquant’anni dopo, con l’inizio della più grave recessione della storia repubblicana, le curiosità e le passioni si siano, al contrario, tornate ad accendere sull’unificazione e sullo Stato post-unitario.  Questo strano rapporto speculare potrebbe essere continuato anche sotto un altro aspetto: cinquant’anni fa si tenevano lezioni pubbliche su fascismo, antifascismo e resistenza; cinquant’anni dopo, il mito resistenziale è stato sostanzialmente rimosso dalle base di legittimazione della Repubblica.

Sono sorprendenti i percorsi della memoria, sia individuale che collettiva. E non v’è dubbio che essi seguano spesso le apprensioni e le inquietudini del presente (ma una volta si sarebbe detto anche i rapporti di forza, che non sono affatto indifferenti alla proposizione di temi e motivi nel dibattito pubblico). Questo non diminuisce ovviamente, ma anzi accentua il dovere di non trascinare di peso la ricerca storiografica nel campo della lotta politica. Ci si può dedicare allo studio del brigantaggio, ad esempio, senza voler riproporre per forza suggestioni neo-borboniche. Non è un esempio scelto a caso: una decina di anni fa, Paolo Mieli  notava quanto lentamente la storiografia più autorevole venisse prendendo atto degli eccidi perpetrati nella repressione del brigantaggio. E arrivava a scrivere: «sarebbe un segno di civiltà che i libri di storia e forse anche un museo rendessero onore a quei vinti del 1861». Un museo: addirittura! In occasione poi del centocinquantesimo, Giuliano Amato, presidente del Comitato preposto alla celebrazione dell’anniversario si è recato a Pontelandolfo, nel Sannio, luogo di un massacro efferato, e ha deposto una lapide in ricordo di Concetta Biondi, la bambina sgozzata dai bersaglieri che entrarono nel paese nell’agosto del 1861, per spegnere nel sangue la rivolta borbonica. Il libro di Francesco Durante, «I napoletani», si chiude proprio con il ricordo del gesto di Amato, e con le parole: «Intorno, era tutto un tricolore, e si poteva toccare con mano la soddisfazione di avere evitato derive neoborboniche».

Purtroppo, è una soddisfazione che non sempre si riesce ad avere, nella confusione in cui si trascina ogni parola spesa per riproporre la questione meridionale come una questione viva, reale, che coinvolge il Paese intero e che non viene né risolta né avviata a soluzione quando si tira la conclusione che tanto è tutta colpa del Sud. O quando si taccia di connivenza, di subalternità o di giustificazionismo qualunque tentativo di vederci chiaro nel modo in cui vanno le cose da vent’anni a questa parte, con la seconda Repubblica, il federalismo fiscale e il titolo quinto (per dirla in maniera sbrigativa).

Né Giuliano Amato né Paolo Mieli, infatti, sono sospettabili di «sudismo». Non si capisce perché allora lo si tira fuori per chi si limita a lasciare agli storici il loro lavoro, non conduce certo battaglie per riscrivere la storia monumentale dell’Italia unita ma prova, molto più modestamente, a fare un’opera critica a favore del presente, perché non resti imbrigliato nel passato, nel discorso sulle tare secolari o sulle costanti antropologiche.

La postilla conclusiva di Francesco Durante al suo libro contiene un’altra, piccola proposizione che vale la pena riportare: «A/Su Napoli stentiamo sempre più a capirci». Con l’aggravante – si può aggiungere – che si ha spesso l’impressione che si faccia finta di non capire, che cioè convenga non capire, lasciar perdere,  e mollare il Sud al suo ineluttabile destino. Per vedere insomma soltanto il folclore, l’improbabile e anti-storico revanscismo, bollare tutto come il solito piagnisteo vittimistico, addossare tutte e intera la responsabilità alle classi dirigenti meridionali e trascurare così qualunque considerazione del nesso che lega i problemi del Paese a quelli del Mezzogiorno.

E così, sulla scia del centocinquantesimo, arriva ora un nuovo anniversario, la relazione distorsiva fra Nord e Sud in cui è bloccato il Paese passa ancora sotto silenzio e per tutta risposta si polemizza vivacemente con la retorica del territorio e l’oleografia del brigantaggio. Come se questo mettesse in pericolo l’unità del Paese: il senso di riscatto ai piedi della lapide di Pontelandolfo.

(Il Mattino, 15 marzo 2014)

Perché Hoeness non è il Cav.

ImmagineNon capita spesso che un articolo quasi si scriva da sé. Che basti il semplice accostamento di una notizia all’altra per ottenere l’effetto voluto, il commento dell’una con l’altra in chiave squisitamente antifrastica, e ciò in grazia di una semplice coincidenza temporale. «Sermo e contrario intelligendus» diceva Isidoro di Siviglia dell’antifrasi, e davvero questa volta la cosa si capisce alla perfezione dal suo contrario. Che casualmente le capita a fianco il giorno stesso, nella stessa pagina.

La cosa è la dichiarazione di Giovanni Toti, il consigliere politico di Silvio Berlusconi che stiamo imparando a conoscere sempre meglio in queste settimane, il quale con comprensibile soddisfazione ha reso noto che il Cavaliere non ci pensa nemmeno a rimanere per una volta in panchina, sicché alle Europee lui, il Cavaliere, intende candidarsi. «D’altronde – ha chiosato Toti – Berlusconi ha guidato Forza Italia in tutte le elezioni. Ritengo che lo farà anche questa volta. Riterrei una grave lesione al diritto di rappresentare i moderati italiani se Berlusconi non potrà candidarsi.  Se qualcuno dovesse impedirlo si assumerebbe una grave responsabilità davanti a milioni di italiani». E chi sarà mai questo qualcuno che vorrebbe assumersi una così grave responsabilità, ledendo nientedimeno che un diritto? In realtà non è un «qualcuno», casomai è un «qualcosa»: è una sentenza emessa in via definitiva da un tribunale della Repubblica italiana, che lo ha condannato per frode fiscale. Condannato. Frode fiscale.

