Nel giorno, in cui la Camera dei Deputati licenzia l’Italicum, non senza qualche batticuore, nella sede del consiglio regionale campano si fanno i conti con la mancanza del numero legale, che l’altro ieri ha reso a tutti evidenti i problemi della maggioranza che sostiene la giunta Caldoro. La fine naturale della consiliatura non è più così naturale.
Sono cose diverse, si dirà: un conto sono le sorti politiche nazionali, un altro le faccende degli enti locali. E poi le due vicende hanno un segno inverso: di là una nuova legge elettorale, e secondo il premier il primo punto segnato dalla politica contro il disfattismo; di qua invece una sconfitta della politica e il rinvio del consiglio a data da destinarsi; di là il primo scatto fuori dalla palude, di qua invece l’impantanarsi nella palude.
C’è però, al di là delle circostanze, un termine medio che tiene insieme i due estremi. O, al contrario, che non tiene né contiene più nulla. Quel termine sono i partiti politici, il luogo in cui dovrebbero comporsi interessi, forze, ideali, e che invece appaiono in avanzato stato di decomposizione. I partiti, così almeno come li intendeva la Costituzione, come soggetti organizzati dotati di autonoma cultura politica, non esistono quasi più. In particolare non esistono nel Mezzogiorno, dove sembrano condurre un’esistenza parassitaria solo dentro le istituzioni, essendo ormai irriconoscibili e impresentabili in società. Le dinamiche con cui pezzi di partito si staccano o si riattaccano, si dividono o si riuniscono non solo non hanno alcun significato ideale, ma non parlano neppure a interessi diversi e più larghi di quelli che costituiscono quei pezzi stessi. La rappresentanza è quasi del tutto evaporata. Così oggi, in consiglio regionale, il gruppo di Forza Campania, staccatosi dalla maggioranza e passato di fatto all’opposizione, non può essere descritto adeguatamente se non per mezzo di un semplice cognome: sono i cosentiniani. Nient’altro: non basi ideologiche o programmatiche, l’area politica coincide perfettamente con il grosso grumo di potere che si raccoglie intorno all’ex sottosegretario all’Economia. Come si vede, la demonizzazione per via giudiziaria non c’entra nulla; c’entra invece, e come, il degrado della politica.
Se questo è lo stato delle cose, colpisce che il governatore Caldoro non avverta l’urgenza di ricostituire dalle fondamenta le ragioni di un vero patto politico, non semplicemente preoccupandosi di conservare il consenso, ma restituendogli il valore di una rappresentazione di ragioni, senso, progettualità. Che non senta cioè anche lui l’esigenza di scrivere da qualche parte: la politica segna un primo punto contro il disfattismo. Di sicuro, se pensa che affidarsi a Luigi Cesaro nella prossima competizione per le europee sia la maniera migliore per spezzare le sordide trame dei cosentiniani, non segnerà alcunché. Non è infatti cercando di contrapporsi pezzo a pezzo in una pura lotta di potere che potrà dare una prospettiva allo scorcio di mandato che gli rimane, e alla sua probabile ricandidatura. Caldoro ha tutto il diritto di esibire i risultati del suo governo, presentandoli come un’inversione di tendenza rispetto al passato. Ma ha il dovere di indicare una direzione, che non può consistere nel far scegliere gli elettori di centrodestra fra Cosentino e Cesaro. Sono questi i campioni della politica che vuole proporre ai cittadini campani, per dare qualche parvenza di credibilità spessore all’idea stessa di rappresentanza, che è alla base delle istituzioni della democrazia rappresentativa?
Intanto l’Italicum passa dalla Camera al Senato. La preoccupazione di liberare il paese dall’incantesimo del porcellum sta forse dando al paese un primo punto, come dice orgogliosamente Renzi. Ma il problema resta: il termine medio, i partiti. La migliore legge elettorale, quella che più di tutte assicura governabilità (e, onestamente, l’Italicum non è la migliore legge, bensì solo l’unica che finora si sia riusciti a fare), non può comunque risolvere il problema più grande della politica italiana: chi o cosa sono ormai i partiti che ci governano?
(Il Mattino – Napoli, 13 marzo 2014)