Archivi del mese: aprile 2014

Renzi e D’Alema pari sono

26-04-2014È una «confessione»: per il ministro del Tesoro Gian Carlo Padoan – passato anni fa, ben prima di arrivare a via XX settembre, per le stanze di Italianieuropei, la Fondazione presieduta da Massimo D’Alema – vi è una qualche continuità fra il governo Renzi di oggi e quello guidato da D’Alema nel ‘98, dopo la caduta di Prodi. Di più: la continuità è nell’«approccio», cioè nel metodo, ma anche nel fine: «cambiare la sinistra».

Vi si può leggere un sottinteso: quello che non riuscì allora può riuscire ora. Il che però obbliga a svolgere più a fondo la comparazione proposta dal ministro, che è meno ardita di quanto possa sembrare a prima vista. L’intera vicenda politica degli ultimi vent’anni è segnata infatti, a sinistra, da un’esigenza di cambiamento, conseguenza diretta dell’89, del crollo del Muro di Berlino e della fine della prima Repubblica. Che ora si giudichi incompiuta, tradita o disattesa quell’esigenza, resta il fatto che la sinistra non ha potuto non parlare in questi anni il linguaggio di chi prova a inventarsi una nuova identità. Anche D’Alema si diede un simile proposito: fare dell’Italia un «Paese normale» e costruire una diversa fisionomia per la sinistra di governo. Lo scontro con Cofferati e la CGIL sulle politiche per il lavoro resta indubbiamente il punto più significativo di quella non piccola ambizione.

Ora Renzi sembra darsi un obiettivo analogo. Le condizioni sono molto diverse: sia in termini di ciclo economico, che dal punto di vista dei mutamenti del quadro politico. Ma resta che il segno prevalente che Renzi ritiene di dover imprimere alla sua azione è quello della discontinuità, anzi della rottura (ed effettivamente fino a qualche mese fa si trattava di «rottamazione»).

Perché però è opportuna la comparazione suggerita da Padoan? Nulla si ripete mai tale e quale, ovviamente, ma ricordare quale fu secondo lo stesso D’Alema l’errore principale che egli commise può forse valere se non proprio come monito per Renzi, come istruzione per il buon uso del governo. D’Alema mollò il partito: ecco l’errore. Renzi, per la verità, non ci pensa nemmeno: è molto difficile infatti che lasci nei prossimi mesi la carica di segretario. Sembra allora che sia ben lontano dal fallo commesso dal suo predecessore. Non è però questione di controllo del partito (casomai, nel caso di Renzi, dei gruppi parlamentari), bensì della necessità di riversare nel partito, o di promuovere anche grazie al partito quell’innovazione di cultura politica che richiede un enorme investimento in idee ed uomini, e la capacità di disegnare una nuova visione della società. Non basta insomma entrare nei socialisti europei, se poi non si disegna un profilo politico conseguente.

Ora Renzi ha davvero innanzi a sé una sfida del genere, con due o tre punti in più a suo favore rispetto agli anni Novanta di D’Alema. Il primo: il centrodestra è assai distante, al momento, dal rappresentare un’alternativa reale. D’Alema lo ha detto di recente, quasi a malincuore: il gran privilegio di Renzi è che si misura con il Berlusconi più debole che ci sia mai stato. Il secondo punto: Renzi ha un capitale politico quasi intatto, non usurato da esperienze pregresse. Deve ancora sferrare il suo «first strike», il suo primo colpo. Le Europee gli serviranno probabilmente a questo. Il terzo e decisivo punto: il terreno sul quale deve costruire (e su cui deve potergli servire un partito degno di questo nome) è relativamente più sgombro di quanto non lo fosse negli anni Novanta, quando la sinistra si muoveva ancora in stato di necessità e per una sorta di cattiva coscienza. L’89 era decisamente troppo vicino. Così sui due versanti principali sui quali la sinistra era chiamata alla prova: l’europeismo da una parte (anzi, l’atlantismo: l’ex-comunista D’Alema diede il suo ok all’intervento Nato in Serbia) e il rigore finanziario e di bilancio dall’altro (Maastricht e il varo della moneta unica) – bisognava essere allora persino più realisti del re. Ma l’esigenza di cambiare la sinistra non può certo confondersi con il fare da sinistra le cose che la destra non riesce a fare. E quei terreni restano ancora i terreni su cui il Pd deve misurarsi, in Europa e al governo del Paese. Orbene, Renzi ha il vantaggio di non nutrire nessuno dei complessi di inferiorità che la sinistra storica ha invece nutrito. Gioca una partita nuova, e può giocarla senza avere un braccio legato. Può far prevalere la sua idea di politica economica senza travestimenti tecnici. Fare le sue scelte senza accampare la scusa dei vincoli esterni, senza fare il «riformista per forza». Forse, di governi fondamentalmente riluttanti ne abbiamo avuti davvero abbastanza.

(Il Mattino, 26 aprile 2014, col titolo Renzi-D’Alema, la stessa sfida vent’anni dopo)

Dei molti Giuda

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Chi tra gli uomini politici avrà «la maggior pena»? Chi penzolerà con le gambe da fuori, mentre Lucifero gli maciulla la testa? Perché questa è la sorte dei traditori, nell’ultimo canto dell’inferno dantesco. E quando hai visto Satana divorare Giuda Iscariota, e Bruto e Cassio che penzolano e si contorcono muti, «oramai è da partir/ ché tutto avem veduto»: dice bene Dante, hai davvero veduto tutto.

Solo che i tradimenti politici dei nostri giorni non sembrano avere lo stesso, grande formato. Buonaiuti che lascia Berlusconi dopo una vita vissuta accanto a lui non sembra destinato ad alcuna pena infernale, ma solo ad un’ultima, malinconica stagione nel nuovo centrodestra. Cioè nel partito di Alfano, l’ex delfino che a Berlusconi ha pure lui voltato le spalle, rifiutandosi di passare all’opposizione, con Forza Italia, per tenere in piedi il governo Letta. Che però è caduto lo stesso, anche grazie al rapido passaggio di campo di Dario Franceschini: da Bersani a Renzi. Sembra la fiera dell’est di Branduardi: e venne il cane che morse il gatto che si mangiò il topo, che al mercato mio padre comprò.

Ma chi compra chi? E chi si fa comprare? Chi tradisce per trenta denari? Quando il collante ideologico e culturale è bello che consumato, ci si orienta in base a più ravvicinate e tangibili convenienze, e ad ogni legislatura si fa il conto dei parlamentari che hanno cambiato formazione politica, gruppo, corrente di partito. E sono, badate bene, numeri a tre cifre. Il trasformismo, è vero, è sempre stato un fenomeno della vita politica italiana, dai tempi del connubio Cavour-Rattazzi, quando l’Italia non c’era nemmeno. Ma si è trattato spesso non di semplici voltafaccia, bensì di operazioni politiche condotte in grande stile, o di assunzioni di responsabilità decisive. A volte persino tragiche. Tradimento è anche quello di Galeazzo Ciano che vota l’ordine del giorno Grandi il 25 luglio 1943, segnando la caduta di Mussolini. Ma di mezzo c’è il Paese, la guerra, la fine del fascismo: ben più di una bega familiare, di una schermaglia parlamentare o di un brutale interesse individuale. Nella tremenda lettera indirizzata l’8 aprile 1978 alla moglie Aldo Moro, sentendosi umanamente prima che politicamente tradito, scrive dalla prigionia: «non posso non sottolineare la cattiveria di tutti i democristiani […]. E Zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro».  Ma si trattava di accettare, per salvare Moro, la richiesta di uno scambio di prigionieri politici che comportava un riconoscimento politico per le Brigate Rosse, molto più di quanto forse uno Stato democratico può fare.

Nulla del genere, nulla di così grande e terribile c’è invece nel ’94, con la fine del primo governo Berlusconi e il passaggio di Lamberto Dini dal centrodestra al centrosinistra, o qualche anno più tardi, sull’altro verante, nell’affondamento del primo governo Prodi da parte dell’alleato Bertinotti e di Rifondazione comunista, nel ‘98. Ancor meno c’è di grande nei tradimenti alla chetichella degli ineffabili Razzi e Scilipoti, o nel voltafaccia prezzolato di Sergio De Gregorio: è anzi perfino sacrilego l’accostamento. Tutte queste vicende non stanno dunque sullo stesso piano, non hanno lo stesso peso, e non a tutte si attaglia la categoria del tradimento. Anche per questo si dice che il tradimento con la politica non c’entra proprio nulla: c’entra magari con l’amore e con l’amicizia, ma non nei rapporti politici.

Eppure trattando di amicizia nel libro ottavo della sua «Etica a Nicomaco» Aristotele, cioè il fondatore della scienza politica occidentale, ha pensato bene di non separare del tutto gli ambiti dell’amicizia e della giustizia, cioè della politica. C’è almeno una buona ragione per non farlo: nell’amicizia vive una qualche forma di accomunamento e di riconoscimento reciproco, di cui anche la politica ha bisogno, per non ridursi a pura lotta per il potere. Qualcosa è in comune tra fratelli, qualcosa è in comune tra amici, qualcosa è in comune tra cittadini: e il tradimento spezza ciò che è in comune. Si naviga insieme – è l’esempio del filosofo – alla volta di un qualche vantaggio collettivo. Lasciare la nave per salvare la pelle può essere l’idea di un comandante Schettino, ma non di un rappresentante della nazione.

Soprattutto se non ha il coraggio di rivendicarlo. Perché sferrare la coltellata nel petto di Cesare si può, se sono più alti ideali a brandire la mano del tirannicida, anche se si tratta del figlio. Ma se mancano non solo gli ideali, ma anche una visione della società, o almeno un disegno politico di più ampio respiro (una rotta per la nave comune), tutto si risolve in ambizione personale, o peggio in un poco nobile «si salvi chi può».

E così chi si sente tradito non accetta facilmente il tradimento, nemmeno se gliela si propone come la dura legge della politica, che non conosce fedeltà, gratitudine, riconoscimento. Sul delfino Martelli che nel pieno della tempesta di Tangentopoli abbandona Craxi al suo destino fioccano ancora le ricostruzioni, e non tutte sono ispirati ad una serena ricostruzione storiografica. Anche la maniera in cui Achille Occhetto prende il posto di Alessandro Natta, colpito da infarto, e diviene segretario del PCI (una carica che era stata, nel dopoguerra, di personaggi mitici come Togliatti Longo e Berlinguer) non brilla per eleganza: Natta, che si era dannato per portarlo nel comitato centrale del partito, torna a fare il semplice frate, come scrisse, ma al successore non l’ha mai perdonata.

Gli esempi, insomma si sprecano. E non mancano di inseguirsi nelle cronache dei giornali. Fini che punta il dito contro Berlusconi («che fai, mi cacci?»), Maroni che molla Bossi e famiglia, quelli di Scelta Civica che provano a sfilare il partito a Mario Monti, Renzi che scrive a Letta «stai sereno» una settimana prima di soffiargli Palazzo Chigi. E ovunque cambi di casacca, riposizionamenti, amicizie in frantumi e matrimoni di interesse. È la politica, bellezza. Già, ma proprio bella così non è. E nemmeno, in verità, come la fa Grillo, che ossessionato dai tradimenti li anticipa con le espulsioni: ma un po’ di sana lotta politica, di minoranze e maggioranze che si formano e si scontrano a viso aperto, quella no?