Però Toti non arretra; sembra anzi sicuro del fatto suo. Forse pensa che Berlusconi potrebbe aggirare l’incandidabilità prendendo profittevolmente la via dell’Estonia, o dell’Ungheria, o di un altro paese dell’Unione. Che dice in proposito il diritto, che cosa dicono le leggi al riguardo? Chissà. La convinzione che Giovanni Toti sfoggia non sembra in verità preludere ad un’aspra battaglia giuridica a colpi di ricorsi, controricorsi e pronunce delle più alte Corti europee. Sembra piuttosto esprimere una determinazione tutta politica, a cui poi il diritto, un po’ ammaccato, seguirà (se davvero riuscirà a Berlusconi e ai suoi agguerritissimi legali di fare in modo che segua, il che allo stato non sembra probabile).

Ma così entriamo già nel territorio del commento, avviamo un complesso ragionamento intorno al rapporto tra politica e diritto, ci interroghiamo intorno alle residue possibilità del Cavaliere: tutte cose che non restituiscono affatto l’effetto antifrastico che cerchiamo. Per quello ci vuole la seconda notizia. Basta metterla a fianco della prima, e il gioco è fatto. Eccola:

Ansa, 14 marzo, ore 15.15: «Il patron del Bayern-Monaco Uli Hoeness ha annunciato dimissioni dalla presidenza del Bayern e la rinuncia alla richiesta di appello nel processo a suo carico. Ieri con sentenza di primo grado è stato condannato a 3 anni e 6 mesi di carcere per evasione fiscale per 27,2 milioni di euro. Hoeness va dunque in carcere». «Dunque», scrive l’Ansa, perfezionando la notizia con una bella congiunzione conclusiva. Lì, infatti, la cosa è conclusa. Ma quando, come, dove? Forse bisogna ripetere, scandire meglio, lentamente, a beneficio di Giovanni Toti: in Germania, per frode fiscale. Per lo stesso reato, cioè, che macchia la fedina penale del Cavaliere. E non si tratta di uno qualunque, ma del presidente della squadra di calcio del Bayern-Monaco, quella che oltre agli scudetti e le Champions ha pure i soldi per ingaggiare Guardiola, l’allenatore del Barellona che Berlusconi voleva portare al suo Milan. E il bello è che Hoeness, questo campione del calcio teutonico, non va in carcere dopo cinquantaquattro gradi di giudizio, processi e revisioni di processi, eccezioni e rinvii, ma dopo una pronuncia di primo grado, senza nemmeno ricorrere all’appello.

Cos’altro si deve aggiungere? Berlusconi, lui lo sappiamo cosa aggiungerebbe: le lamentele per la magistratura politicizzata e il malfunzionamento della giustizia in Italia, il giustizialismo della sinistra, un po’ di sano vittimismo, la persecuzione senza eguali della procura di Milano, la mole di azioni intentate contro di lui e contro le sue aziende, i dieci milioni di Italiani che lo votano da vent’anni, lui che non ha mai preso nemmeno una contravvenzione e non ha mai licenziato nessuno, mamma Rosa, una barzelletta, un giuramento sulla testa dei figli e forse qualcos’altro ancora che al momento ci sfugge.

Ma, per una volta almeno: parlano i fatti, parlano i comportamenti. Parla, si diceva un tempo, l’esempio.     

(L’Unità, 15 marzo 2014)

Se Cesaro diventa l’anti-Cosentino

ImmagineNel giorno, in cui la Camera dei Deputati licenzia l’Italicum, non senza qualche batticuore, nella sede del consiglio regionale campano si fanno i conti con la mancanza del numero legale, che l’altro ieri ha reso a tutti evidenti i problemi della maggioranza che sostiene la giunta Caldoro. La fine naturale della consiliatura non è più così naturale.

Sono cose diverse, si dirà: un conto sono le sorti politiche nazionali, un altro le faccende degli enti locali. E poi le due vicende hanno un segno inverso: di là una nuova legge elettorale, e secondo il premier il primo punto segnato dalla politica contro il disfattismo; di qua invece una sconfitta della politica e il rinvio del consiglio a data da destinarsi; di là il primo scatto fuori dalla palude, di qua invece l’impantanarsi nella palude.

C’è però, al di là delle circostanze, un termine medio che tiene insieme i due estremi. O, al contrario, che non tiene né contiene più nulla. Quel termine sono i partiti politici, il luogo in cui dovrebbero comporsi interessi, forze, ideali, e che invece appaiono in avanzato stato di decomposizione. I partiti, così almeno come li intendeva la Costituzione, come soggetti organizzati dotati di autonoma cultura politica, non esistono quasi più. In particolare non esistono nel Mezzogiorno, dove sembrano condurre un’esistenza parassitaria solo dentro le istituzioni, essendo ormai irriconoscibili  e impresentabili in società. Le dinamiche con cui pezzi di partito si staccano o si riattaccano, si dividono o si riuniscono non solo non hanno alcun significato ideale, ma non parlano neppure a interessi diversi e più larghi di quelli che costituiscono quei pezzi stessi. La rappresentanza è quasi del tutto evaporata. Così oggi, in consiglio regionale, il gruppo di Forza Campania, staccatosi dalla maggioranza e passato di fatto all’opposizione, non può essere descritto adeguatamente se non per mezzo di un semplice cognome: sono i cosentiniani. Nient’altro: non basi ideologiche o programmatiche, l’area politica coincide perfettamente con il grosso grumo di potere che si raccoglie intorno all’ex sottosegretario all’Economia. Come si vede, la demonizzazione per via giudiziaria non c’entra nulla; c’entra invece, e come, il degrado della politica.

