Se Casal di Principe non ha partecipato alla marcia per don Diana nel ventennale della morte per omertà e connivenza con la camorra, o semplicemente per quieto vivere, è una sconfitta per l’antimafia; e se invece non vi ha partecipato perché disperata oppure priva di prospettiva, come taluno ha detto, oppure semplicemente perché stanca e sfiduciata, come forse è più probabile, anche in questo caso è una sconfitta per l’antimafia, e forse anche una sconfitta più bruciante. In un caso e nell’altro, però, per l’antimafia è una sconfitta.
È singolare quanta cura, a volte, si metta nel non vedere i fatti. Il fatto, il semplice fatto che da una parte abbiano sfilato gli alunni delle elementari e i parlamentari dell’Antimafia, insieme alle autorità e alla Chiesa locale, e da un’altra, da tutt’altra parte sia rimasta la maggioranza dei cittadini mostra ad oculos, che l’una parte non vuol più dire nulla per l’altra. Le spiegazioni vengono dopo; il fatto invece è questo, e bisognerebbe prenderne atto. Quando ci si mette in cerca affannosa delle cause, è già troppo tardi. Il compito civile, e sociale, dell’antimafia non è infatti un compito conoscitivo, inquirente, giudiziario, legislativo: sta accanto a tutti questi ma non si risolve in essi. Ha a che vedere invece con l’esigenza di ritrovare parole e gesti eloquenti per la generalità dei cittadini a cui le istituzioni si rivolgono. Cosa che evidentemente le marce come quella di ieri l’altro non riescono più ad essere, nonostante l’indubbia buona volontà di organizzatori e partecipanti. E l’avverbio «evidentemente» non è scelto a caso, ma perché l’evidenza sia più forte e lampante delle prediche moraleggianti, più o meno sincere, che i casalesi si devono in questa come in ogni altra circostanza sorbire.
Così come scrivo casalesi a bella posta. Nella stanchezza e nella sfiducia c’è infatti anche questo, che da quelle parti bisogna lottare persino per i nomi. Perché casalese non sia sinonimo di camorrista ma voglia dire abitante di Casale e nulla più. Se però non sappiamo restituire il nome alle cose, alle persone, perché le persone dovrebbero andare appresso ai discorsi?
Certo: per quanto significativo, l’episodio è solo un episodio. Ma comprenderne il significato vuol dire andare al di là di esso e auspicare un più generale ripensamento di come difendere e promuovere la legalità, la sicurezza, la rinascita civile di una città, di un territorio o di un pezzo del Paese. Senza impancarsi in difese ufficiali sempre uguali a se stesse, e senza nemmeno ergersi a coscienze indignate, come se ogni volta che si prova a discutere – ma più semplicemente direi: a stare ai fatti – si attentasse ai valori irrinunciabili della Costituzione, al sacrario della coscienza morale o a quello del diritto e della legge. Nulla di tutto ciò. Se Casal di Principe non marcia non è perché sta contro quelli che marciano, ma perché non capisce più che senso abbia marciare. E non basta certo puntare il dito severi per mettere tutti in riga. Fiaccolate, sit-in e ogni genere di manifestazione si organizzano dappertutto per i più svariati motivi e va bene così. Ma pure le manifestazioni nascono e muoiono: hanno il loro tempo e il loro senso, che a volte può essere ritrovato così come a volte può finire. E finisce davvero, quando tutt’intorno cambia la scena, e la vita. O quando, al contrario, non cambia nulla affatto, e non si è in grado mettere in campo niente: in termini di promozione, non solo di repressione; e di ricostruzione, non solo di distruzione. Nessuna economia malata muore se non nasce un’economia sana. Cosa , al dunque, è più eloquente: il fallimento nella gestione dei beni confiscati alla camorra o l’ennesimo discorso ufficiale?
Nessuno vuole, con ciò, replicare astiosamente le polemiche contro i professionisti dell’antimafia, perché pure quelle vengono usate in maniera spesso strumentale. Ma verificare onestamente come vanno le cose, e rendersi conto che non vanno e che una gestione ottusa, burocratica, leguleia non produce risultati è davvero il minimo che si possa fare.
Non è Casale, non è il Sud, insomma, che non vuole cambiare: perché delle due parti, quella del paese «reale» che non sfila, e quella «ufficiale» che sfila, purtroppo è la seconda che non vede davvero la necessità di cambiare le cose. Di cambiare le cose e di cambiare se stessa.
(Il Mattino, 21 marzo 2014)