(Il Mattino, 25 aprile 2014, col titolo Bondi e l’Italia dei nuovi Giuda)

La condanna del carcere senza condanna

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Nicola Cosentino è in carcere. Siccome ognuno vede nella detenzione di Nicola Cosentino una conferma del proprio giudizio morale, o politico, nessuno fa il passo successivo e si chiede che razza di carcerazione sia, quella riservata all’ex sottosegretario all’Economia del governo Berlusconi. Tocca allora ricordarlo: si tratta di custodia cautelare. La custodia cautelare, secondo le leggi italiane, va inflitta quando sussistano pericoli di fuga, o di reiterazione del reato, o di inquinamento delle prove. A giudicare della sussistenza di questi presupposti sono naturalmente magistrati, altri da quelli dell’accusa. E bisogna attenersi al loro giudizio, e ai casi definiti che l’ordinamento mette a disposizione per gli eventuali ricorsi della difesa. Tuttavia non si può non notare che troppo spesso le condizioni richieste per l’adozione di provvedimenti restrittivi sono profilate non in relazione a condotte specifiche, ma solo «in abstracto». Per esempio: per via delle possibilità a disposizione di un potente uomo politico. E ciò anche se i fatti che lo riguardano, e in relazione ai quali si attende il pronunciamento del tribunale, risalgono a un bel po’ di anni fa. L’uomo politico continua infatti ad avere molti amici, alza spessissimo il telefono, conosce un sacco di cose. Può molto, insomma. Non è questo il caso di Nicola Cosentino? Non ne sappiamo tutti un bel po’? E così siamo daccapo a ciò che ognuno «ne sa», e al giudizio che l’opinione pubblica rende in generale sulla classe politica, sulle aree di collusione col malaffare, sulla pervasività delle infiltrazioni camorristiche, o anche solo sulla piaga delle pratiche clientelari: un giudizio che si salda benissimo – bisogna convenirne – con la carcerazione preventiva del politico chiacchierato.

Solo che nessun ordinamento può trasformare le chiacchiere in un requisito processuale. Nemmeno nel più chiacchierato dei casi. Non si tratta di trasformare Cosentino in carcere in una bandiera, in un capro espiatorio, nella pietra dello scandalo. Tuttavia, non ci si può non chiedere, a distanza di più di vent’anni dall’inchiesta Mani Pulite, se non si debba una buona volta affrontare seriamente il tema della riforma della giustizia e, in particolare, dell’uso della custodia cautelare. Il Parlamento ne sta ridiscutendo, per fissarne meglio i limiti, e il ministro Orlando ci lavora dal giorno del suo insediamento, e allora vale la pena ribadire almeno questo: in un paese civile, non vi può essere il minimo sospetto che la custodia cautelare venga usata strumentalmente, invece che per le esigenze imposte dal codice. Così come non può succedere, come invece spesso succede, che la custodia cautelare si configuri come un anticipo di pena, comminato però in assenza del giudicato. Tanto più che troppo spesso non si arriva a sentenza, oppure fioccano i proscioglimenti, a distanza di anni dall’avvio di procedimenti giudiziari che, nel frattempo, determinano comunque pesanti conseguenze: non solo sulla vita delle singole persone, ma anche sulla vita civile, politica, sociale del paese. In questi anni, per limitarci a queste nostre sventurate terre, inchieste dal forte clamore mediatico hanno riguardato il Comune di Napoli, la Regione Campania, alcuni ordini professionali, la classe imprenditoriale, settori della polizia investigativa, i partiti politici di centrodestra e quelli di centrosinistra. Orbene, qual è il bilancio di tutta questa inesausta attività giudiziaria, in termini di sentenze definitive? Molto povero, forse addirittura fallimentare, anche se non si può dire lo stesso del loro profondo impatto politico e sociale.

Non è un risultato di cui rallegrarsi, ovviamente. Ma qualche dubbio e qualche interrogativo lo pone, e quei dubbi e quegli interrogativi non possono essere scansati solo perché l’opera degli inquirenti è sempre difficile, sempre meritoria, e sempre – va da sé – sostenuta dall’opinione corrente.

Certo, si può ben ritenere che le condizioni di impunità, in cui viene condotta l’attività politica così come quella economica, specie nel Sud, sono tali per cui bisogna a volte necessariamente essere spicci, sennò in carcere non ci finisce mai nessuno e i furbi e i potenti la fanno sempre franca. Ma bisogna sapere che questo ragionamento, condotto con coerenza, sacrifica tutte le garanzie di una civiltà giuridica liberale. Non dico che suoni falso, o che non colga una situazione endemica della società meridionale. Dico però che comporta quel sacrificio. Ed è un sacrificio pesante. Sopportato il quale, peraltro, ci troviamo sempre allo stesso punto: con le stesse emergenze, la stessa illegalità diffusa, e una continua supplenza per via giudiziaria dei normali processi politici e sociali a cui invece dovrebbe rimanere affidato il governo della cosa pubblica, la formazione e il ricambio della classe dirigente, la lotta politica e la competizione economica. E si sa, purtroppo, quale considerazione si ha dei supplenti: si fa finta di ascoltarli, poi tutto torna come prima.

(Il Mattino, 19 aprile 2014)

Un attimo prima di morire

ImmagineLa legge del taglione si può disapplicare. La vendetta può finire. Anche in Iran. Anche su una pubblica piazza. Anche dinanzi a una folla urlante, che attende di vedere lo spettacolo della morte. Anche quando l’assassino – un ragazzo, Abdollah Hosseinzadeh – ha ucciso tuo figlio pugnalandolo e infierendo sul suo corpo. Anche quando è già salito sulla sedia – è stato martedì scorso, lo si è appreso ieri – e urla, e ha il cappio al collo e la benda sugli occhi, e le guardie sono schierate e tu sei la madre, chiamata ad infliggere la pena capitale. E tu, invece di stringere il nodo, invece di dare un calcio alla sedia, prendi a schiaffi l’assassino, e parli alla folla in lacrime, e tuo marito, il padre della vittima, leva al condannato la corda dal collo e insieme abbracciate l’altra madre, la madre dell’assassino. Va’, e non peccare mai più.

È già esistito in verità un uomo cui la sentenza fu letta e a cui fu dato il tempo per torturarsi con l’assoluta certezza che la pena sarebbe stata eseguita, e a cui fu detto invece, all’ultimo minuto: «Puoi andare, ti è concessa la grazia». Quest’uomo potrebbe raccontare cosa ha provato Abdollah quando ha tolto la benda, e ha riavuto la vita, la luce, lo sguardo di altri uomini. Lo ha già fatto, in verità: nell’«Idiota», perché quell’uomo era Fëdor Dostoevskij. L’uomo di cui racconta nel romanzo – parlando della propria stessa esperienza – era grande e forte, e coraggioso, e intelligente, ma mentre saliva al patibolo piangeva come un bambino. Una tortura infernale! In quali sofferenze non si getta un’anima quando non ha più alcuna speranza di salvarsi, quando sa con certezza che «tra dieci minuti, e poi tra mezzo minuto, e poi adesso, in questo preciso istante» tutto sarà finito! «Sta scritto: tu non ucciderai. Siccome uno ha ucciso, lo si deve uccidere? No, questo è peccato». Così si spiega nel romanzo il principe Myŝkin, l’idiota, cioè il puro, il santo, l’innocente. E una goccia infinita di questa purezza era martedì sulle labbra di quella madre. «Sta scritto», dice Dostoevskij, ma la madre musulmana che non ha ucciso, che non ha voluto uccidere, ha dimostrato che non c’è neppure bisogno di leggerlo in un libro, fosse pure un gran libro, fosse anche il libro dei libri. A volte può bastare molto meno: essere visitati da uno strano sogno, ad esempio, com’è accaduto alla donna, e capire, rivedendo in sogno il volto sereno del proprio figlio, che non c’è bisogno di vendicarsi, che nessuna offesa va lavata col sangue, che nessuna giustizia può essere fatta mettendo a morte un uomo, che uccidere chi ha ucciso, in forza di una legge, «è una pena senza paragone più grande della colpa». È una pena semplicemente inumana.

L’umanità comincia proprio là, dove quella pena è estinta. Là dove perfino una madre può vincere i sentimenti di vendetta e perdonare all’assassino di suo figlio. Là dove incontra gli occhi di quell’assassino, dopo che essi hanno veduto con assoluta chiarezza e in una ridda confusa di pensieri febbrili, la morte, e dalla morte sono ritornati. La vita umana è umana non perché va verso la morte, ma perché dalla morte ritorna, e così conquista la grazia incomparabilmente bella della vita.

Ora la pena di Abdollah è sospesa. Le autorità decideranno. Gli uomini e le donne che erano su quella piazza sono tornati alle loro case e ai loro giorni. Anche tutti loro, insieme al loro giovane e grande paese, devono decidere a quale vita vogliono ritornare.

(Iran, la madre della vittima salva la vita all’assassino, Il Mattino, 18 aprile 2014 )

Scambio di embrioni, i confini della libertà

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(di Alessandro Barbano e Massimo Adinolfi)

Caro Massimo, Ho letto con attenzione il tuo articolo sulla vicenda dello scambio degli ovuli fecondati e mi pare che tu colga solo un angolo del problema quando dici che “nessuno vorrebbe trovarsi nella condizione della mamma che ha scoperto di aspettare due gemellini, i quali però, a causa di uno scambio involontario, non sono i suoi”. Non ti pare che manchino, in questa tua valutazione, altri due soggetti in campo, e cioè i genitori biologici? Mi stupisce che questa seconda posizione risulti del tutto in ombra nel dibattito che si è aperto e mi chiedo se questa omissione non sia lo specchio di una sorta di idolatria culturalista che riconosce ed esalta il libero arbitrio anche nelle scelte in cui si devono fare i conti con la natura e la sua casualità. Mi convinco di ciò leggendo le motivazioni addotte da Camilla Baresani sul Corriere della Sera di oggi per sostenere che “è madre chi porta il bimbo in grembo” e che la valutazione che solitamente facciamo delle influenze genetiche sarebbe esagerata. La scrittrice cita insigni genetisti e stabilisce percentuali di influenza al dato biologico stimabili intorno all’1 per cento. Non ti pare una semplificazione? È forse misurabile il rapporto tra natura e cultura? Ti riformulo la domanda da un altro punto di vista, quello dei genitori cosiddetti biologici, non in quanto donatori naturali ma in quanto attori di un processo procreativo complesso fatto di natura e psiche, di desideri individuali e di una volontà genitoriale cresciuta nell’aspettativa di poter dare amore e accoglienza a ciò che è percepito insieme come il sé e l’altro da sé. Perché questi ultimi dovrebbero considerare la perdita della genitorialità come un imprevisto del caso? E bada bene, non voglio qui sostenere che la loro aspettativa delusa configuri un diritto superiore a quello dei genitori casuali e involontari, poiché in realtà non so se sia così e non credo che nessuno possa saperlo. Ma è proprio questo il punto. Nessuno può con la ragione e con il diritto argomentare una tesi che abbia coerenza, nessun tribunale può assumere una decisione che non dico abbia la pretesa di essere giusta, ma neanche che rappresenti il minore dei mali. Credo che questa vicenda rappresenti un vero corto circuito di ogni tentativo di regolare con la ragione umana questioni troppo grandi per essere riservate unicamente a essa. È mi farebbe piacere sapere cosa ne pensi tu.