Se questo è lo stato delle cose, colpisce che il governatore Caldoro non avverta l’urgenza di ricostituire dalle fondamenta le ragioni di un vero patto politico, non semplicemente preoccupandosi di conservare il consenso, ma restituendogli il valore di una rappresentazione di ragioni, senso, progettualità. Che non senta cioè anche lui l’esigenza di scrivere da qualche parte: la politica segna un primo punto contro il disfattismo. Di sicuro, se pensa che affidarsi a Luigi Cesaro nella prossima competizione per le europee sia la maniera migliore per spezzare le sordide trame dei cosentiniani, non segnerà alcunché. Non è infatti cercando di contrapporsi pezzo a pezzo in una pura lotta di potere che potrà dare una prospettiva allo scorcio di mandato che gli rimane, e alla sua probabile ricandidatura. Caldoro ha tutto il diritto di esibire i risultati del suo governo, presentandoli come un’inversione di tendenza rispetto al passato. Ma ha il dovere di indicare una direzione, che non può consistere nel far scegliere gli elettori di centrodestra fra Cosentino e Cesaro. Sono questi i campioni della politica che vuole proporre ai cittadini campani, per dare qualche parvenza di credibilità spessore all’idea stessa di rappresentanza, che è alla base delle istituzioni della democrazia rappresentativa?

Intanto l’Italicum passa dalla Camera al Senato. La preoccupazione di liberare il paese dall’incantesimo del porcellum sta forse dando al paese un primo punto, come dice orgogliosamente Renzi. Ma il problema resta: il termine medio, i partiti. La migliore legge elettorale, quella che più di tutte assicura governabilità (e, onestamente, l’Italicum non è la migliore legge, bensì solo l’unica che finora si sia riusciti a fare), non può comunque risolvere il problema più grande della politica italiana: chi o cosa sono ormai i partiti che ci governano?

(Il Mattino – Napoli, 13 marzo 2014)

Tsipras, i puri si epurano prima di iniziare

Immagine«Beh, sarebbe ipocrita negare che ci sono stati un po’ di casini», dice il giornalista Alessandro Gilioli, uno di quelli che la lista l’Altra Europa con Tsipras ha contribuito a metterla su . Nessuna ipocrisia: la lista non ha bisogno di nascondere i casini combinati. Ultimo in ordine di tempo è il rifiuto di Antonia Battaglia, ambientalista tarantina, di stare in lista con esponenti di Sel, il partito del governatore Vendola, che a giudizio della Battaglia non è affatto esente da gravi responsabilità nella gestione del caso Ilva. O Sel o io, ha detto la Battaglia, e in lista ovviamente sono rimasti gli esponenti di Sel, mentre lei ha ritirato la sua disponibilità.

Ora però, più che il merito di questa vicenda – che tutto sommato può ricondursi al vecchio adagio per cui c’è sempre un puro più puro che ti epura – è la giustificazione ai casini combinati che desta un qualche sconcerto. Gilioli la mette così: «tutta questa avventura della lista Tsipras è iniziata poco prima di Natale con un po’ di telefonate, qualche mail, i primi incontri di persona: non c’era alcuna organizzazione pregressa, né alcuna regola stabilita». Si badi bene: non si tratta di cucina destrutturata, e dell’abbattimento delle barriere tra il mondo dolce e il mondo salato, bensì della presentazione di una lista alle prossime elezioni politiche del Parlamento europeo. Una roba che di solito la fanno i partiti, e che invece viene affrontata con baldanzoso spirito donchisciottesco. Dal momento che i partiti sono ormai per tutti brutti sporchi e cattivi, cosa c’è di meglio di spiriti liberi, cavalieri della vera fede europeista strappati alle loro inesauste battaglie civili, alle loro irreprensibili testimonianze morali, alla loro inflessibile indignazione, finalmente in lista insieme per il bene comune?

Qualcosa di meglio ci sarebbe e c’è: gli stessi spiriti liberi, uniti però da una comune frequentazione (stessi gusti, stesse letture, stesse amicizie), in una compagnia di giro che ad ogni appuntamento elettorale da un bel po’ di anni – ad occhio e croce:  da quando Eugenio Scalfari s’inventò il mito del «partito che non c’è» -prova coraggiosamente ad esserci. E forse ci prova non già per conseguire l’elezione in Parlamento – un’altra, generosa dimostrazione di disinteresse -, ma solo per fare la morale alla sinistra: quella che dopo tutto c’è ancora e che questi spiriti liberi non potranno riuscire a farsi piacere mai.

E si capisce perché: se poter confidare soltanto su qualche mail viene esibito come un titolo di merito, o come una prova di autenticità, o infine come una dimostrazione di purezza (per la quale però vedi l’adagio citato sopra), come si potrà mai accettare la bassa cucina tradizionale con cui un partito, una qualunque organizzazione complessa, è costretta a servire la pietanza indigeribile delle liste?

Ovviamente i ferventi sostenitori italiani della lista Tsipras non mancano di farsi coraggio sbandierando il risultato che il leader greco vanta nel suo paese, dove la formazione politica da lui guidata veleggia sopra il 30 per cento. Uno pensa: a parte tutte le differenze, ma un minimo di consapevolezza del fatto che in Grecia Tsipras non guida il suo partito con pochi incontri fra vecchi amici alla vigilia di Natale questi qua ce l’hanno, o pensano davvero che basta mettere qualche testimonial importante, disposto a candidarsi «per spirito di servizio», per raggiungere quelle percentuali e, in genere, per fare politica? Forse no, se si può arrivare a sfidare il buon senso domandando addirittura al futuro elettore se sia consapevole di cosa significa licenziare le liste chiudendo in una stessa stanza «sei garanti di sinistra». Deve essere stata effettivamente molto dura, se infatti un paio di essi, Camilleri e Flores d’Arcais, proprio non ce l’hanno fatta e si sono subito dimessi. Nessuno può cedere sui propri principi, devono essersi detti, avendo visto i casini combinati con il caso Battaglia: e poiché sarebbe davvero troppo citare il più cinico e immorale Togliatti – quello che «Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato» – domandiamoci almeno: ma che razza di principi sono quelli che non principiano mai alcunché, e procurano immancabilmente un’impressione di infantilismo politico?

