Il completamento della squadra di governo, con la nomina di viceministri e sottosegretari, porta sempre con sé qualche sorpresa. Questa volta è toccato al sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca, provare il sapore amaro dell’esclusione. A De Luca non ha certo giovato il conflitto aperto con il ministro Lupi e l’infinita querelle sulle mancate deleghe nella precedente esperienza di governo, con Letta. Ma la discontinuità segnata dalla scelta di Renzi di non confermarlo merita una lettura più ampia: a volte i casi personali possono divenire esemplari. Nel breve volgere di una stagione, da una primaria all’altra, De Luca era riuscito a trasferire senza danni da Bersani al sindaco di Firenze il suo amplissimo consenso personale, frutto di una lunga esperienza amministrativa peraltro assai apprezzata nella sua città. In forza di quel vasto consenso, ha però giocato a Roma una partita tutta personale, e preteso non per altri che per sé un ruolo di primo piano. Senza mediazioni possibili. Più che un progetto politico, una visione complessiva del Mezzogiorno, la costruzione di alleanze politiche e sociali che andassero oltre la dimensione locale e si saldassero entro un quadro di riferimento nazionale, De Luca ha offerto a Renzi soltanto se stesso e le sue personali ambizioni: non poteva bastare.
Senza accorgersene (ma non senza volerlo), De Luca è peraltro divenuto col tempo un personaggio ingombrante, persino controverso. I motivi del suo successo – il suo linguaggio a dir poco colorito, il suo pragmatismo spregiudicato, l’indisponibilità a confondersi con l’intero orbe politico – hanno finito col segnarne anche i limiti. Campione di amministrazione e spiccio capobastone, De Luca non ha saputo essere la prima cosa senza essere anche la seconda. E questa seconda si capisce benissimo come non possa, per Renzi, sedere al governo. Con ciò non siamo ancora alla rottamazione di De Luca, ma tenendolo fuori Renzi ha mostrato di avere chiaro che bisogna cominciare da un’altra parte: non si può pensare di costruire il nuovo con gli ultimi rappresentanti, del vecchio.
Resta però che si tratta, per l’appunto, di costruire: una diversa immagine del Sud, e una via per lo sviluppo, che non può passare soltanto dalla destinazioni dei fondi europei o, che so, dall’emergenza criminalità. Ci vuole il riconoscimento che la questione meridionale non è un’invenzione del Sud ma un problema dell’Italia; non una sventura che i meridionali devono sbrigarsi da soli, ma il luogo in cui si decide dell’Italia come nazione. È insomma questione di indirizzi di politica generale, più che di singoli uomini. Con tutto il rispetto possibile: i singoli uomini passano, e il divario fra il Nord e il Sud, purtroppo, resta.
(Il Mattino, 1 marzo 2014)