Caro Alessandro, una volta, al tempo del referendum sulla legge 40, proposi il seguente esperimento mentale. Immaginate, scrissi, di tornare a casa, e di scoprire, in base alle analisi cliniche appena effettuate, che vostro figlio non è vostro figlio. In verità scrissi di più: immaginate di scoprire che vostro figlio abbia proprio un’altra chimica, che sia fatto, che so, di silicio e non di carbonio. Bene: lo amereste meno? Credo proprio di no. Questo ovviamente non vuol dire affatto che l’elemento naturale, oppure biologico, sia del tutto indifferente allo stabilirsi di relazioni d’amore (e di ogni altra relazione umana). Vuol dire forse una cosa più sottile e più complessa: che lo stesso elemento biologico, per valere, deve – come può – motivare l’amore. E un motivo non è una mera causa, naturale o meno che sia. Non escludo neppure, in verità, che lo possa motivare più fortemente, ma quello che sempre più apprendiamo è che quell’elemento non è più, se mai è stato, una condizione necessaria per amare e legarsi a un figlio. L’amore, come ogni relazione umana, legge i segni: spia gli sguardi, gli affetti, non solo le parole. E certamente è vero: noi siamo da gran tempo più bravi nel leggere i segni naturali: del cielo, ad esempio, come delle stagioni come anche delle passioni umane. Ma questo non significa che non possiamo leggere e legarci ad altri segni. (Leggere e legarci: e questo dovrebbe proteggerci dal puro arbitrio). Capisco però le tue preoccupazioni. Perciò aggiungo: io non intendo affatto che i genitori biologici abbiano perso ogni diritto sui gemellini che nasceranno. Temo tuttavia di non saper districare davvero quello che è avvenuto con lo scambio della clinica romana sul piano del diritto. Mi auguro solo che chiunque sia chiamato a giudicare sappia tenere conto di tutti gli interessi e le sensibilità coinvolte. Non è facile. Però su un punto mi sento di darti senz’altro ragione: non ha molto senso misurare quanta sia l’influenza della genetica sui nuovi nati. Il che di nuovo significa che richiamarsi al dato naturale richiede comunque quell’investimento di senso, quella motivazione che ho cercato di indicare nel ‘leggere i segni’: una somiglianza, ad esempio, ma anche un’appartenenza, o, a volte, una semplice vicinanza.

Caro Massimo, tu dici di augurarti che chiunque sia chiamato a giudicare sappia tenere conto di tutti gli interessi e le sensibilità coinvolte. Ma il punto è proprio questo: sai bene che non ci sarà decisione che potrà rivelarsi giusta e meno che mai un male minore. Qualunque decisione verrà, ed è chiaro che a questo punta una decisione s’impone secondo le regole del diritto, sarà costitutiva di nuovo dolore. E come se il diritto e la tecnica fossero complici inconsapevoli di un meccanismo deterministico. Perché quei figli, caro Massimo, non sono fatti di silicio, ma di geni e caratteri biologici di un’altra coppia. E questo, se solo provi a metterti nell’ottica degli involontari donatori, non è indifferente. Tu dici che non basta l’elemento biologico se questo non è capace di motivare amore. Ma è indubbio che qui lo stesso elemento biologico motivi due amori diversi e forse confliggenti. Mi dirai: l’amore non può confliggere se contiene la pietà. E infatti questo mi pare l’unico approdo possibile. Ma se mai si arriverà ad esso, e sarà una dolorosa conquista delle due famiglie, ciò accadrà ben oltre i confini della razionalità, della libertà e del diritto. E forse anche della stessa responsabilità, alla quale tu facevi riferimento in un articolo di qualche giorno fa approvando lo sdoganamento della fecondazione eterologa deciso dalla Consulta. Perché sai bene che, al di là delle belle parole e delle buone intenzioni, nessuna responsabilità è sufficiente a sostenere il fardello di certe vite. E allora una domanda s’impone: la responsabilità non dovrebbe agire anche prima, non dovrebbe valere sulla soglia di quelle possibilità tecniche con le quali pure crediamo di aumentare le nostre libertà ma che spesso ci riservano un destino non previsto e non voluto? Uso volutamente la parola destino, poiché mi pare l’esito di una ragione che sfida la natura delle cose oltre il limite che quest’ultima concede alla libertà e alla centralità dell’uomo. Non ti pare che la nostra capacità di agire sia andata ben oltre la nostra possibilità di assumere la responsabilità di ciò che facciamo? Non ti pare allora che dovrebbe valere anche sul terreno bioetico un principio di precauzione, che pure siamo disposti a sostenere sul terreno ecologico? Perché ci asteniamo dall’utilizzare il nucleare e non poniamo alcun limite alla fecondazione assistita, se pure riconosciamo che il dolore che con l’uno e con l’altra possiamo provocarci è allo stesso modo inconsolabile?

Caro Alessandro, verrà una decisione che inevitabilmente addolorerà qualcuno, ma proprio perché quel dolore conseguirà da una decisione non sarà parte di un meccanismo deterministico. Così come non lo è la “pietas” che sarà esercitata: da chi accetterà – se mai accetterà – di privarsi dei figli. Io non ritengo affatto, peraltro, che questa decisione sia già scritta, né tantomeno ritengo che lo sarà necessariamente a vantaggio dei genitori non biologici. D’altra parte, colei che sta sostenendo il peso della gravidanza non può essere tenuta a portarla a termine: l’esito di tutta questa vicenda è aperto purtroppo anche agli esiti più drammatici, benché nessuno se li auguri. Tu però mi pare che ritieni che questa storia ci metta ancora una volta dinanzi ai limiti dell’azione umana, o meglio alla sproporzione fra ciò che è possibile fare, grazie ai progressi della tecnica, e la nostra capacità di assumerci con responsabilità il peso delle nostre stesse azioni. Io non credo sia così. So che è diffusa questa convinzione, ma non è la mia convinzione. E non perché ritenga che la razionalità, la libertà o il diritto non abbiano limiti o non incontrino attriti, collisioni e insuperabili dilemmi, ma per due ragioni. La prima è forse più immediatamente comprensibile: anche astenersi, anche adottare il principio di precauzione che tu invochi comporta l’addossarsi una grande responsabilità (per esempio nei confronti di quanti, oggi e in futuro, non godranno di ciò che il progresso scientifico potrebbe mettere a loro disposizione: per curare malattie, per migliorare le loro vite). In secondo luogo, perché le risorse morali a disposizione dell’uomo non costituiscono neppure esse un giacimento naturale limitato, di dimensioni e portata date. La nostra sensibilità morale è essa stessa frutto (non solo, ma anche) dei progressi della tecnica: non avremmo tanto orrore della violenza e del sangue se non avessimo messo la violenza e il sangue a una certa distanza dalle nostre condotte quotidiane. Questa distanza è (anche) un portato della tecnica, insieme, certo, all’aumentata (purtroppo) capacità di distruzione. Però la fecondazione assistita non arreca dolore quanto l’uso del nucleare, e di sicuro arreca anche qualche felicità in più. E noi abbiamo sufficiente capacità di discernimento morale per orientarci in un caso e nell’altro, io penso.

(Il Mattino, 16/04/2014)

Famiglie non euclidee

ImmagineNessuno vorrebbe trovarsi nella condizione della mamma che ha scoperto di aspettare due gemellini, i quali però, a causa di uno scambio involontario, non si sa come né quando intervenuto, non sono i suoi. Nessuno può sapere come reagirebbe di fronte a un’evenienza del genere: negli embrioni impiantati nell’utero della donna non c’è materiale genetico del padre o della madre naturali. Nessuno può prevedere nemmeno quale decorso avrà la vicenda: sul piano psicologico, ma anche sul piano legale. Ma è da qualche tempo che, in tema di generazione, ci inoltriamo lungo sentieri finora mai battuti, in cui l’umanità intera non si era mai trovata prima. Certo, quel che è capitato all’ospedale Pertini di Roma è frutto di un terribile errore, che però mostra a che punto siamo oggi: il più lontano possibile dalla tragedia. Dalla tragedia antica, intendo, quando la sventura si abbatteva inesorabile sull’eroe che, muto, andava incontro al suo destino.

L’eroe antico non stava affatto dinanzi ad una scelta: la tragedia stava proprio in ciò, che all’eroe toccava di seguire il suo destino (o, più tardi, il suo proprio, immutabile carattere), pur nella consapevolezza che, seguendolo, si sarebbe infranto contro il volere del fato o degli dèi. Due grandezze etiche si scontravano – Hegel diceva anzi: due «masse», proprio per sottolineare il fatto che non si trattava di momenti del libero arbitrio, o di fragilità del volere. Clitennestra non può non uccidere Agamennone, per vendicare la morte della figlia Ifigenia, e Antigone non può non dare sepoltura al fratello, contravvenendo alle leggi della città. Il tragico non sta dunque in ciò che si compie, perché quel che si compie non può non essere compiuto: sta invece nella catena di conseguenze che l’azione scatena, volente o nolente.

I moderni hanno invece inventato una forma di dramma diverso. Nel blocco inflessibile del carattere si insinua infatti il dubbio, l’esitazione, l’incertezza. La psicologia. Amleto ora non sa più se vendicarsi dell’assassinio del padre: deve scegliere. Le decisioni si rifrangono in uno spazio interiore, in cui abitano i turbamenti dell’animo: i veri tormenti dell’eroe, le sue più profonde angosce. Ed è quello che purtroppo è capitato alla coppia romana – e, alla madre, in particolare – che, ora, deve scegliere se tenere o meno i bambini, se considerarli suoi, se mettersi in cerca dei propri, se cercare di capire dove è stato commesso l’errore e, nel caso, se porvi rimedio. Non ha un destino contro cui scontrarsi e perire; ha invece dinanzi una scelta difficilissima, da cui dipendono gli inizi di nuove vite. Forse una nuova pietas: non dei figli verso i genitori, ma dei genitori verso i figli.

Le possibilità offerte oggi dalla scienza e dalla tecnica investono campi, materie, dimensioni dell’esistere umano un tempo sottratti a qualunque decisione, a qualunque scelta. Oggi è possibile che un genitore scelga – a certe condizioni, che non possono non essere fissate dalla legge – quale madre, quale padre dare al proprio bambino. I coniugi romani si sono trovati dinanzi a una scelta del genere per colpe che andranno accertate, ma si può ben dire che ormai ci troviamo tutti, almeno potenzialmente, dinanzi a scelte analoghe. E, come sempre, non è la dimissione dalle proprie responsabilità il modo migliore per esercitarle. Sarebbe dunque sbagliato prendere a pretesto vicende umanamente molto dolorose e impegnative come quella del Pertini di Roma per compiere passi indietro, invece di costruire le condizioni migliori per compiere nel migliore dei modi un piccolo passo in avanti. Genitorialità e naturalità si allontanano, in certa misura ormai si separano anche: può essere un dramma, non è una tragedia. Spinoza diceva che bisogna trattare le passioni umane, il fondo più profondo dell’uomo, come i geometri trattano i punti, le linee e le superfici. E allora, anche solo per stemperarne la drammaticità, prendiamo ad esempio proprio la geometria. Per secoli il punto geometrico è stato definito dal fatto che per esso, come recita il quinto postulato di Euclide che tutti impariamo a scuola, passa una e una sola retta parallela a una retta data. Poi, nell’800, con la scoperta delle geometrie non euclidee, si è scoperto che per un punto possono anche passare più rette, o infinite rette. È cambiata così la natura del punto.

Sta accadendo qualcosa del genere: si formano famiglie non euclidee. Per i punti un tempo tenuti solo dal padre e dalla madre naturale passano nuove figure genitoriali. E, proprio come per le geometrie non euclidee, se c’è un buon motivo per introdurle non si tratterà solo della fine della consolidate certezze dello spazio a noi familiare, ma anche della possibile conquista di nuovi spazi di vita.

