Archivi del giorno: aprile 11, 2014

Perché Giordano Bruno è già riabilitato

ImmagineEretico, impenitente, ostinato. Nella sentenza con la quale Giordano Bruno fu condannato al rogo, l’ex frate domenicano, condotto innanzi al Sant’Uffizio dopo una vita avventurosa e inquieta, dopo essere stato trattenuto in carcere per circa otto anni, dopo essere forse stato anche torturato, appare così: pertinacemente attaccato ai suoi errori, indisponibile all’abiura, fiero e orgoglioso delle dottrine professate e disposto a difenderle contro ogni teologo. Finito che si ebbe di leggere la sentenza, Bruno disse, o avrebbe detto, alla congregazione dei cardinali inquisitori, con tono di sfida: «Forse tremate più voi nel pronunciare la sentenza che io nell’ascoltarla». Non sono parole di uno spirito docile al magistero della Chiesa, come ognuno intende.

Dopo più di quattro secoli, però, Roma non trema più dinanzi al pensiero e all’opera del Nolano. E per questo è possibile persino che la sua figura venga proposta per una riabilitazione ufficiale. Questa è almeno l’intenzione che ha manifestato il cardinale brasiliano Frei Betto, e che Papa Francesco avrebbe intenzione, a detta del cardinale, di tenere in considerazione. Insieme a Bruno, un altro domenicano sarebbe stato proposto per la riabilitazione: il grande pensatore renano Meister Eckhart, vissuto fra XIII e XIV secolo, il cui radicale misticismo speculativo mal si conciliava con la dottrina trinitaria della Chiesa cattolica (mentre fecondò copiosamente, secoli dopo, l’idealismo tedesco di Schelling e Hegel). Nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, oltre a rallegrarsi per il generoso proposito, vale la pena chiedersi che cosa precisamente significhi un processo di riabilitazione, e mari anche chi o cosa debba essere riabilitato, se il filosofo o i suoi accusatori. Dopo tutto, le piazze e le strade, le scuole e i monumenti Giordano Bruno li ha già avuti dedicati, senza aspettare il placet ecclesiastico. Né gli occorre per trovare un posto nella storia del pensiero.

Ma si predispongano pure le carte, si rifaccia il processo e si riabiliti pure: significherà questa insperata revisione che innanzi al Sant’Uffizio Giordano Bruno  non fu affatto eretico, impenitente oppure ostinato? Sarebbe complicato assai. Perché impenitente e ostinato Bruno lo fu senz’altro, visto che i lunghi anni del processo non valsero ad ottenere quell’abiura che gli avrebbe salvato la vita. Il processo ebbe fasi diverse e parve, nel corso degli anni, che avrebbe potuto avere un esito diverso. Fino all’ultimo si rimase appesi ad otto proposizioni che Bruno pareva potesse infine ritrattare. Così non fu, e quale che sia stata la causa che determinò l’ultimo irrigidimento del Nolano, per qualunque ragione si convinse che le proposizioni sottoposte al riesame non meritavano una ritrattazione, sta il fatto che per questa ostinazione finì sul rogo: riabilitarlo significa allora riconoscere la grandezza morale del gesto con cui il filosofo tenne ferma la sua opposizione alla dottrina cristiana?

Gli storici della filosofia, d’altra parte, discutono e discuteranno ancora a lungo del suo pensiero: delle influenze rinascimentali, neoplatoniche, neoaristoteliche, della natura e della portata del suo immanentismo, dei suoi propositi di rinnovamento della morale, della politica, della stessa teologia, ma ben difficilmente potranno raccogliere tutti questi fermenti in una qualche summula cristiana. Nella storia, come nel pensiero, non è vero affatto che «anything goes», che tutto va bene, come diceva Paul Feyerabend. Un così largo e generoso anarchismo metodologico non si addice d’altra parte neppure alla Chiesa, il cui profilo dogmatico possono certo aprirsi alle più diverse correnti o ai più diversi stili di pensiero, ma senza che per questo possano scomparire tutti i punti di attrito, tutte le distanze teoriche e gli inconciliabili punti di dottrina. Per dirla all’ingrosso: forse ha senso che rimanga alquanto contraddittorio essere cristiani, per cultura e per fede, e contemporaneamente tenere nel proprio pantheon personale Giordano Bruno o, che so, Cesare Vanini, oppure Giuliano l’Apostata.