(Il Mattino, 12 marzo 2014)

Gli hegeliani inconsapevoli

Giorgio Federico Guglielmo Hegel ha scritto una volta: «la verità è una tautologia». Ed effettivamente, leggendo la relazione che la Corte dei Conti ha presentato la scorsa settimana sul federalismo fiscale c’è caso che qualche anima bella, credendo magari di impersonare chissà quale spirito di gravità, non si limiti a registrare il dato denunciato dalla magistratura contabile, per scoprire che al Sud la pressione fiscale è più alta che al Nord, ma faccia anche il passo successivo, e in cerca di una spiegazione veramente profonda giunga fino alla verità: che le tasse che al Sud sono più alte sono state messe dai governanti del Sud. Oh bella! Uno vorrebbe chiedere: e chi altri le doveva mettere, codeste tasse? Per caso Matteo Salvini o Bobo Maroni? Ma forse qualcuno pensa davvero che sarebbe una buona idea. Non so se ce ne si è accorti, ma che, parlando di federalismo fiscale, di addizionali regionali e di imposte municipali, si scopra l’equazione per cui le tasse del Sud le mettono i governanti prova soltanto che Hegel aveva ragione: la verità, per costoro, è una tautologia.

Mentre però Hegel lo diceva nel bel mezzo di una riflessione sopra l’elemento speculativo e l’essenza della logica, altri pensano che scoprirlo equivalga a trovare finalmente il colpevole di tutti i mali del Sud: quelli che al Sud mettono le tasse, e cioè i governanti del Sud. Come peraltro facciano in questo modo a compiere anche il rapinoso «sacco del Nord» non viene spiegato. E siamo daccapo.

Siamo daccapo non con la necessità di giustificare le classi dirigenti meridionali, quelli che mettono le tasse e sperperano denaro pubblico (ma sull’andamento della spesa al Sud, inferiore al Centro-Nord, sarà il caso di tornarci, visto che la Corte dice qualcosa anche a questo proposito). Leggere la relazione della Corte dei Conti e dare significato, evidenza e risalto al dato riportato non serve a giustificare nessuno, tantomeno ad assolvere. Serve invece a capire. Sempre che la si legga. Scrive infatti la Corte: “Alla crescita delle entrate proprie ha corrisposto un ridimensionamento dei trasferimenti statali. Ciò ha comportato una significativa ricomposizione delle fonti di finanziamento degli enti territoriali. Ma tale forte crescita non sembra espressione di un effettivo aumento di autonomia impositiva. In proposito, risulta difficile individuare uno stretto collegamento fra l’autonomia impositiva accordata e quella concretamente esercitata; e, nell’ambito di quest’ultima, fra scelte autonome degli amministratori locali e decisioni condizionate dal legislatore nazionale”. Cosa se ne può desumere?

Forse che occorre fare un passo oltre la tautologia, per guardare dentro quella che la Corte chiama la «relazione distortiva» innescata dal federalismo fiscale e interrogarsi intorno alle sue modalità di attuazione . La relazione distortiva: di cos’altro avevamo parlato, rifuggendo dalle semplificazioni per cui è tutta colpa del Sud (semplicemente opposta e speculare a quella che getta tutta la colpa sul Nord)? In mancanza di quello che la Corte chiama un «concreto esercizio di autonomia impositiva» fermarsi dunque alla tautologia per cui le tasse al Sud le mettono i governanti del Sud potrà soddisfare soltanto gli ultimi, purtroppo del tutto inconsapevoli hegeliani di Napoli, non certo quelli che si ricordano degli hegeliani napoletani di un’altra epoca, dotati di ben altro senso dell’unitarietà dello Stato italiano, e di ben altra consapevolezza dei suoi compiti.

 

Perché difendere con orgoglio il Mezzogiorno

ImmagineDopo anni in cui la questione meridionale era venuta addirittura a noia, come un disco rotto o una lagna sempre uguale, ora finalmente se ne comincia nuovamente a parlare: è un bene o un male? È un bene. Sarà forse merito dei dati diffusi l’altrieri dalla magistratura contabile? Non proprio. Intanto, la Corte dei Conti ha certificato che la pressione fiscale è al Sud più alta del 2,5% rispetto alle aree del Nord. Dopo più di vent’anni di ideologia nordista, e di una pratica federalista (o pseudo tale) assai distorta, che non solo non riduce il divario fra Nord e Sud ma anzi contribuisce ad accentuarlo, il risultato è là: messo nero su bianco dalla Corte. E tuttavia non sono i dati sulla pressione fiscale o sull’emigrazione nel Mezzogiorno a mobilitare le migliori e più vivaci energie intellettuali del Paese, per spingere con forza la questione meridionale al centro della politica nazionale. Accade anzi, al contrario, che si levi una critica circa il ruolo – la complicità, la connivenza, la sudditanza – degli intellettuali meridionali. Inutili corifei del potere, essi sarebbero dediti soltanto a rivangare il passato e a inondare il discorso pubblico di false questioni (la «questione meridionale» come falsa questione!), pur di non denunciare le responsabilità dei gruppi dirigenti locali. Impegnati cioè a costruire alibi, per se stessi o per l’eterno notabilato meridionale, avrebbero perso voce, credibilità, autorevolezza, per averne in cambio solo favori, grandi o piccoli.