(Su Il Messaggero di oggi col titolo: Se la scienza trasforma la figura del genitore; su Il Mattino di oggi col titolo: La difficile via della pietà)

Una passeggiata e tante scoperte

ImmagineCerto che con il 50% dei disoccupati un paese è davvero in crisi. Lo ha detto la cancelliera tedesca, Angela Merkel, recandosi ieri in visita privata presso gli scavi di Pompei ed Oplonti, e dunque c’è da scommettere che è proprio così: siamo in crisi. Chi si illudeva che per essere in crisi bisognasse avere, che so, il 70% di disoccupazione, oppure una mortalità infantile come ai tempi dell’antica Roma, oppure peggio: l’invasione delle cavallette, deve purtroppo ricredersi, basta il 50%. Basta: si fa per dire. Il fatto è che nel lieve stupore di Angela Merkel per il dato riferitogli dal sindaco di Pozzuoli, che finora non era evidentemente riuscito a fare arrivare la ferale notizia fino a Berlino, sembra affacciarsi un tratto di comportamento che – il paragone non sembri troppo irriverente – ricorda le famose brioches della regina di Francia Maria Antonietta di Asburgo-Lorena. La gente affamata protestava sotto le finestre del palazzo chiedendo pane, e giustamente la regina rispose che, se non c’era pane, potevano almeno gettare loro delle brioches. La principale differenza tra i due episodi sta evidentemente nel fatto che quello di Maria Antonietta è molto probabilmente inventato, mentre quello che riguarda la Merkel è, purtroppo, ben reale.

Poi certo, vi sono altre differenze: per esempio che nella Francia del ‘700 le regine indossavano le parrucche e c’era ancora la monarchia (e di lì a poco sarebbe invece scoppiata la rivoluzione, brioches o non brioches), mentre noi oggi viviamo in una sana e robusta democrazia e portiamo molto liberamente i capelli. Però qualcosa della distanza che esisteva un tempo fra i regnanti dell’epoca e il popolo minuto forse si sta producendo nuovamente, drammaticamente, se c’è bisogno di una passeggiata tra gli scavi, o di un caffè in un bar di Pozzuoli, per scoprire con sorpresa il dato della disoccupazione nel Mezzogiorno. Che democrazia è quella che separa così tanto i luoghi di decisione dal paese reale, da renderglielo quasi invisibile, al punto che ci vuole una passeggiata quasi casuale per farne la triste scoperta?

La cosa non può non preoccuparci. Una qualche sottile preoccupazione deve però averla anche la Merkel, se ha voluto farsi un giro, chiacchierare, scambiare impressioni, e non starsene semplicemente in vacanza ad Ischia. Il fatto è che le elezioni europee si avvicinano, e mai come questa volta è di Europa che si parla. Di Europa e dell’euro, e delle politiche fin qui seguite nell’affrontare la crisi, sotto la regia principale del governo tedesco. Ebbene, non poteva certo essere una giornata di libertà il momento giusto per parlare del bilancio dell’Unione, delle necessità finanziarie degli Stati o dei vincoli del patto di stabilità, ma la Merkel deve essersi chiesto cosa mai arrivi ai cittadini europei di tutto questo gran parlare di finanza, monete, debito se, appena ha potuto, ha osservato che, dopo tutto, qualcosa di buono s’è potuta fare con i fondi europei. E vorrei pure vedere!, deve aver pensato il sindaco di Pozzuoli, che però garbatamente si è astenuto dall’esclamare. Ma se quell’uscita è apparsa come la perfetta «excusatio non petita», vuol dir proprio che la Merkel un po’ sotto accusa deve evidentemente sentirsi. Così ha preso a muoversi nelle stanche e provate periferie del vecchio continente in cerca di qualche rassicurazione. La stessa sensazione si è infatti avuta in Grecia, dove pure la Merkel si è recata qualche giorno fa per incoraggiare ed elogiare gli sforzi del governo greco nell’attuazione delle draconiane riforme decise di concerto con l’Unione e gli organismi internazionali. Ecco: chissà se anche lì la Cancelliera ha chiesto il dato della disoccupazione giovanile: lì infatti sono addirittura al 60%, e c’è veramente da augurarsi che la Merkel lo conoscesse ancor prima di recarsi ad Atene.

Che se invece non lo conosceva, e qualche solerte funzionario glielo ha rappresentato come da noi il sindaco puteolano, beh: non vorremmo essere nei panni dei cittadini greci. Ma, a pensar bene, neppure nei nostri.

(Il Mattino, 14 aprile 2014)

Se il dibattito fa notizia

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Il ragionamento che è comparso ieri sui giornali italiani è di una semplicità disarmante. Muove da un fatto inoppugnabile: si è riunita a Roma la minoranza del Pd. Se si è riunita, non è difficile dimostrare che esiste; ma, se esiste una minoranza del Pd, è a maggior ragion necessario – hanno inferito gli spiriti più arguti – che esista una maggioranza del Pd; dunque esistono due Pd. Questo impeccabile ragionamento ha bisogno naturalmente di una premessa aggiuntiva. La quale dice che: una minoranza e una maggioranza non possono stare nel medesimo partito senza che il partito, da uno che era, si divida in due. Il fatto che il partito si chiami democratico, e che la democrazia si fondi a quanto pare sul principio di maggioranza – che perciò stesso non può non prevedere almeno la possibilità di una minoranza – questo fatto non disturba i ragionatori di cui sopra. Il fatto ulteriore che lo stesso Matteo Renzi, prima di diventare maggioranza nel Pd, è stato minoranza entro lo stesso partito di cui poi è divenuto il segretario: neppure questo scompone minimamente i sagaci commentatori delle vicende interne del Pd.

Il fatto è che questa benedetta personalizzazione della politica non deve affatto coincidere con la depersonalizzazione di tutti gli altri, e nemmeno con il rinsecchimento dei partiti. I quali partiti, per la verità, negli ultimi anni sono già rinsecchiti abbastanza di loro stessa mano, che proprio non c’è bisogno che si insegni loro come svuotarsi ulteriormente di istanze critiche e di articolazione interna. C’è peraltro, in questa tendenza, un’accentuazione tutta italiana, perché negli altri paesi non si rimprovera certo alle minoranze di esistere, o di provare a riorganizzarsi, come accade qui da noi.

Poi ovviamente vi sono modo diversi di essere minoranza (così come, beninteso, vi sono modi diversi di essere maggioranza). Tra i più critici nei confronti di Renzi, nel suo intervento di sabato scorso all’assemblea romana Miguel Gotor ha assicurato anzitutto lealtà e responsabilità: sarebbe politicamente incomprensibile – ha detto – mettersi a fare l’opposizione al governo guidato dal segretario del partito. Dopodiché ha aggiunto: insieme alla lealtà e alla responsabilità ci vuole anche autonomia, per non condannare all’eutanasia un intero patrimonio politico e culturale. Ecco: anche in questo ragionamento sembra in verità che sia all’opera una premessa aggiuntiva: che cioè di quel patrimonio politico e culturale non vi sia traccia alcuna né in Renzi né in alcun pezzo della maggioranza che lo sostiene. Che dunque quel patrimonio non lo si possa mettere in gioco se non mettendolo al riparo. In attesa che passi la nottata.

Ma questa osservazione attiene, per l’appunto, ai modi diversi di essere minoranza. Il che è tutt’altra cosa dal farsi cadere le braccia per il fatto che nel Pd non c’è un unanime e compatto coro di assensi ad ogni proposta che venga formulata dal governo. Eh no: le braccia devono cadere, al contrario, se non si ascolta più alcuna voce critica. Abbiamo avuto per anni Berlusconi, per anni Bossi. Abbiamo avuto per anni partiti fondati esclusivamente sulla figura più o meno carismatica del Capo. Che in questo modo quei partiti abbiano funzionato è tutto meno che dimostrato. Per giunta, ora abbiamo anche Grillo, e anche lì non sapremmo come immaginare una dialettica fra componenti diverse.

Eppure, quelli stessi che fanno la morale a Grillo, e che magari lo accusano di metodi antidemocratici nei confronti dei dissidenti, non riescono ad accettare l’esistenza di una minoranza fra i democratici.

Cosa che invece Renzi sa fare benissimo, non foss’altro perché è forte dei numeri. Così la direzione si riunisce, i gruppi parlamentari si riuniscono. Certo, la curvatura personale è tale, che non sempre si riesce a differenziare quel che vuole la comunità dei democratici da quel che vuole invece il segretario. Ma proprio per questo non c’è alcun bisogno di assecondare il fenomeno dimostrandosi più realisti del re. Anche questa tendenza, peraltro, sembra contenere una specificità tutta italiana.

(L’Unità, 14 aprile 2014)

 

Dieci domande per il Mezzogiorno che vuole cambiare

Nando Santonastaso, Massimo Adinolfi

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C’è molta confusione sulle parole Mezzogiorno e questione meridionale. Più se ne discute e più sembra che le nuvole dell’indeterminatezza, anziché diradarsi, si addensino. Ciò accade a Roma e a Napoli,nelle sedi istituzionali e della dialettica parlamentare,in televisione e sulle pagine dei giornali, nelle accademie e nei circoli dove del tema si dibatte. È necessario perciò mettere insieme alcuni punti nel tentativo di restituire ai problemi che affliggono il Sud la loro dimensione reale, senza ammantarsi di travestimenti retorici, senza combinare pasticci ideologici, senza compiacersi di variopinti ma vaghi zibaldoni di idee. Dieci domande per disegnare i nuovi confini della questione meridionale. È proprio vero che la malattia del Sud è un tratto delle sue genti? E quale ruolo ha avutolo Stato?Quali gli errori del dibattito corrente? È giunto il momento di rimettere sul tavolo il divario tra assunzioni di responsabilità e richiami a logiche di sviluppo che nell’interesse del Paese non possono prescindere dal Sud.

C’è molta confusione sulle parole Mezzogiorno e questione meridionale. Più se ne discute e più sembra che le nuvole dell’indeterminatezza, anziché diradarsi, si addensino. Ciò accade a Roma e a Napoli, nelle sedi istituzionali e della dialettica parlamentare, in televisione e sulle pagine dei giornali, nelle accademie e nei circoli dove del tema si dibatte. È necessario perciò mettere insieme alcuni punti nel tentativo di restituire ai problemi che affliggono il Sud la loro dimensione reale, senza ammantarsi di travestimenti retorici, senza combinare pasticci ideologici, senza compiacersi di variopinti ma vaghi zibaldoni di idee.

1) Esiste una questione meridionale?

In primo luogo, riappropriamoci della questione. La questione meridionale, infatti, esiste. Né basta imporre nel dibattito pubblico una più impellente questione settentrionale, come è accaduto negli ultimi vent’anni, per scacciare la prima negli incubi del passato. Non c’è niente da fare: prima o poi il rimosso affiora, e, complice la crisi,è proprio quello che sta accadendo in questi anni. In secondo luogo,chiamiamo questione meridionale non semplicemente il divario fra l’economia del Mezzogiorno e quella del resto del Paese,e neppure soltanto il carattere cronico di questo divario, ma la maniera in cui esso è intrecciato con lo sviluppo del resto del Paese.