Certo, Papa Francesco continua ad apparire abbastanza distante, perlomeno sul piano pastorale, dai suoi predecessori. Per il modo in cui interpreta il suo Pontificato, viene effettivamente difficile aspettarsi da questo Papa un’enciclica sul modello della «Fides et Ratio» di Giovanni Paolo II, con tanto di affermazione del tomismo come dottrina filosofica ufficiale della Chiesa Cattolica. Ratzinger, dal canto suo, non ha certo fatto mancare il senso di un impegno robusto sul piano teologico. Ma tra la riproposizione dei «preambula fidei» della tradizione tomista e il «tana, liberi tutti» con cui pare si voglia tributare oggigiorno un imprevisto omaggio all’eroico Bruno ce ne corre. In un’epoca in cui le idee copernicane facevano molta fatica ad affermarsi, al punto che lo stesso astronomo polacco le aveva proposte a titolo di ipotesi matematica – senza dire che ancora trentatré anni dopo Galileo Galilei sarà chiamato a pronuncerà l’abiura – Bruno scommette invece senza paura sull’infinità dell’universo. E non si tratta neanche di eliocentrismo, ma proprio della rinuncia all’idea di un universo chiuso ordinato intorno a un centro. La prima ferita narcisistica al primato della specie umana, come dirà poi Freud, fu inferta dal ripudio del sistema tolemaico: cosa vuol dire allora riabilitare, sanare quella ferita? Ammettere che l’uomo non è al centro di alcunché?

E che dire della vigorosa polemica bruniana contro la morale cristiana? La riabilitazione del pensatore deve fermarsi alle soglie del suo pensiero. Ma allora cosa significa riabilitare un filosofo se non si possono riabilitare le sue idee?

Naturalmente, nessuno pensa che la Chiesa debba fare il contrario: ribadire la condanna, mantenere all’Indice i libri, mettere sugli altari gli Inquisitori romani. Ma aprirsi al mondo moderno, riconoscere la libertà di coscienza, tributare un omaggio all’autonomia del pensiero e della ricerca, difendere l’indipendenza dello spirito individuale, la Chiesa per fortuna l’ha già fatto. E da tempo, ormai. Quel che non ha fatto, al riguardo, è solo quello che proprio non si può fare: «factum infectum fieri nequit». Quel che è fatto è fatto, insomma, e non c’è bisogno di mescolare l’acque e fare per esempio di Bruno il campione di un generico e indistinto umanesimo, come vuol fare il cardinale Frei Betto, oppure riconoscere a ritroso i tesori di spiritualità nascosti nella mistica medievale. Quei tesori ci sono, lo sappiamo, filosofia e teologia non smettono di pensarci su, ma non occorre per continuare a farlo alcuna patente di ufficialità né un finto unanimismo. Anche perché se domandassimo se un pensatore bruniano potrebbe spuntar fuori da qualche università pontificia la risposta dovrebbe essere che no, non può affatto accadere. E, francamente, è giusto così.

(Il Mattino, 11 aprile 2014)

Quando la libertà individuale è trionfo e fallimento

Immagine

Tra le molte immagini che costellano l’itinerario dell’ultimo libro di Mauro Magatti (con Chiara Giaccardi, Generativi di tutto il mondo unitevi! Manifesto per la società dei liberi, Feltrinelli, € 11) quella forse più fantasiosa è la seguente: «Tra il rigor mortis della solidità e la mobilità illeggibile della liquidità, la generatività sceglie la via del rafting: scendendo il fiume della vita facendosene portare, ma imprimendo una direzione, stando nel movimento ma governandolo, possibilmente senza farsene travolgere». La metafora della «modernità liquida», introdotta da Zygmunt Bauman, domata dal gommone della libertà generativa, che non sta solo per sé, «arretrata su di sé», ma nelle rapide dell’altro, del mondo, della vita.