Può darsi. Anzi sicuramente è così: c’è un bel pezzo della società meridionale che vive soltanto di favori, e gli intellettuali, ahiloro, non fanno eccezione. Però chi vuol provare a recuperarla, codesta autorevolezza, non solo non può attardarsi nell’elogio della monarchia borbonica, nella costruzione di nuovi miti consolatori o nel sogno di piccole, piccolissime patrie: d’accordo. Non solo non può sognare di propiziare riti assolutori nei confronti delle classi dirigenti che hanno governato il Sud negli ultimi venti o trent’anni. Se anzi serve dirlo con maggiore chiarezza: i limiti dell’azione amministrativa delle passate amministrazioni municipali o regionali – campane in particolare e meridionali in genere – sono gravi ed evidenti. Sono i risultati a dimostrarlo: non saremmo dove siamo, cioè più indietro di vent’anni fa, se la sinistra che ha governato in questi anni potesse vantare un buon ruolino di marcia. Il giudizio è un po’ tagliato con l’accetta ma non importa. Importa però, se davvero si vuole recuperare autorevolezza, fare un altro passo e non eludere il punto decisivo: i dati, i numeri, le cifre della Corte dei Conti. E quel che significano.

Perché qui sta la responsabilità principale, politica e intellettuale: nell’evitare la vera e più allarmante subalternità, che non è quella che lega i tronfi letterati del Mezzogiorno alla grassa sfera del potere, bensì piuttosto quella che ci tiene tutti così ben dentro un orizzonte ideologico antimeridionalista, così ben dentro il racconto del Sud profittatore e sprecone, che a fatica si riesce a far leggere al Paese i dati resi noti dalla Corte dei Conti, tanto che essi nemmeno compaiono sulla grande stampa nazionale di ispirazione nordista e sui suoi dorsi locali. Insomma: il Sud paga di più in termini di tasse: lo si può dire? Anzi, domandiamo meglio: lo si deve dire o no? E soprattutto cosa comporta il dirlo? Quali pregiudizi  possiamo provare a scuotere dicendolo? E come mai è così difficile dirlo, o ascoltarlo, da Roma in su (e purtroppo, a proposito di subalternità, anche da Roma in giù)?

È solo un esempio, naturalmente, però è assai significativo (oltre che fresco di giornata). Ma di esempi se ne potrebbero fare tanti, anche se occorre, va da sé, sceglierli con cura. Se si sceglie ad esempio il comportamento civile e decoroso dei napoletani sulla Linea 1 della metropolitana di Napoli, che non ha nulla da invidiare a quello degli abitanti di qualunque altra metropoli europea, mentre sulle altre linee di trasporto assai più disastrate succede di tutto – se si sceglie questo esempio, dicevo, cosa si dimostra? Forse, provo a suggerire, che il problema del Mezzogiorno non sta nelle secolari condizioni di ritardo del Sud, né in chissà quali costanti antropologiche, in limiti atavici, o in un deficit cronico di capitale sociale, ma – stando almeno all’esempio – in investimenti ben mirati nell’infrastrutturazione di base. L’esempio sembra dimostrare cioè che se fai treni decenti anche il comportamento sarà decente, e al contrario se i treni non li fai, se le scuole non le aggiusti, se infine i fondi europei li dirotti altrove e i trasferimenti li tagli, è più difficile avere una società civile decente.

Stiamo perciò ai fatti. il divario fra Nord e Sud si è ridotto significativamente solo nel secondo dopoguerra, grazie a un’importante politica di investimenti. Tenerlo presente non significa augurarsi che si sperperi denaro pubblico, o che si mantenga il Sud nelle condizioni di un’economia assistita. Ma polemizzare solo in questi termini, per dire magari che è tutta colpa del Sud, non porta da nessuna parte, consolida questo sì la voga corrente e soprattutto non dà un’oncia di visibilità in più alla denuncia della Corte dei Conti. Ci si preoccupa insomma della retorica vittimista degli intellettuali meridionali; io mi preoccuperei invece di quella colpevolista. O più seriamente: lascerei perdere l’una e l’altra e mi preoccuperei di riportare almeno i fatti. E non certo per starsene «contenti al quia, e più non dimandare», ma al contrario perché siamo scontenti di come vanno le cose e proviamo con forza a domandare, sulle colonne di questo giornale. 

(Il Mattino, 9 marzo 2014)

Danto e Warhol

ImmagineNella primavera del 1964, cinquant’anni or sono, Arthur Danto, il padre della riflessione estetica di impronta analitica, scomparso lo scorso anno, si imbatte nella seconda (e ultima) mostra di Andy Warhol alla Stable Gallery di Eleanor Ward, a New York. Si imbatte nelle scatole da imballaggio per le pesche sciroppate Del Monte, in un centinaio di «Brillo Box», e «in tutte le grandi cose moderne che gli espressionisti astratti avevano cercato tanto di non notare affatto». Warhol aveva chiaro, infatti, che bisognava rompere con la stagione segnata dalle grandi tele di Pollock o di Rothko: passare dai grandi drammi dell’esistenza umana, tradotti in gesti violenti o in severe meditazioni sul colore, alle lattine di zuppa e alle bottiglie di Coca-Cola. Per Danto fu un’epifania. Come lui stesso racconta, è di lì che prende avvio la sua riflessione sull’opera d’arte, sistematizzata nel suo libro più importante, La trasfigurazione del banale.

Il pubblico italiano ha potuto replicare in queste settimane l’incontro con ampie sezioni dell’opera di Andy Warhol, grazie a due grandi mostre italiane, a Pisa e a Milano (che chiude domenica prossima a mezzanotte).

In questi cinquant’anni, la produzione artistica di Warhol ha raggiunto una visibilità mondiale. Peraltro, i prezzi battuti da Sotheby’s lo scorso novembre, con la Silver Car Crash aggiudicata per 105,4 milioni di dollari avrebbero confermato Warhol nella sua idea, che «esser bravi negli affari è la forma d’arte più elettrizzante». È ovvio: se si abbattono i limiti che relegano l’arte in un ambito separato dal mondo reale, e se il mondo è dominato dagli affari, non c’è modo migliore per un’opera d’arte di affermarsi nel mondo che quello di tenersi su col prezzo.