In sei anni di crisi,dal 2007 al 2013, il  Sud ha bruciato 43,7 miliardi di Pil, pari a quasi 10 punti percentuali, il doppio del centronord. Nel solo 2013, il calo è stato del 2,5% contro l’1,7% perso dal Nord. Nello stesso periodo si sono contati più di 600mila occupati in meno al Sud: la disoccupazione giovanile che nel 2007 si attestava al 33% è schizzata nel primo trimestre 2014 a quasi il 50%, rispetto al 37% della media nazionale e al 22,7% del Nord. Il crollo degli investimenti pubblici ha accentuato la desertificazione industriale e accelerato la fuga dei cervelli: ma è cresciuto in parallelo anche il numero dei «neet»,i giovani che non studiano,non lavorano e non cercano un impiego che oggi sono quasi 600mila, la metà del totale nazionale. Le ultime 20 provincie per qualità della vita sono tutte del Mezzogiorno e la Campania ha un’aspettativa di vita inferiore di due anni alla media del Paese. La prospettiva per il 2014, secondo le elaborazioni Svimez, indica una stagnazione allarmante: la crescita prevista non dovrebbe infatti superare lo 0,1%-0,2% rispetto ad una media Italia dello 0,8% e allo 0,7% del Nord.

2) Che cosa c’entra la storia?

La via lunga della comprensione storica dei problemi è un’ottima cosa, ma non c’entra nulla con l’urgenza dei problemi reali. E soprattutto non può né deve fornire alibi, scuse, pretesti. Parlare di sudismo più o meno straccione, di neoborbonici con o senza abiti d’epoca, di epopee del brigantaggio, di tradizionalismi vecchi e nuovi, equivale a mandare la palla in tribuna. La ricerca storica è un conto, la domanda di politica un altro. Così, è certamente vero che i problemi del Sud affondano in un lontano passato, che non c’è modo di mettere a tema le differenze fra Nord e Sud che non impegni la storia intera  dell’Italia unita. Ma ciò non può essere il paradigma con cui declinare il presente. Noi riteniamo che in condizioni favorevoli, rimuovendo le ostruzioni, liberandosi dalle zavorre, correggendo le storture, il Mezzogiorno può imboccare il sentiero della crescita. Di più: la crescita del Mezzogiorno è ormai condizione indispensabile per la crescita dell’intero Paese. Il Sud non è la palla al piede,è invece il pallone che bisogna lanciare lontano, per far salire tutta la squadra. Perciò basta fandonie: nessuna tradizione culturale condanna irrimediabilmente all’arretratezza. Nessun fattore climatico inficia le possibilità dello sviluppo. Nessuna determinante di lungo periodo è così radicata da non poter essere corretta. Il raffronto con il processo di riunificazione tedesca dopo la caduta del muro di Berlino nell’89 si impone. Qualcuno ha provato a farlo,e il risultato non è Italia-Germania 4-3, come a Città del Messico, bensì Germania-Italia 4-0,come recita il titolo di uno studio dell’Università di Palermo, citato da Isaia Sales nel suo ultimo libro. Quattro a zero perché in vent’anni il divario tra le due Germanie si è considerevolmente ridotto, mentre in Italia è rimasto fermo, anzi è peggiorato. Certo,ci sono volute dosi massicce di intervento pubblico, ma ciò dimostra solo che si può fare. Nei confronti del Mezzogiorno invece è avvenuto l’esatto opposto: esauritosi l’intervento pubblico e cessata la capacità progettuale, il divario è stato messo in soffitta e chiuso letteralmente a chiave.

3) La malattia del Sud è un tratto delle sue genti?

La risposta è no. Si dice: «conditio sine qua non» dello sviluppo (della produttività degli investimenti, dell’efficacia di stimoli e incentivi) è la creazione di un capitale sociale adeguato, che al Sud purtroppo non c’è. È una tesi che rigettiamo. È una nuova versione, l’ennesima, dell’ipotesi avanzata dal sociologo Edward Banfield già negli anni Cinquanta: il Sud sarebbe in condizioni di arretratezza per ragioni anzitutto culturali, morali, se non antropologiche. Noi rifiutiamo l’idea, sin troppo semplicistica, che lo sviluppo presupponga basi morali, capitale umano e fattori culturali; poi,su quelle basi,il resto. Come se moralità, umanità e cultura fossero doni dello spirito e crescessero da soli nell’aria. Invece sono cose che stanno insieme a certe condizioni materiali indispensabili: infrastrutture,servizi, credito. Chi dunque si è accorto in questi giorni che il comportamento dei passeggeri del metrò di Napoli è decisamente più adeguato agli standard europei di quello dei passeggeri della malandata circumvesuviana (napoletani gli uni e napoletani gli altri) ha mancato il punto decisivo, e cioè di mettere questo dato in rapporto con le ingenti risorse investite sulle linee metropolitane. In breve: la sociologia è utile a spiegare fenomeni dinamici, dannosa a stabilire etichette. Il capitale sociale va bene,ci vuole, ma non è la parola magica che consente di supplire ai capitali reali.

4) Classi dirigenti quali priorità e competenze?

Se d’altra parte dobbiamo fare una riflessione seria sulla moralità  pubblica, dobbiamo farla a trecentosessanta gradi. Episodi di corruttela riempiono le cronache del Nord come del Sud. Ora, noi pensiamo che sia sciocco mettersi a fare la classifica per grado di corruzione di paesi,città o contrade. Né intendiamo, per dispetto, rinfacciare quel che ti combina un primario dal vistoso, doppio cognome in una clinica milanese,nel silenzio complice di chissà quanti altri professionisti, medici e paramedici. Se il fallimento amorale è sicuramente una gran brutta cosa, un certo individualismo sordido ed egoista non fa meno danni. Ma citiamo le cronache milanesi di orrore sanitario solo per dire che le etichette – familismo amorale di qua, egoismo sociale di là  – non servono, così come non serve stigmatizzare comportamenti, rispolverare stereotipi, fare di tutta l’erba un fascio senza vedere il più generale problema del collante sociale e politico che sembra mancare all’Italia intera. A un paese slabbrato e senza un chiaro senso di sé, dei propri doveri e della propria missione. Se così non fosse, la questione meridionale non verrebbe avvertita come una seccatura, bensì come una sfida ideale, come il terreno sul quale dimostrare ancora una volta la bontà della scelta unitaria e le possibilità di riscatto offerto dall’identità nazionale. Per farlo, dicevamo, ci vogliono alcune condizioni. Una di esse ci pare senz’altro che sia una classe dirigente all’altezza del compito. Anche in questo caso non sono ammissibili alibi, scuse e pretesti. I micro-notabilati meridionali, i cacicchi e i capobastone devono essere relegati nel passato. Il giudizio non è attenuato se al tempo stesso ricordiamo che la classe dirigente non esente da colpe non si identifica solo con il ceto politico. Come però si costruisce una nuova classe dirigente, se i migliori se ne vanno, se il Sud conosce una vera e propria emorragia di talenti, se l’emigrazione intellettuale è ormai la regola? A quali serbatoi attingere? Compito della politica è favorire il ricambio, far funzionare l’ascensore sociale,riconoscere e premiare il merito: a queste condizioni una nuova classe dirigente può formarsi. Ma queste condizioni faticano ad affermarsi anche perché nell’area dell’euro si amplia la distanza fra parti ricche e parti povere. Si tratta di una conseguenza drammatica della scelta di costringere nello stesso spazio monetario paesi con costi e indici di produttività diversi: la ricchezza e l’attrattività dei paesi forti impoverisce sempre più, in mancanza di interventi correttivi, i paesi deboli. E il deserto generazionale cresce, perché i nostri giovani finiscono inevitabilmente con l’essere attirati dalle maggiori opportunità di vita e di lavoro del Nord, d’Italia e d’Europa.

5) Lo Stato quale ruolo ha avuto

La sconfitta del federalismo fiscale è sotto gli occhi di tutti. Per dirla con Luca Antonini, la riforma ha generato «un mostro», aumentando anziché riducendo il gap rispetto alle Regioni del centronord. Con la complicità della confusione creata dalla maldestra riforma del titolo V della Costituzione, i livelli essenziali delle prestazioni pubbliche,dalla sanità alla scuola, dai trasporti ai servizi per l’ambiente, sono precipitati al Sud. Ogni cittadino meridionale paga inevitabilmente di più per ognuno di questi servizi smentendo la Costituzione che impone costi e prestazioni analoghe per tutti gli italiani, senza differenze di aree geografiche. Lo ha ricordato la Corte dei Conti: la pressione fiscale dagli enti locali per garantire un minimo di quei servizi, ha assunto proporzioni sproporzionate rispetto alla qualità delle prestazioni assicurate.

6) Gli errori del dibattito corrente

Nessuna ripartenza è possibile, se si rimane impigliati in un dibattito quasi surreale, dove le colpe del Sud annullerebbero ogni altra responsabilità. Certo: i discorsi puramente recriminatori non servono a niente, il vittimismo men che meno. Ma questo non può significare che il Sud deve intonare un «mea culpa, mea maxima culpa» perché il resto del Paese venga assolto. Strana maniera di perdonare i peccati. La verità è che la direzione del Paese negli ultimi decenni non è certo stata in mano al Sud: quest’Italia è stata governata (male) da una borghesia dominante sul piano economico, pronta a tutelare gli interessi del Nord, e disponibile a lasciare ampio spazio alla retorica leghista, ma del tutto impreparata a costruire un’egemonia vera, una prospettiva per il Paese, un disegno politico compiuto. Nel declino,ha pensato di salvare il salvabile mollando il Sud al suo destino. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Non vale, per porre oggi rimedio,la filosofia del commissariamento, in voga di questi tempi. Di fronte al fallimento della politica, alle infiltrazioni camorristiche,alla paralisi amministrativa, si pensa che non ci sia altro da fare che commissariare il  Sud. Invia di principio è ragionevole. Ma nella realtà l’effetto è il contrario: non è sospendendo la democrazia, sciogliendo i consigli comunali, svuotando le pubbliche amministrazioni, mandando insomma il sangue in circolo lungo vasi extra-corporei, che si guarisce.

L’esperienza dei commissari ha finito, tranne rarissime eccezioni, per peggiorare l’esistente. Il carrozzone burocratico dell’Antimafia ne è la riprova forse più amara: basta considerare la stragrande maggioranza dei beni sequestrati e poi confiscati che non riescono a tornare produttivi o a garantire reddito ai nuovi gestori, costretti a fare i conti con pastoie normative che spesso sfuggono al più comune buonsenso.

7) Il divario: da dove ripartire?

Ce n’è abbastanza perché si chieda alla politica di rimettere sul tavolo la questione meridionale. Senza pensare che la si possa affrontare come nell’immediato dopoguerra, nella stagione forse più significativa dell’impegno meridionalistico e dell’intervento dello Stato, ma senza nemmeno rinunciare del tutto, perché i tempi sono cambiati. Cambiano sempre i tempi, se è per quello,ma questo non vuol dire che non insegnino nulla. Bisogna dunque farlo seriamente, con rigore, ma soprattutto con passione civile, non con distaccata attitudine professorale. E farlo ricominciando da tre, ponendo tre punti fermi. Che non bastano ma sono necessari. Che non esauriscono il problema ma non possono essere evitati. Il primo riguarda rivendicare la perequazione dei diritti e dei servizi al cittadino, la perequazione infrastrutturale e l’uso corretto dei fondi europei. Che non potranno mai essere l’alibi per rinunciare a investire risorse nazionali, come è accaduto in parte finora per via dell’obbligo imposto dall’Ue di non sforare il tetto del 3% del Patto interno di stabilità. Il Sud deve ancora spendere quasi tutti i 16miliardi di euro non utilizzati nella precedente programmazione. Per poterci riuscire dovrebbe correre come non ha fatto mai. Ma dev’essere decisivo il ruolo di raccordo tra centro e periferia: la nascita dell’Agenzia per la coesione può rispondere a questa  esigenza, ma sempre che sia governata da un disegno strategico nazionale e non di parte. Occorre pretendere una politica industriale che è finora del tutto mancata e smentire l’assunto che il Sud possa risorgere affidandosi unicamente a cultura e turismo. Lo sviluppo o è integrato o non è.

