Perché difendere con orgoglio il Mezzogiorno

ImmagineDopo anni in cui la questione meridionale era venuta addirittura a noia, come un disco rotto o una lagna sempre uguale, ora finalmente se ne comincia nuovamente a parlare: è un bene o un male? È un bene. Sarà forse merito dei dati diffusi l’altrieri dalla magistratura contabile? Non proprio. Intanto, la Corte dei Conti ha certificato che la pressione fiscale è al Sud più alta del 2,5% rispetto alle aree del Nord. Dopo più di vent’anni di ideologia nordista, e di una pratica federalista (o pseudo tale) assai distorta, che non solo non riduce il divario fra Nord e Sud ma anzi contribuisce ad accentuarlo, il risultato è là: messo nero su bianco dalla Corte. E tuttavia non sono i dati sulla pressione fiscale o sull’emigrazione nel Mezzogiorno a mobilitare le migliori e più vivaci energie intellettuali del Paese, per spingere con forza la questione meridionale al centro della politica nazionale. Accade anzi, al contrario, che si levi una critica circa il ruolo – la complicità, la connivenza, la sudditanza – degli intellettuali meridionali. Inutili corifei del potere, essi sarebbero dediti soltanto a rivangare il passato e a inondare il discorso pubblico di false questioni (la «questione meridionale» come falsa questione!), pur di non denunciare le responsabilità dei gruppi dirigenti locali. Impegnati cioè a costruire alibi, per se stessi o per l’eterno notabilato meridionale, avrebbero perso voce, credibilità, autorevolezza, per averne in cambio solo favori, grandi o piccoli.

Può darsi. Anzi sicuramente è così: c’è un bel pezzo della società meridionale che vive soltanto di favori, e gli intellettuali, ahiloro, non fanno eccezione. Però chi vuol provare a recuperarla, codesta autorevolezza, non solo non può attardarsi nell’elogio della monarchia borbonica, nella costruzione di nuovi miti consolatori o nel sogno di piccole, piccolissime patrie: d’accordo. Non solo non può sognare di propiziare riti assolutori nei confronti delle classi dirigenti che hanno governato il Sud negli ultimi venti o trent’anni. Se anzi serve dirlo con maggiore chiarezza: i limiti dell’azione amministrativa delle passate amministrazioni municipali o regionali – campane in particolare e meridionali in genere – sono gravi ed evidenti. Sono i risultati a dimostrarlo: non saremmo dove siamo, cioè più indietro di vent’anni fa, se la sinistra che ha governato in questi anni potesse vantare un buon ruolino di marcia. Il giudizio è un po’ tagliato con l’accetta ma non importa. Importa però, se davvero si vuole recuperare autorevolezza, fare un altro passo e non eludere il punto decisivo: i dati, i numeri, le cifre della Corte dei Conti. E quel che significano.

Perché qui sta la responsabilità principale, politica e intellettuale: nell’evitare la vera e più allarmante subalternità, che non è quella che lega i tronfi letterati del Mezzogiorno alla grassa sfera del potere, bensì piuttosto quella che ci tiene tutti così ben dentro un orizzonte ideologico antimeridionalista, così ben dentro il racconto del Sud profittatore e sprecone, che a fatica si riesce a far leggere al Paese i dati resi noti dalla Corte dei Conti, tanto che essi nemmeno compaiono sulla grande stampa nazionale di ispirazione nordista e sui suoi dorsi locali. Insomma: il Sud paga di più in termini di tasse: lo si può dire? Anzi, domandiamo meglio: lo si deve dire o no? E soprattutto cosa comporta il dirlo? Quali pregiudizi  possiamo provare a scuotere dicendolo? E come mai è così difficile dirlo, o ascoltarlo, da Roma in su (e purtroppo, a proposito di subalternità, anche da Roma in giù)?

È solo un esempio, naturalmente, però è assai significativo (oltre che fresco di giornata). Ma di esempi se ne potrebbero fare tanti, anche se occorre, va da sé, sceglierli con cura. Se si sceglie ad esempio il comportamento civile e decoroso dei napoletani sulla Linea 1 della metropolitana di Napoli, che non ha nulla da invidiare a quello degli abitanti di qualunque altra metropoli europea, mentre sulle altre linee di trasporto assai più disastrate succede di tutto – se si sceglie questo esempio, dicevo, cosa si dimostra? Forse, provo a suggerire, che il problema del Mezzogiorno non sta nelle secolari condizioni di ritardo del Sud, né in chissà quali costanti antropologiche, in limiti atavici, o in un deficit cronico di capitale sociale, ma – stando almeno all’esempio – in investimenti ben mirati nell’infrastrutturazione di base. L’esempio sembra dimostrare cioè che se fai treni decenti anche il comportamento sarà decente, e al contrario se i treni non li fai, se le scuole non le aggiusti, se infine i fondi europei li dirotti altrove e i trasferimenti li tagli, è più difficile avere una società civile decente.

Stiamo perciò ai fatti. il divario fra Nord e Sud si è ridotto significativamente solo nel secondo dopoguerra, grazie a un’importante politica di investimenti. Tenerlo presente non significa augurarsi che si sperperi denaro pubblico, o che si mantenga il Sud nelle condizioni di un’economia assistita. Ma polemizzare solo in questi termini, per dire magari che è tutta colpa del Sud, non porta da nessuna parte, consolida questo sì la voga corrente e soprattutto non dà un’oncia di visibilità in più alla denuncia della Corte dei Conti. Ci si preoccupa insomma della retorica vittimista degli intellettuali meridionali; io mi preoccuperei invece di quella colpevolista. O più seriamente: lascerei perdere l’una e l’altra e mi preoccuperei di riportare almeno i fatti. E non certo per starsene «contenti al quia, e più non dimandare», ma al contrario perché siamo scontenti di come vanno le cose e proviamo con forza a domandare, sulle colonne di questo giornale. 

(Il Mattino, 9 marzo 2014)

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