Ma sono davvero le serate da Sotheby’s o da Christie’s a fare, oltre al prezzo, anche il valore artistico dell’opera? Danto in realtà non ha mai sposato la teoria istituzionalista dell’arte, per la quale è opera d’arte ciò che il sistema dell’arte decreta che sia tale (affaristi compresi). Questo decreto, obiettava il filosofo americano, deve pur essere emesso in base a ragioni: quel che allora ci interessa davvero sono proprio queste ragioni.

Il punto è che però, dopo l’orinatoio di Duchamp, gli objets trouvés di Jasper Johns e le scatole di compensato di Warhol, non c’è più nessun oggetto che non possa entrare, tal quale o almeno sub specie repraesentationis,  nello spazio dell’arte. Dal momento che si possono quindi dare due oggetti perfettamente identici sotto l’aspetto materiale, di cui però uno è un’opera d’arte e l’altro no, le ragioni che ne fanno un’opera d’arte non riposano più nell’aspetto sensibile delle cose. Fine dell’estetica (e fine dell’arte legata all’apprezzamento estetico). Dove riposano, allora? La risposta di Danto è in una parola: Artworld, ossia nel mondo dell’arte, nella relazione di senso che l’opera d’arte intrattiene con il mondo che la circonda e per cui prende il significato di opera. Sarà per esempio il potere di rivelazione che le icone di Warhol dimostrano nei riguardi di ciò che noi stessi siamo, nell’epoca del consumo di massa, a conferire alle sue opere il titolo di artisticità. Ma questo potere esse non lo possiedono in sé, ma solo rispetto al mondo che in esse si specchia. (Anzi: si ripete fino alla noia).

La tesi di Danto è esposta alle solite obiezioni che si muovono in filosofia ogni volta che la contesa sembra dividere realisti da idealisti (il che la dice lunga su questa maniera di far filosofia, più che sull’opera d’arte). Se i secondi dicono che non è la realtà oggettiva, materiale dell’opera a decidere del suo valore artistico, i primi obiettano che le ragioni di contesto – l’Artworld – sono troppo mutevoli, e in definitiva risiedono solo nelle credenze di certi individui. Il che è un po’ poco. La teoria di Danto finisce così col non essere più una teoria dell’arte, ma al più una teoria sulle credenze per cui certuni ritengono che alcuni oggetti siano opere d’arte.

È possibile superare questo stallo? Forse no. Forse no se i termini rimangono quelli intorno a cui si annoda nella discussione, per cui è oggettivo solo ciò che è materiale, mentre ciò che non è materiale e per definizione soggettivo, quindi mutevole e insomma arbitrario. Ma questa è affare di una (vecchia) disputa squisitamente filosofica. Invece della quale, si può almeno provare a volgere in positivo lo stallo in cui ci si è cacciati. Si può cioè provare non a definire in generale che cos’è un’opera d’arte – impresa sempre più ardua, e forse persino inutile – ma a farne esperienza proprio là, dove la teoria formulata a suo proposito fallisce.

Questo è in fondo quel che capitò a Danto nel ’64, alla Stable Gallery: aveva certe idee sull’arte che i barattoli di Warhol furono in grado di buttargli all’aria. Più che la successiva sistemazione, la razionalizzazione ex post di quell’esperienza in una teoria, quel che conta è proprio l’esperienza che Danto poté fare. E, in fin dei conti, nonostante le parole di Warhol sul quarto d’ora di celebrità che non si nega a nessuno, alle sue opere è toccato ben più di un quarto d’ora, visto che sono ancora lì dopo cinquant’anni, – e in Italia fino a domenica -, come occasione di un possibile incontro. (Anzi: di un possibile trauma).

(L’Unità, 8 marzo 2014)

La diaspora grillina

ImmagineCom’era quel motivetto di cinquant’anni fa? E se prima eravamo in due a cantare l’alligalli, adesso siamo in tre a cantare l’alligalli. Poi quattro, poi cinque. Ed effettivamente, tra dimissionari, fuoriusciti, espulsi della prima e dell’ultima ora, ce n’è abbastanza perché al Senato non si intoni festosi il motivetto di Gigliola Cinquetti, ma si costituisca almeno un gruppo autonomo di ex-grillini, orfani di Beppe Grillo. E in un quadro politico fragile, con numeri piuttosto risicati a sostegno del governo Renzi nella Camera alta, l’eventuale costituzione di un nuovo gruppo parlamentare non rischia affatto di passare inosservata.

In verità, la fragilità dei partiti politici italiani è un dato permanente della seconda Repubblica: neanche il movimento 5 stelle fa eccezione, sia pure seguendo dinamiche sue proprie, legate sostanzialmente al ruolo es-lege di Beppe Grillo. Succede così che al termine di una legislatura i cambiamenti di casacca, le transumanze da uno schieramento all’altro, o da uno schieramento a nessun schieramento, nel limbo accogliente del gruppo misto, raggiungano numeri a tre cifre. È un dato ormai strutturale che dipende tanto dalla debolezza cronica delle strutture di partito, prive di cemento culturale, di legami ideologici, di solidi noccioli programmatici, o anche solo di robusti vincoli organizzativi, ma che è probabilmente anche un effetto del maggioritario di coalizione, principio cardine delle leggi elettorali degli ultimi vent’anni – par di capire anche dell’Italicum – leggi che in vario modo in questi anni han messo insieme gruppi e persone i più disparati, come l’incontro fortuito tra un ombrello e una macchina per cucire su un tavolo anatomico. Nell’arte forse possono stare insieme, ma nella vita parlamentare prima o poi si separano.