8) E’ possibile scambiare sussidi e diritti?

Il secondo riguarda la riqualificazione dei sistemi di welfare, la rinuncia – netta, e senza attenuanti – alle forme di assistenzialismo improduttivo, la fine dello scambio perverso tra voto di scambio e sussidi: il welfare che serve al Paese non può che essere agganciato alla produttività e al lavoro. Non ci può essere una strada diversa per evitare il dualismo tra chi ha un posto di lavoro e chi continua a non godere di alcun diritto. In questo senso non si può che essere d’accordo con chi vuole chiudere per sempre i rubinetti della spesa pubblica improduttiva.

9) Governance: quali criteri per la scelta?

Il terzo riguarda la promozione del merito,in condizioni di pari opportunità, per spezzare una società costruita ancora sulla genealogia dell’appartenenza. Va fatto anzitutto nei mondi dell’istruzione, dell’università, del credito. Impossibile colmare le distanze con i livelli standard dello sviluppo se il denaro al Sud continua a costare3 o 4 punti in più della media nazionale. Se pmi e famiglie non lo chiedono più alle banche, perché hanno perso anche la capacità di scommettere. Dovrebbe essere invece compito di uno Stato moderno farsi intermediario tra banche e società reale, specialmente in tempi di crisi e far sì che siano premiati i progetti che valgono. Va consentito ai talenti più giovani di ottenere fiducia e credito presentando in banca le proprie idee e perfino la propria pagella, come accade in molti altri paesi. Lo stesso discorso vale per l’Università: il divario di qualità non può essere un alibi delle classi dirigenti locali per non cambiare ma neanche, come sta accadendo, il presupposto per scelte punitive.

10) Come va ripensata la politica?

Da ultimo serve il ritorno del la politica. Si avvicina una stagione di riforme istituzionali. Non è questa la sede per entrare nel dettaglio di un ridisegno della Costituzione che si annuncia profondo e necessario. Ma noi avvertiamo con drammatica urgenza che una riforma dei costumi politici, prima ancora che delle regole in diritto deve restituirci partiti degni del nomee del ruolo che la Costituzione assegnava loro: innervati di nuova partecipazione, di nuove progettualità, di rinnovate aspirazioni. Bisogna rifare la politica: non funzionano i restyling, le improvvisazioni. Non sono sufficienti neppure le scorciatoie decisioniste. Ci vuole, oltre a tutto ciò, un serio investimento di senso per chi fa della politica un mestiere. Non è il professionismo politico che dobbiamo combattere, ma al contrario l’assenza di ciò che un tempo si legava a una professione: la vocazione, il sentirsi investiti da una responsabilità in funzione della propria capacità di rappresentanza. Riproporre la questione meridionale significa perciò richiamare la politica alla sua più alta responsabilità.

(Il Mattino, 12 aprile 2014)

L’ultimo atto di un ventennio

ImmagineDell’Utri latitante. Berlusconi ai servizi sociali. Formigoni alle prese col sequestro di beni (posseduti però a sua insaputa). Cosentino, infine, nuovamente in carcere. È dai tempi di Tangentopoli che l’Italia si ritrova tra i piedi il seguente problema: come evitare di scrivere la storia politica del Paese senza mutarla in una storia criminale, in un commento a piè di pagina delle sentenze della magistratura. È un problema maledettamente serio. Con un atto generoso di fede nella politica – non in questo o quel leader politico, non in questa o quella parte politica – si può provare a mantenere il punto: chi volesse raccontare la storia d’Italia degli ultimi vent’anni lo può fare, anche senza rincorrere alle cronache giudiziarie. Dirà allora dello sgretolamento dei partiti della prima Repubblica, dell’avvento di Forza Italia, della formazione di governi sostenuti da forze estranee all’arco costituzionale (Alleanza Nazionale, la Lega), degli homines novi estranei alla tradizioni politiche del Novecento seduti sui più alti scranni del Parlamento e del Governo, dei tentativi di cambiare l’assetto istituzionale del Paese – in via di fatto (il nome nel simbolo) ancor prima che per la via delle riforme costituzionali (tentate, finora fallite) – delle nuove, pasticciatissime leggi elettorali, della irruente mediatizzazione della politica e infine del suo scadimento in un vortice di gossip, battute ed illazioni. E, corrispondentemente, del progressivo smarrirsi dei progetti politici messi in campo dal ’94 ad oggi: sempre meno riconoscibili, sempre meno credibili, sempre più incentrati esclusivamente intorno al profilo carismatico di una persona: Silvio Berlusconi, l’imprenditore, il tycoon delle televisioni, il Cavaliere per antonomasia (che però ormai nemmeno è più tale). In mezzo dirà certo anche dell’Ulivo, del tentativo forse mal concepito di mettere in mare un vascello riformista, e del suo arenarsi per la confusione del disegno, per l’impreparazione delle culture politiche, forse anche per l’incapacità di superare lo scoglio dell’Euro. Ma tutto questo dirà con un filo di sgomento, forse con una segreta paura nel cuore: che non l’ha raccontata giusta, che non gliel’hanno raccontata giusta, o addirittura che non la si può raccontare giusta senza raccontare anche il resto, senza guardare che fine stiano facendo o abbiano fatto quegli uomini, che fino a poco tempo fa avevano in mano il destino del Paese.

Il fatto è che Forza Italia aveva dentro di sé un capitale di energia politica indiscutibile. Si presentava come una forza modernizzatrice, liberale, anti-statalista. Cambiava, o provava a cambiare linguaggi e forme della politica. Dettava, o provava a dettare, una nuova agenda: basta questione meridionale, basta questione sociale e retorica dell’uguaglianza, basta intervento pubblico, basta mediazioni dei corpi sociali intermedi, basta partiti. Basta comunisti, anche. È finita però con Berlusconi in cerca di agibilità politica nonostante la condanna definitiva, la decadenza da senatore, l’affidamento ai servizi sociali; con Dell’Utri irreperibile ma forse in Libano, ignominioso latitante ma forse solo bisognoso di cure (però accortamente all’estero) e comunque sotto un bel po’ di processi; con Formigoni, il Celeste, il governatore della Lombardia per quasi vent’anni, che si difende dal sequestro giudiziario negando che i beni sequestrati siano a lui riconducibili; con Cosentino tradotto in carcere, ma capace ancora di spaccare Forza Italia in Campania, e di tenere col fiato sospeso il governatore Caldoro (e pure Fitto, il capolista alle Europee, che ne chiede i voti).

Ci vuole, ripetiamolo, un atto di fede. Il guaio è che mentre lo studioso può compierlo con l’aiuto di Machiavelli e magari di qualche altra arguta parola sull’autonomia della politica (dopo tutto, non diceva Rino Formica che la politica è sangue e merda? Ci sarà dunque almeno del sangue, della passione che scorre ancora da qualche parte!), l’elettore di centrodestra deve farlo pur essendo stato così vistosamente tradito, perfino turlupinato, se è vero che Dell’Utri se ne rimarrà al sicuro in qualche paese lontano. Quell’elettore: speriamo davvero che mantenga ancora intatta la forza di desiderare un’Italia migliore e un centrodestra migliore, glielo auguriamo sinceramente.

(L’Unità, 12 aprile 2014)

Perché Giordano Bruno è già riabilitato

ImmagineEretico, impenitente, ostinato. Nella sentenza con la quale Giordano Bruno fu condannato al rogo, l’ex frate domenicano, condotto innanzi al Sant’Uffizio dopo una vita avventurosa e inquieta, dopo essere stato trattenuto in carcere per circa otto anni, dopo essere forse stato anche torturato, appare così: pertinacemente attaccato ai suoi errori, indisponibile all’abiura, fiero e orgoglioso delle dottrine professate e disposto a difenderle contro ogni teologo. Finito che si ebbe di leggere la sentenza, Bruno disse, o avrebbe detto, alla congregazione dei cardinali inquisitori, con tono di sfida: «Forse tremate più voi nel pronunciare la sentenza che io nell’ascoltarla». Non sono parole di uno spirito docile al magistero della Chiesa, come ognuno intende.

Dopo più di quattro secoli, però, Roma non trema più dinanzi al pensiero e all’opera del Nolano. E per questo è possibile persino che la sua figura venga proposta per una riabilitazione ufficiale. Questa è almeno l’intenzione che ha manifestato il cardinale brasiliano Frei Betto, e che Papa Francesco avrebbe intenzione, a detta del cardinale, di tenere in considerazione. Insieme a Bruno, un altro domenicano sarebbe stato proposto per la riabilitazione: il grande pensatore renano Meister Eckhart, vissuto fra XIII e XIV secolo, il cui radicale misticismo speculativo mal si conciliava con la dottrina trinitaria della Chiesa cattolica (mentre fecondò copiosamente, secoli dopo, l’idealismo tedesco di Schelling e Hegel). Nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, oltre a rallegrarsi per il generoso proposito, vale la pena chiedersi che cosa precisamente significhi un processo di riabilitazione, e mari anche chi o cosa debba essere riabilitato, se il filosofo o i suoi accusatori. Dopo tutto, le piazze e le strade, le scuole e i monumenti Giordano Bruno li ha già avuti dedicati, senza aspettare il placet ecclesiastico. Né gli occorre per trovare un posto nella storia del pensiero.

Ma si predispongano pure le carte, si rifaccia il processo e si riabiliti pure: significherà questa insperata revisione che innanzi al Sant’Uffizio Giordano Bruno  non fu affatto eretico, impenitente oppure ostinato? Sarebbe complicato assai. Perché impenitente e ostinato Bruno lo fu senz’altro, visto che i lunghi anni del processo non valsero ad ottenere quell’abiura che gli avrebbe salvato la vita. Il processo ebbe fasi diverse e parve, nel corso degli anni, che avrebbe potuto avere un esito diverso. Fino all’ultimo si rimase appesi ad otto proposizioni che Bruno pareva potesse infine ritrattare. Così non fu, e quale che sia stata la causa che determinò l’ultimo irrigidimento del Nolano, per qualunque ragione si convinse che le proposizioni sottoposte al riesame non meritavano una ritrattazione, sta il fatto che per questa ostinazione finì sul rogo: riabilitarlo significa allora riconoscere la grandezza morale del gesto con cui il filosofo tenne ferma la sua opposizione alla dottrina cristiana?

Gli storici della filosofia, d’altra parte, discutono e discuteranno ancora a lungo del suo pensiero: delle influenze rinascimentali, neoplatoniche, neoaristoteliche, della natura e della portata del suo immanentismo, dei suoi propositi di rinnovamento della morale, della politica, della stessa teologia, ma ben difficilmente potranno raccogliere tutti questi fermenti in una qualche summula cristiana. Nella storia, come nel pensiero, non è vero affatto che «anything goes», che tutto va bene, come diceva Paul Feyerabend. Un così largo e generoso anarchismo metodologico non si addice d’altra parte neppure alla Chiesa, il cui profilo dogmatico possono certo aprirsi alle più diverse correnti o ai più diversi stili di pensiero, ma senza che per questo possano scomparire tutti i punti di attrito, tutte le distanze teoriche e gli inconciliabili punti di dottrina. Per dirla all’ingrosso: forse ha senso che rimanga alquanto contraddittorio essere cristiani, per cultura e per fede, e contemporaneamente tenere nel proprio pantheon personale Giordano Bruno o, che so, Cesare Vanini, oppure Giuliano l’Apostata.

