Com’era quel motivetto di cinquant’anni fa? E se prima eravamo in due a cantare l’alligalli, adesso siamo in tre a cantare l’alligalli. Poi quattro, poi cinque. Ed effettivamente, tra dimissionari, fuoriusciti, espulsi della prima e dell’ultima ora, ce n’è abbastanza perché al Senato non si intoni festosi il motivetto di Gigliola Cinquetti, ma si costituisca almeno un gruppo autonomo di ex-grillini, orfani di Beppe Grillo. E in un quadro politico fragile, con numeri piuttosto risicati a sostegno del governo Renzi nella Camera alta, l’eventuale costituzione di un nuovo gruppo parlamentare non rischia affatto di passare inosservata.
In verità, la fragilità dei partiti politici italiani è un dato permanente della seconda Repubblica: neanche il movimento 5 stelle fa eccezione, sia pure seguendo dinamiche sue proprie, legate sostanzialmente al ruolo es-lege di Beppe Grillo. Succede così che al termine di una legislatura i cambiamenti di casacca, le transumanze da uno schieramento all’altro, o da uno schieramento a nessun schieramento, nel limbo accogliente del gruppo misto, raggiungano numeri a tre cifre. È un dato ormai strutturale che dipende tanto dalla debolezza cronica delle strutture di partito, prive di cemento culturale, di legami ideologici, di solidi noccioli programmatici, o anche solo di robusti vincoli organizzativi, ma che è probabilmente anche un effetto del maggioritario di coalizione, principio cardine delle leggi elettorali degli ultimi vent’anni – par di capire anche dell’Italicum – leggi che in vario modo in questi anni han messo insieme gruppi e persone i più disparati, come l’incontro fortuito tra un ombrello e una macchina per cucire su un tavolo anatomico. Nell’arte forse possono stare insieme, ma nella vita parlamentare prima o poi si separano.
E vanno a formare un nuovo gruppo. Cosa faranno i grillini una volta compiuto il grande passo è ancora presto per dirlo. All’indomani dell’espulsione, si ascoltano inevitabilmente inflessibili dichiarazioni di fedeltà ai principi, al programma, alle battaglie del movimento, dal quale pure, obtorto collo, ci si è dovuti separare. Ma se la legislatura dovesse durare, se il governo Renzi dovesse svoltare non soltanto il semestre europeo ma anche quello successivo, e quello dopo ancora, è difficile immaginare che la pattuglia sempre più folta di grillini in libera uscita rinunci a fare politica. Rinunci cioè a incidere sulla dialettica parlamentare, dal momento che è proprio l’assoluta irrilevanza, per Grillo, delle dinamiche politico-parlamentari ad aver prodotto prima i mugugni, poi le critiche, infine l’aperto dissenso (e quindi la cacciata furibonda dal Paradiso dei 5 Stelle).
Vi sono a questo punto due possibilità. O due direzioni. Seguendo la prima, il nuovo gruppo di senatori potrebbe cercare un terreno di convergenza a sinistra, con Sel, con pezzi erratici della minoranza piddina, su materie sulle quali è più facile per loro trovare un’intesa: la Tav, gli F-35, i diritti civili. Una piattaforma, insomma, pacifista, ecologista e dei diritti, che potrebbe essere presentata come quel cambiamento a sinistra tanto auspicato, tanto promesso e però non realizzato dal governo Renzi (che diventerebbe vieppiù il governo Renzi-Alfano). Questa è, nel Pd, la proposta sulla quella sembra lavorare Civati, per mettere in difficoltà Renzi, e intestarsi la rappresentanza della (presunta vera) sinistra in Italia.
L’altra direzione seguirebbe una rotta di avvicinamento alla maggioranza di governo, in forma variabile e, anche questa volta, su singole issues, ma più facilmente recepibili dal premier, che potrebbe per esempio rilanciare con forza la carta dei costi della politica, da tagliare drasticamente. Dopo tutto, la rottamazione è la versione light del vaffa-day grillino: Renzi potrebbe riproporla, per aggiungere qualche voto alla sua maggioranza e muoversi con qualche libertà in più e qualche condizionamento in meno nella «palude» parlamentare.
In ogni caso, quel che è certo è che nel giro di un anno appena dal voto nulla o quasi si presenta oggi, in Parlamento, così come si è presentato ieri alle elezioni. E questa, per Matteo Renzi, è più probabilmente un’opportunità che un rischio.
(Il Mattino, 7 marzo 2014)