E vanno a formare un nuovo gruppo. Cosa faranno i grillini una volta compiuto il grande passo è ancora presto per dirlo. All’indomani dell’espulsione, si ascoltano inevitabilmente inflessibili dichiarazioni di fedeltà ai principi, al programma, alle battaglie del movimento, dal quale pure, obtorto collo, ci si è dovuti separare. Ma se la legislatura dovesse durare, se il governo Renzi dovesse svoltare non soltanto il semestre europeo ma anche quello successivo, e quello dopo ancora, è difficile immaginare che la pattuglia sempre più folta di grillini in libera uscita rinunci a fare politica. Rinunci cioè a incidere sulla dialettica parlamentare, dal momento che è proprio l’assoluta irrilevanza, per Grillo, delle dinamiche politico-parlamentari ad aver prodotto prima i mugugni, poi le critiche, infine l’aperto dissenso (e quindi la cacciata furibonda dal Paradiso dei 5 Stelle).

Vi sono a questo punto due possibilità. O due direzioni. Seguendo la prima, il nuovo gruppo di senatori potrebbe cercare un terreno di convergenza a sinistra, con Sel, con pezzi erratici della minoranza piddina, su materie sulle quali è più facile per loro trovare un’intesa: la Tav, gli F-35, i diritti civili. Una piattaforma, insomma, pacifista, ecologista e dei diritti, che potrebbe essere presentata come quel cambiamento a sinistra tanto auspicato, tanto promesso e però non realizzato dal governo Renzi (che diventerebbe vieppiù il governo Renzi-Alfano). Questa è, nel Pd, la proposta sulla quella sembra lavorare Civati, per mettere in difficoltà Renzi, e intestarsi la rappresentanza della (presunta  vera) sinistra in Italia.

L’altra direzione seguirebbe una rotta di avvicinamento alla maggioranza di governo, in forma variabile e, anche questa volta, su singole issues, ma più facilmente recepibili dal premier, che potrebbe per esempio rilanciare con forza la carta dei costi della politica, da tagliare drasticamente. Dopo tutto, la rottamazione è la versione light del vaffa-day grillino: Renzi potrebbe riproporla, per aggiungere qualche voto alla sua maggioranza e muoversi con qualche libertà in più e qualche condizionamento in meno nella «palude» parlamentare.

In ogni caso, quel che è certo è che nel giro di un anno appena dal voto nulla o quasi si presenta oggi, in Parlamento, così come si è presentato ieri alle elezioni. E questa, per Matteo Renzi, è più probabilmente un’opportunità che un rischio.

(Il Mattino, 7 marzo 2014)

La politica non è solo per uomini

Immagine«La parità di genere non si impone per legge» ha stabilito Maria Stella Gelmini, e per questo Forza Italia non si è dichiarata disponibile agli emendamenti che invece ne accolgono il principio, imponendo ad esempio l’alternanza uomo/donna in lista e la metà dei capilista donne. Forse, se all’ex Ministro avessero chiesto della festa della donna, che cade domani, avrebbe proseguito contrariata osservando che nemmeno quella si può imporre per legge. Si può imporre infatti di festeggiare qualcuno o qualcosa, conculcando il diritto di libertà di chi invece proprio non vuol far festa? Evidentemente no. Perciò: via la festa. E forse anche: via quel senso di un vincolo collettivo, pubblico, che si cerca di affidare ai gesti e alle manifestazioni dell’8 marzo.

A pensarci bene, poi, le parole della Gelmini sono un filo pleonastiche: non solo, avrebbe dovuto dire, le quote rosa non si impongono per legge, ma non si impone niente a nessuno. Non è questione di imposizione, insomma. Bensì di cortesia, di buona volontà, di garbo e, perché no?, di cavalleria. Il tutto messo in un pacchetto e ben confezionato con in bella vista l’importante dicitura: «cultura». È questione di cultura, si dice infatti. Se non cambia la cultura del paese, la presenza delle donne nelle istituzioni non sarà mai davvero paritaria.

Intanto, però, è da dire che le cose stanno già cambiando: il 30 per cento della composizione dell’attuale parlamento è costituito dalle donne (e svettano, quasi alla pari, le rappresentanza dei 5 Stelle e del Pd). È la percentuale più alta dall’inizio della storia repubblicana. In secondo luogo, e soprattutto, si dimentica che le leggi costituiscono uno strumento fondamentale proprio per il cambiamento della cultura di un Paese. Se è questione di cultura, è anche perché certe leggi promuovono attivamente una certa cultura: aperta per esempio ai diritti fondamentali, all’uguaglianza, alla parità di genere. Certo, Alcune volte sono i cambiamenti sociali e culturali del paese a imporre mutamenti del corpo delle leggi, ma altre volte va al contrario, e non c’è alcun motivo per essere così perentori come la Gelmini, rifiutando di percorrere una delle due direzioni. Anche perché, nonostante i progressi compiuti, l’Italia è ancora un Paese a rappresentanza prevalentemente, quando non esclusivamente maschile: alla Presidenza della Repubblica, alla Corte Costituzionale, alla Corte dei Conti, alla Presidenza del Senato, e via elencando i vertici delle nostre istituzioni. Fa parzialmente eccezione la Camera, che ha avuto tre Presidenti donna, e ora il governo, dove il numero di uomini e donne è, finalmente, pari. Ma non si capisce perché non aiutare questo processo, cosa si teme da un maggiore ingresso delle donne nel Parlamento. La cui credibilità (dico quella delle Camere, non delle donne) è peraltro attualmente così bassa, come dimostra il rapporto Eurispes sul grado di fiducia nelle istituzioni, che ben difficilmente le quote rosa potrebbero peggiorarlo. D’altronde, la neo-capogruppo del Ncd alla Camera, Nunzia De Girolamo, ha ricordato proprio ieri alla Gelmini, in un tempo non lontano sua collega di partito, che ormai facciamo valere per legge la parità di genere nei consigli di amministrazione, sicché non si capisce perché per le Camere il principio non debba valere. Ed effettivamente: non si capisce. Il Pd in verità lo capisce il principio e lo adotta. Forza Italia no, non lo adotta e forse non lo capisce.