Certo, Papa Francesco continua ad apparire abbastanza distante, perlomeno sul piano pastorale, dai suoi predecessori. Per il modo in cui interpreta il suo Pontificato, viene effettivamente difficile aspettarsi da questo Papa un’enciclica sul modello della «Fides et Ratio» di Giovanni Paolo II, con tanto di affermazione del tomismo come dottrina filosofica ufficiale della Chiesa Cattolica. Ratzinger, dal canto suo, non ha certo fatto mancare il senso di un impegno robusto sul piano teologico. Ma tra la riproposizione dei «preambula fidei» della tradizione tomista e il «tana, liberi tutti» con cui pare si voglia tributare oggigiorno un imprevisto omaggio all’eroico Bruno ce ne corre. In un’epoca in cui le idee copernicane facevano molta fatica ad affermarsi, al punto che lo stesso astronomo polacco le aveva proposte a titolo di ipotesi matematica – senza dire che ancora trentatré anni dopo Galileo Galilei sarà chiamato a pronuncerà l’abiura – Bruno scommette invece senza paura sull’infinità dell’universo. E non si tratta neanche di eliocentrismo, ma proprio della rinuncia all’idea di un universo chiuso ordinato intorno a un centro. La prima ferita narcisistica al primato della specie umana, come dirà poi Freud, fu inferta dal ripudio del sistema tolemaico: cosa vuol dire allora riabilitare, sanare quella ferita? Ammettere che l’uomo non è al centro di alcunché?

E che dire della vigorosa polemica bruniana contro la morale cristiana? La riabilitazione del pensatore deve fermarsi alle soglie del suo pensiero. Ma allora cosa significa riabilitare un filosofo se non si possono riabilitare le sue idee?

Naturalmente, nessuno pensa che la Chiesa debba fare il contrario: ribadire la condanna, mantenere all’Indice i libri, mettere sugli altari gli Inquisitori romani. Ma aprirsi al mondo moderno, riconoscere la libertà di coscienza, tributare un omaggio all’autonomia del pensiero e della ricerca, difendere l’indipendenza dello spirito individuale, la Chiesa per fortuna l’ha già fatto. E da tempo, ormai. Quel che non ha fatto, al riguardo, è solo quello che proprio non si può fare: «factum infectum fieri nequit». Quel che è fatto è fatto, insomma, e non c’è bisogno di mescolare l’acque e fare per esempio di Bruno il campione di un generico e indistinto umanesimo, come vuol fare il cardinale Frei Betto, oppure riconoscere a ritroso i tesori di spiritualità nascosti nella mistica medievale. Quei tesori ci sono, lo sappiamo, filosofia e teologia non smettono di pensarci su, ma non occorre per continuare a farlo alcuna patente di ufficialità né un finto unanimismo. Anche perché se domandassimo se un pensatore bruniano potrebbe spuntar fuori da qualche università pontificia la risposta dovrebbe essere che no, non può affatto accadere. E, francamente, è giusto così.

(Il Mattino, 11 aprile 2014)

Quando la libertà individuale è trionfo e fallimento

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Tra le molte immagini che costellano l’itinerario dell’ultimo libro di Mauro Magatti (con Chiara Giaccardi, Generativi di tutto il mondo unitevi! Manifesto per la società dei liberi, Feltrinelli, € 11) quella forse più fantasiosa è la seguente: «Tra il rigor mortis della solidità e la mobilità illeggibile della liquidità, la generatività sceglie la via del rafting: scendendo il fiume della vita facendosene portare, ma imprimendo una direzione, stando nel movimento ma governandolo, possibilmente senza farsene travolgere». La metafora della «modernità liquida», introdotta da Zygmunt Bauman, domata dal gommone della libertà generativa, che non sta solo per sé, «arretrata su di sé», ma nelle rapide dell’altro, del mondo, della vita.

Gli effetti dirompenti della libertà rispetto agli assetti tradizionali della società segnano il progetto moderno fin dal suo sorgere: basti ricordare i versi del poeta inglese John Donne, risalenti al 1611: la nuova filosofia mette tutto in dubbio – scriveva allarmato Donne – il firmamento si è frantumato, «tutto è in pezzi, scomparsa è ogni coesione». Nel Manifesto di Marx e Engels, meno di due secoli e mezzo dopo, viene indicata la causa di questo universale scuotimento, il modo capitalistico di produzione: «tutto ciò che era solido e stabile viene scosso, tutto ciò che era sacro viene profanato». Al volgere del XX secolo, Nietzsche stila infine la diagnosi della malattia metafisica dell’Occidente: il nichilismo. La liquefazione di ogni patrimonio tradizionale, la scomparsa di ogni aureola di santità, la dissoluzione di ogni legame sociale diverso dal freddo interesse getta nell’oblio anche i fini ultimi dell’umanità. In un celebre frammento datato 1888 Nietzsche scrive: «Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al perché?; che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi si svalutano».

Il paradosso su cui si esercitano Magatti e Giaccardi è presto detto: di questa svalutazione l’agente principale è proprio la libertà degli individui. Trionfo e fallimento del moderno si toccano. Nei suoi precedenti lavori, Magatti aveva delineato anzitutto il grande affresco del capitalismo tecno-nichilista (La libertà immaginaria, Feltrinelli 2009) per poi passare a rappresentare la crisi di questi anni come una crisi sistemica, non semplicemente congiunturale, dopo la quale nulla potrà più tornare come prima: agli stessi livelli di sviluppo, di consumo o – anche – di sfruttamento (La grande contrazione, Feltrinelli 2012). Con questo manifesto, Magatti tenta una reinterpretazione della libertà che le restituisca peso, spessore, sfondo, relazione, contesto. Tutto ciò che la pura e semplice autonomia, declinata come mera emancipazione individuale, disconosce, e che invece procura alla libertà il suo senso, preservandola da esiti contro-finali. La libertà, insomma, ha vinto: ma per cosa o per chi ha vinto? Per fare cosa, per promuovere quale tipo di umanità? Una libertà declinata in termini soltanto consumistici, egoistici, narcisistici, perfino autistici, non è una vera libertà. Una libertà che rinuncia a fare spazio all’altro, che mortifica il desiderio stordendolo nel godimento, che ignora le relazioni di cura e le loro ineliminabili asimmetrie, che non sa pazientare, che non sa aspettare, non è una vera libertà. Somiglia casomai alla «passione inutile» di cui parlava Sartre, priva però del suo tono alto e tragico e immiserita nel circolo del consumo.

La proposta di Magatti e Giaccardi non chiede ai moderni di frenare la corrente, ma di governarla, accendendo un nuovo immaginario della libertà, una nuova costellazione simbolica, che la sottragga alla sua declinazione puramente individualistica. Scommessa tanto ambiziosa, che gli autori non rinunciano neppure a delineare i possibili contorni di una nuova politica, di un nuovo modello di sviluppo, di un nuovo soggetto storico. A un’antropologia di segno cristiano (centrata intorno ai significati dell’altro, della cura, della dedizione) si unisce il vecchio assillo della sinistra politica e sociale: dove si trova il soggetto per questa rivoluzione di senso?

L’impresa è affascinante ma, anche, un po’ misteriosa. È vero infatti che i cambiamenti sociali ed economici in corso hanno imponenti effetti antropologici, e che trascurare questi significa non cogliere la portata di quelli. Ma non è detto che sia vero il contrario, che basti cioè tracciare una diversa figura dell’umano per riuscire a invertire il corso di quei cambiamenti.

(Il Messaggero, 10 aprile 2014)

L’identità e la sfida dell’Altro

ImmagineLa fecondazione eterologa, il cui divieto cade in Italia con la decisione presa ieri dalla Corte Costituzionale, riguarda l’«eteron», ossia l’altro, e – come dicono i filosofi – la possibilità di introdurre l’altro nel cuore dello stesso, ossia dell’omologo. Questa dialettica ha origine là dove queste parole furono innanzitutto forgiate, per divenire poi la forma e la sostanza della cultura occidentale: nel «Sofista» di Platone. La prima fecondazione eterologa fu pensata infatti dal grande filosofo greco. E fu necessaria, per sottrarre l’essere alla sua sacralità: tanto eterna e immobile quanto silenziosa e priva di vita. Platone così violò il divieto del «venerando e terribile» Parmenide di infrangere quella chiusa identità. Fra le grandi forme, i grandi generi dell’essere il filosofo ateniese introdusse il diverso, perché a fianco della solitaria e unica verità della dea Dike vi fosse la possibilità della parola umana (e, così, anche dell’errore).

Non era una cosa semplice da farsi: capire come l’altro dall’essere – la diversità, la molteplicità – potesse introdursi nell’essere senza scompaginarlo del tutto, senza contraddirlo, senza infine negarlo. Nelle astratte regioni del pensiero si svolgeva così un dramma non dissimile da quello che l’uomo vive ogni volta che deve affrontare il diverso, l’altro: per un verso ne ha paura, per un altro ne ha bisogno. Ne ha bisogno perché senza l’altro non c’é movimento né vita, ne ha paura perché l’irruzione dell’altro mette in subbuglio le tetragone certezze dell’identità.

Ivi compresa l’identità biologica, naturale. Le nuove possibilità dischiuse dalle tecniche di fecondazione artificiale pongono questi antichi dilemmi. La fecondazione eterologa introduce il diverso nella relazione genitoriale, da sempre legata alla continuità naturale. Ora, poche cose toccano più in profondità l’umanità dell’uomo di questa. E come Platone si interrogava intorno al modo in cui legare l’identico e il diverso, al modo in cui tenerli insieme, connetterli in un’unica «symphonìa», così l’umanità contemporanea deve ora interrogarsi intorno alle nuove figure che assume quell’antichissimo problema.

La decisione della Corte ci immette in una nuova, grande responsabilità. Ristabilisce un diritto alla genitorialità, che è ora di tutti i cittadini e non solo delle coppie che non hanno problemi di fertilità. Ma a tutti i cittadini chiede di pensare quali legami tengono insieme le nuove differenze che si introducono nel ghenos familiare e sociale, a fronte al fatto che, molto probabilmente, un nuovo intervento legislativo si renderà necessario, dopo che le parti più qualificanti della legge 40 sono cadute sotto il giudizio di incostituzionalità riallineando il Paese al resto d’Europa.  Non basta affrontare però la discussione come se in gioco fossero da una parte solo incomprimibili diritti individuali e, dall’altra, nobili questioni di coscienza. Ovviamente, ci sono davvero gli uni e le altre. Ma c’è anche il problema di quale comunità umana deve prendere forma. Se la politica ha ancora un senso, lo ha se e finché è in grado di elaborare questioni come queste. Il che ovviamente non significa che vi sarà un unico modo di farlo. Di fronte all’irruzione dell’artificiale nei più diversi ambiti della vita e finanche in rapporti che fino a non molto tempo fa si consideravano interamente naturali, si può infatti prendere un diverso atteggiamento, a seconda che si consideri che l’artificiale ha solo un effetto slegante, di disgregazione e dissoluzione della compatta unità naturale, oppure si consideri che anche nell’ambito dell’artificiale nuovi legami possono saldarsi, non meno forti e dotati di senso dei primi. Solo che ora tocca a noi costruirli e tutelarli.

Quello che, però, non si può fare è rinunciare a pensare le forme possibili di questa nuova comunità, perché nessun diritto, tanto meno quello che impatta sulle vite dei nascituri, può esercitarsi, né di fatto si esercita, in solitudine. Ogni diritto è sempre innanzi a terzi. Ogni relazione umana è sempre, in quanto umana, una relazione a tre. Così dicono i filosofi: ci sono io, c’è quello che penso, che faccio o che dico, e c’è ciò innanzi a cui faccio o dico quel che dico. Certo, questo «terzo» non è più la dea, a cospetto della quale Parmenide apprendeva la solida e rotonda verità, perché le nostre verità sono oggi meno solide e meno rotonde. Ma non per questo possiamo pensare di non essere al cospetto di nessuno. Ogni genitore che mette al mondo un figlio, e lo guarda, di sicuro lo sa.

