Un Papa è un Papa: ci mancherebbe pure che fosse un’altra cosa. Magari un comunista! Però a volte capita che nei palazzi vaticani si aggiri un uomo che in simili ambienti sembra starci un po’ a disagio: troppi stucchi, soffitti troppo alti, troppi zelanti servitori. Papa Francesco non fa molto per nascondere un certo imbarazzo non già nell’assumere su di sé il peso del Papato e della Chiesa, ma nel frequentare quelle segrete stanze. Non si spiega altrimenti come poté diffondersi, nei primi giorni del suo pontificato, la voce del tutto destituita di fondamento che il Papa sgattaiolasse in orari improbabili via dal colonnato del Bernini, lontano dalle mura dello Stato pontificio, per incontrare… chi? I comunisti? No: i poveri. Un amico barbone. Un disoccupato. Una ragazza madre.
Nulla di tutto questo: non perché la dignità papale non lo consente, ma perché proprio non si può. Però ai ragazzi che hanno intervistato Papa Francesco qualche dubbio deve essere venuto, e non solo per la scelta del nome da parte del Pontefice. Ma anche per lo stile. Per il sorriso disarmante. Per le parole. Per i gesti compiuti. Perciò Papa Francesco li ha voluti tranquillizzare: non sono comunista. Essere per i poveri non vuol dire essere comunisti.
Ed effettivamente è così. Casomai, non si capisce più bene che cosa voglia dire essere comunisti. Ma questa è (anche) un’altra storia, che potrebbe essere raccontata così: un conto è essere per i poveri, e magari condividerne le sofferenze morali e materiali, ed esprimere loro solidarietà, fare la carità, costruire per loro un mondo più giusto; un altro è essere per i poveri, e pensare che la loro povertà non sta semplicemente a fianco dell’altrui ricchezza, ma è proprio causata dall’altrui ricchezza. E non perché i ricchi sono cattivi: non occorre. Ma necessariamente, strutturalmente: per com’è fatta la società. Perché cioè la società è fatta male e va cambiata, anzi rivoluzionata. Insomma: per un comunista come non ce ne sono più nemmeno nei discorsi di Berlusconi, un povero è povero non per disgrazia, non per sfortuna, non per pigrizia o per inettitudine, ma perché c’è la ricchezza, perché ci sono i ricchi. Si chiama dialettica e dà luogo alla lotta di classe: poveri contro ricchi, ricchi contro poveri.
Ecco: nell’opzione preferenziale della Chiesa per i poveri questa lotta non c’è, non importa quanto forte sia l’indignazione per la miseria e la povertà crescente di sempre più ampi strati della popolazione. E questo, naturalmente, vale anche per Papa Bergoglio, quando dice che il cuore del messaggio evangelico è nella scelta per i poveri: come sta scritto, infatti? È più facile che un cammello passi per la cruna dell’ago che un ricco vada nel Regno dei Cieli. Poi, certo: si dovrà sempre dire che c’è povertà e povertà, c’è povertà materiale e povertà spirituale, ma il Papa venuto dalla fine del mondo, cioè dall’America Latina, cioè dalla patria della teologia della liberazione, cioè da quella dottrina teologica che più di ogni altra ha declinato in termini economici e sociali il tema evangelico della povertà, beccandosi anche l’accusa di marxismo e qualche processo a Roma – un Papa così, che sceglie per giunta di chiamarsi Francesco come il santo poverello di Assisi, dà comunque l’impressione di prendere quelle parole di Gesù in un senso maledettamente materiale, letterale.
E però vale la pena ricordarlo. È vero che sono state proprio le conferenze episcopali latino-americane a coniare l’espressione che la Chiesa di Roma ha poi fatto propria: la Chiesa compie una scelta preferenziale per i poveri, per gli ultimi. Solo che mentre Wojtyla diede mostra di accogliere i fermenti che venivano da quelle Chiese lontane, segnate da un contesto di profonde diseguaglianze e paurose povertà, l’allora prefetto della Congregazione della Fede, poi Papa col nome di Benedetto XVI (poi Papa emerito) diede allora una lettura fortemente critica, sia sul piano dogmatico che sul piano pastorale, di quei fermenti dottrinali, temendo una declinazione della fede in una chiave esclusivamente mondana, temporale.
Ora però il pendolo oscilla nuovamente, e alla guida della Chiesa cattolica è arrivato un Papa argentino, che non solo ha vissuto da vicino la stagione della teologia della liberazione ma non teme neppure che gli si dia del comunista. Parla ai poveri, assume i poveri come chiave di intelligenza delle parole del Vangelo, senza avere la barba di Karl Marx.
Resta, se proprio non gliela si vuol dare vinta, di accusarlo di essere, almeno, pauperista.
Qui è più complicato distinguere e spiegare. Forse ce la si può cavare con un’analogia: pauperista è, nella vita della Chiesa, chi è populista nella vita sociale e pubblica. Chi rinuncia alla complessità del governo delle cose e degli uomini, chi ignora la pazienza della mediazione e la saggezza dell’istituzione, e con troppa precipitazione si getta, anche demagogicamente, dalla parte del popolo. Come secondo taluni farebbe questo Papa.
Che se invece fosse la politica a farlo, senza troppe remore tecnocratiche, su certi temi sociali ed economici, forse tanto male non sarebbe. Temo anzi che se si dice pauperista Papa Francesco è proprio perché, al contrario, la politica non lo vuol fare e non vuole nemmeno sentirselo dire. O vederselo rappresentare con l’esempio.
(Il Mattino, 5 aprile 2014)