Si capisce invece quel che ripeteva spesso Tina Anselmi, figura prestigiosa della politica italiana: «nessuna vittoria è irreversibile. Dopo aver vinto possiamo anche perdere, se viene meno la nostra vigilanza». È giusto. Ma è vero pure che una legge può rendere un po’ meno reversibile l’incremento della rappresentanza femminile nel Parlamento italiano.

(L’Unità, 7 marzo 2014)

La crisi del Sud e la retorica della colpa

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Vi sono due tesi abbondantemente infondate che circolano nell’opinione pubblica, a proposito del Sud e del suo divario dal resto del Paese. Che circolano – aggiungiamo – nonostante o forse proprio a causa della loro falsità. La prima tesi dice più o meno: negli ultimi decenni si va imponendo  presso l’intellettualità meridionale un discorso «sudista», in chiave anti-italiana, che condanna l’unificazione del Paese come causa di tutti i mali che al Sud ne sarebbero di lì in poi venuti. La seconda tesi dice invece che la deteriore piega «sudista» del discorso meridionalista è essa stessa effetto della crisi del Mezzogiorno, della sua arretratezza civile, culturale e sociale, oltre che economica, e dunque è responsabile, o almeno corresponsabile, di quel processo di disarticolazione dell’unità nazionale di cui si registrano sempre nuovi sintomi.

Un tempo si diceva: ex falso quodlibet. Da una tesi falsa si può tirar fuori qualunque cosa; da un paio di premesse mal poste può venir fuori una conclusione falsa come una vera, a piacimento. Ed effettivamente, nel caso delle considerazioni sulla questione meridionale proposte da Galli della Loggia, la conclusione è, pure quella, falsa. La conclusione è infatti la seguente: il discorso oggi dominante se la prende con Cavour e Garibaldi per assolvere le classi dirigenti meridionali. Volenti o nolenti, l’effetto sarebbe quello: dare la colpa all’unità d’Italia, ai piemontesi, al Nord per presentare il Sud come innocente vittima sacrificale degli interessi settentrionali, come se il Sud non scontasse affatto, scrive severo l’editorialista del Corriere, una «secolare condizione storica, economica, geografica, culturale» di ritardo rispetto al resto della penisola.

Ora, in questa riflessione c’è anzitutto qualcosa che non va dal punto di vista della sua coerenza interna. Se infatti ce la dobbiamo prendere con i bui secoli passati, non solo non possiamo dare la colpa al Nord cattivo, ma neppure possiamo prendercela con le classi dirigenti meridionali, le quali potranno sempre gettare la croce alle proprie spalle, sui secoli lontani. E invece Galli della Loggia vuole invitare la cultura del Mezzogiorno a distinguere le responsabilità presenti: l’invito, come minimo, è formulato male.

Ma lo si può accogliere ugualmente, perché la «questione meridionale», così come ci sforziamo di riproporla sulle colonne di questo giornale, tutto vuole essere meno che una generica assoluzione delle responsabilità storiche e politiche del ceto dirigente al Sud. Gramsci, a questo riguardo, è citato da Galli della Loggia abbastanza a sproposito, perché nella sua impostazione era proprio la saldatura fra certi interessi (industriali) del Nord e certi interessi (agrari) del Sud del  Paese a costituire l’avversario contro il quale battersi. Bene, ma per riconoscere una tale saldatura occorrerebbe almeno condividere l’idea di uno sviluppo distorto del Paese, e ineguale. Per correggere il quale, o anche solo per provare a farlo, sarebbe altresì necessario mettere nuovamente al centro della politica nazionale la questione meridionale: è questo nesso di politica generale che oggi manca del tutto, come ci sforziamo di ripetere. È esso che viene bellamente ignorato, quando si sostiene che la colpa è tutta del Sud: dei suoi secolari ritardi e delle sue presenti miserie. E invece né gli uni né le altre stanno al mondo da sole, senza quelle connessioni storico-politici che coinvolgono la vicenda nazionale intera, come Gramsci si sforzava a modo suo di portare alla luce.

Ma è chiaro che se si sceglie come bersaglio polemico un certo colore neo-borbonico, se lo si usa come testa di turco della polemica, per confondere in un generico «sudismo» straccione il tentativo di correggere la trazione nordista della seconda Repubblica, tutto viene sin troppo facile.

Viene così facile il tentativo quasi surreale di sostenere che gli ultimi decenni del discorso pubblico sono stati dominati da una sorta di macchiettistico revanscismo borbonico, e non invece da una inedita, ma aggressiva «questione settentrionale» presentata come la vera questione italiana, il Sud dovendo infatti imputare soltanto a se stesso i suoi ritardi, le sue inefficienze, le sue corruttele. Viene facile, infine, proporre il paradosso per cui le spinte disgregatrici allignerebbero in questo desiderio reazionario di ritorno all’arcadica età pre-unitaria, come se in Parlamento sedessero a chiedere la secessione i rappresentanti di re Ferdinando, e non invece i leghisti, quelli dello spadone di Alberto da Giussano e dell’ampolla del dio Po. Il rovesciamento non potrebbe essere più completo: nonostante i libri di Ricolfi o di Stella e Rizzo, non è dominante, secondo Galli della Loggia, la retorica per cui è tutta colpa del Sud, ma quella per cui è tutta colpa del Nord.

Il che è falso, ed è una falsità che con le sue due tesi si stringe a tenaglia sul tentativo di riproporre invece la questione meridionale negli unici termini in cui deve essere posta: come una questione che non può non impegnare lo Stato nazionale unitario. Impegnare allo spasimo, come una questione decisiva. E che perciò non manda assolto nessuno: non gli uomini politici meridionali, così poco all’altezza della situazione, ma di sicuro nemmeno un ceto politico nazionale prevalentemente del Nord, che la questione non sa più non diciamo affrontarla, ma nemmeno nominarla.

(Il Mattino, 6 marzo 2014)