(Il Mattino e Il Messaggero, 10 aprile 2014)

Il sapere finito in una crocetta

ImmaginePiù di sessantamila studenti si cimenteranno domani con i test di accesso ai corsi di medicina. Insieme con le loro famiglie, questi studenti formano un numero non piccolo di persone che trascorreranno la giornata di oggi – così come, presumo, hanno trascorso le scorse giornate – in vista della prova di domani, alla quale sono legate aspettative e ambizioni, speranze e apprensioni. Si tratta, almeno nelle aspirazioni, di una parte significativa della futura classe dirigente del Paese. Questa parte così significativa dovrà naturalmente sostenere un certo numero di esami e poi laurearsi; ma prima di ogni cosa dovrà superare i fatidici test. Cento minuti per rispondere a sessanta domande: una media di poco più di un minuto e mezzo a domanda. Per la verità, per la classe dirigente di domani, Platone – il primo che abbia in Occidente fondato una scuola – aveva immaginato un sistema formativo un po’ diverso. Lasciamo perdere i dettagli: lui era convinto soprattutto che sulle materie più importanti non si poteva mettere nulla per iscritto, figuriamoci se si potevano distribuire domande prestampate; bisognava invece discutere, confrontarsi, addirittura impegnarsi in una lunga convivenza. La verità sarebbe scoccata come una scintilla in mezzo a queste quasi sacre conversazioni. Ora, è vero che il suo modello di accademia è un po’ lontano nel tempo e che comunque il filosofo ateniese non aveva il problema dell’università di massa. Niente grandi numeri: per lui, l’educazione superiore era una faccenda per poche anime dotate di buona natura e «affini al vero». E però sarebbe inorridito lo stesso al pensiero che oggi le anime giuste noi le cerchiamo sottoponendo loro dei quiz. Ed è molto complicato provare a dimostrargli che funziona.

Secondo il ministro dell’Istruzione, invece, funziona. Anche se può funzionare meglio: quest’anno, per esempio, hanno tolto una domanda di cultura generale e un paio di domande di logica, per potenziare la preparazione sulle materie scientifiche.  Ma a parte questi piccoli aggiustamenti, la selezione affidata ai quiz ha il pregio – ha spiegato il ministro – di rispecchiare in uscita i risultati del profitto scolastico che i candidati portano con sé in entrata.

Così, se uno invece pensa che il pregio di un test di accesso ai corsi di medicina è la ricerca delle anime giuste è bello che spacciato. E va bene. Ma fra i lontani cenacoli spirituali dell’Accademia fondata da Platone, agli inizi della cultura occidentale, e le crocette da apporre ai quiz ministeriali corre una distanza così abissale, che uno vorrebbe augurarsi piuttosto qualche soluzione intermedia, di compromesso. O che perlomeno si rifletta un po’ di più sul senso della conoscenza impartita nelle aule universitarie, prima di affidarsi ai test così come agli altri strumenti burocratici introdotti in tutti i gangli della vita universitaria: nella valutazione dei prodotti della ricerca, nell’abilitazione scientifica nazionale dei futuri docenti, nell’organizzazione dell’offerta didattica e così via. Non ci sono solo le statistiche, insomma. O i criteri quantitativi, o la standardizzazione delle procedure, o la misurazione in termini di finanziamenti e ricadute applicative.

Altrimenti succede quel che succederà domani con i test. Alla prova si accosteranno ragazzi che non hanno studiato chimica o matematica, biologia o fisica. No: hanno studiato i test. Il che vuol dire che con essi si formeranno non medici, ma forse, chissà, cultori di test: testicoli. I test sono diventati cioè una materia a sé stante. Così come la relativa preparazione. Il libro di testo è allora il libro che raccoglie tutti i test disponibili, passati presenti e futuri, e lo studio consisterà nel mandarli a memoria, nell’affinare la velocità di risposta, e nel provare magari a rispondere a domande del tipo: qual è l’espressione di significato contrario a «avere fegato»? – domanda che immagino assicurerà in futuro all’Italia la miglior scuola di trapianti.

Che poi diciamo la verità: Platone sarà pure antiquato, ma forse tutti i torti non li aveva. Lui pensava che in cima alla conoscenza di una cosa non potessero esserci soltanto parole o definizioni, immagini o concetti (o risposte ai quiz), ma una certa qual maniera di cogliere la cosa stessa. E se non la specificava ulteriormente è proprio perché non la si poteva specificare, cioè mettere in formula e serrare in una definizione. Ci voleva occhio. Ora, affidatevi a un medico: vi basterà che vi riproduca tal quale la montagna di risposte esatte che si possono trovare in fondo a uno di questi manuali che fanno la fortuna delle scuole di preparazione ai test, oppure vi augurate che, in qualche modo, abbia occhio? E non c’è bisogno neppure di domandare ancora cosa mai sia quest’occhio, perché voi lo sapete e ognuno lo sa. Così come ogni docente sa riconoscere l’allievo bravo:  non gli occorre mica di affidarsi a un qualche formulario. Così come ogni docente sa quali sono i suoi colleghi bravi: non gli serve mica un acronimo dietro il quale si nascondono procedure anodine, presuntamente oggettive ma in realtà semplicemente ottuse.

Eppure continuiamo così: con i test, le crocette, le domande di cultura generale. Fuggendo il più lontano possibile da ogni vera questione circa il senso di quelle pratiche, circa il valore dell’insegnamento e della ricerca, e scansando il più possibile l’assunzione di responsabilità che sarebbe necessaria accompagnasse ogni scelta in materia di istruzione e formazione. Preferiamo che ci pensino i test. Che facciano tutto loro. E allora auguri, ragazzi: non siete in cattive mani, perché non siete in nessuna mano, perché più nessuno osa tenderne una.

(Il Mattino, 7 aprile 2014)

Vangelo, non Marx. La Chiesa di Francesco

ImmagineUn Papa è un Papa: ci mancherebbe pure che fosse un’altra cosa. Magari un comunista! Però a volte capita che nei palazzi vaticani si aggiri un uomo che in simili ambienti sembra starci un po’ a disagio: troppi stucchi, soffitti troppo alti, troppi zelanti servitori. Papa Francesco non fa molto per nascondere un certo imbarazzo non già nell’assumere su di sé il peso del Papato e della Chiesa, ma nel frequentare quelle segrete stanze. Non si spiega altrimenti come poté diffondersi, nei primi giorni del suo pontificato, la voce del tutto destituita di fondamento che il Papa sgattaiolasse in orari improbabili via dal colonnato del Bernini, lontano dalle mura dello Stato pontificio, per incontrare… chi? I comunisti? No: i poveri. Un amico barbone. Un disoccupato. Una ragazza madre.

Nulla di tutto questo: non perché la dignità papale non lo consente, ma perché proprio non si può. Però ai ragazzi che hanno intervistato Papa Francesco qualche dubbio deve essere venuto, e non solo per la scelta del nome da parte del Pontefice. Ma anche per lo stile. Per il sorriso disarmante. Per le parole. Per i gesti compiuti. Perciò Papa Francesco li ha voluti tranquillizzare: non sono comunista. Essere per i poveri non vuol dire essere comunisti.

Ed effettivamente è così. Casomai, non si capisce più bene che cosa voglia dire essere comunisti. Ma questa è (anche) un’altra storia, che potrebbe essere raccontata così: un conto è essere per i poveri, e magari condividerne le sofferenze morali e materiali, ed esprimere loro solidarietà, fare la carità, costruire per loro un mondo più giusto; un altro è essere per i poveri, e pensare che la loro povertà non sta semplicemente a fianco dell’altrui ricchezza, ma è proprio causata dall’altrui ricchezza. E non perché i ricchi sono cattivi: non occorre. Ma necessariamente, strutturalmente: per com’è fatta la società. Perché cioè la società è fatta male e va cambiata, anzi rivoluzionata. Insomma: per un comunista come non ce ne sono più nemmeno nei discorsi di Berlusconi, un povero è povero non per disgrazia, non per sfortuna, non per pigrizia o per inettitudine, ma perché c’è la ricchezza, perché ci sono i ricchi. Si chiama dialettica e dà luogo alla lotta di classe: poveri contro ricchi, ricchi contro poveri.

Ecco: nell’opzione preferenziale della Chiesa per i poveri questa lotta non c’è, non importa quanto forte sia l’indignazione per la miseria e la povertà crescente di sempre più ampi strati della popolazione. E questo, naturalmente, vale anche per Papa Bergoglio, quando dice che il cuore del messaggio evangelico è nella scelta per i poveri: come sta scritto, infatti? È più facile che un cammello passi per la cruna dell’ago che un ricco vada nel Regno dei Cieli. Poi, certo: si dovrà sempre dire che c’è povertà e povertà, c’è povertà materiale e povertà spirituale, ma il Papa venuto dalla fine del mondo, cioè dall’America Latina, cioè dalla patria della teologia della liberazione, cioè da quella dottrina teologica che più di ogni altra ha declinato in termini economici e sociali il tema evangelico della povertà, beccandosi anche l’accusa di marxismo e qualche processo a Roma – un Papa così, che sceglie per giunta di chiamarsi Francesco come il santo poverello di Assisi, dà comunque l’impressione di prendere quelle parole di Gesù in un senso maledettamente materiale, letterale.

E però vale la pena ricordarlo. È vero che sono state proprio le conferenze episcopali latino-americane a coniare l’espressione che la Chiesa di Roma ha poi fatto propria: la Chiesa compie una scelta preferenziale per i poveri, per gli ultimi. Solo che mentre Wojtyla diede mostra di accogliere i fermenti che venivano da quelle Chiese lontane, segnate da un contesto di profonde diseguaglianze e paurose povertà, l’allora prefetto della Congregazione della Fede, poi Papa col nome di Benedetto XVI (poi Papa emerito) diede allora una lettura fortemente critica, sia sul piano dogmatico che sul piano pastorale, di quei fermenti dottrinali, temendo una declinazione della fede in una chiave esclusivamente mondana, temporale.

Ora però il pendolo oscilla nuovamente, e alla guida della Chiesa cattolica è arrivato un Papa argentino, che non solo ha vissuto da vicino la stagione della teologia della liberazione ma non teme neppure che gli si dia del comunista. Parla ai poveri, assume i poveri come chiave di intelligenza delle parole del Vangelo, senza avere la barba di Karl Marx.

Resta, se proprio non gliela si vuol dare vinta, di accusarlo di essere, almeno, pauperista.

Qui è più complicato distinguere e spiegare. Forse ce la si può cavare con un’analogia: pauperista è, nella vita della Chiesa, chi è populista nella vita sociale e pubblica. Chi rinuncia alla complessità del governo delle cose e degli uomini, chi ignora la pazienza della mediazione e la saggezza dell’istituzione, e con troppa precipitazione si getta, anche demagogicamente, dalla parte del popolo. Come secondo taluni farebbe questo Papa.

Che se invece fosse la politica a farlo, senza troppe remore tecnocratiche, su certi temi sociali ed economici, forse tanto male non sarebbe. Temo anzi che se si dice pauperista Papa Francesco è proprio perché, al contrario, la politica non lo vuol fare e non vuole nemmeno sentirselo dire. O vederselo rappresentare con l’esempio. 

 (Il Mattino, 5 aprile 2014)