Gli effetti dirompenti della libertà rispetto agli assetti tradizionali della società segnano il progetto moderno fin dal suo sorgere: basti ricordare i versi del poeta inglese John Donne, risalenti al 1611: la nuova filosofia mette tutto in dubbio – scriveva allarmato Donne – il firmamento si è frantumato, «tutto è in pezzi, scomparsa è ogni coesione». Nel Manifesto di Marx e Engels, meno di due secoli e mezzo dopo, viene indicata la causa di questo universale scuotimento, il modo capitalistico di produzione: «tutto ciò che era solido e stabile viene scosso, tutto ciò che era sacro viene profanato». Al volgere del XX secolo, Nietzsche stila infine la diagnosi della malattia metafisica dell’Occidente: il nichilismo. La liquefazione di ogni patrimonio tradizionale, la scomparsa di ogni aureola di santità, la dissoluzione di ogni legame sociale diverso dal freddo interesse getta nell’oblio anche i fini ultimi dell’umanità. In un celebre frammento datato 1888 Nietzsche scrive: «Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al perché?; che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi si svalutano».

Il paradosso su cui si esercitano Magatti e Giaccardi è presto detto: di questa svalutazione l’agente principale è proprio la libertà degli individui. Trionfo e fallimento del moderno si toccano. Nei suoi precedenti lavori, Magatti aveva delineato anzitutto il grande affresco del capitalismo tecno-nichilista (La libertà immaginaria, Feltrinelli 2009) per poi passare a rappresentare la crisi di questi anni come una crisi sistemica, non semplicemente congiunturale, dopo la quale nulla potrà più tornare come prima: agli stessi livelli di sviluppo, di consumo o – anche – di sfruttamento (La grande contrazione, Feltrinelli 2012). Con questo manifesto, Magatti tenta una reinterpretazione della libertà che le restituisca peso, spessore, sfondo, relazione, contesto. Tutto ciò che la pura e semplice autonomia, declinata come mera emancipazione individuale, disconosce, e che invece procura alla libertà il suo senso, preservandola da esiti contro-finali. La libertà, insomma, ha vinto: ma per cosa o per chi ha vinto? Per fare cosa, per promuovere quale tipo di umanità? Una libertà declinata in termini soltanto consumistici, egoistici, narcisistici, perfino autistici, non è una vera libertà. Una libertà che rinuncia a fare spazio all’altro, che mortifica il desiderio stordendolo nel godimento, che ignora le relazioni di cura e le loro ineliminabili asimmetrie, che non sa pazientare, che non sa aspettare, non è una vera libertà. Somiglia casomai alla «passione inutile» di cui parlava Sartre, priva però del suo tono alto e tragico e immiserita nel circolo del consumo.

La proposta di Magatti e Giaccardi non chiede ai moderni di frenare la corrente, ma di governarla, accendendo un nuovo immaginario della libertà, una nuova costellazione simbolica, che la sottragga alla sua declinazione puramente individualistica. Scommessa tanto ambiziosa, che gli autori non rinunciano neppure a delineare i possibili contorni di una nuova politica, di un nuovo modello di sviluppo, di un nuovo soggetto storico. A un’antropologia di segno cristiano (centrata intorno ai significati dell’altro, della cura, della dedizione) si unisce il vecchio assillo della sinistra politica e sociale: dove si trova il soggetto per questa rivoluzione di senso?

L’impresa è affascinante ma, anche, un po’ misteriosa. È vero infatti che i cambiamenti sociali ed economici in corso hanno imponenti effetti antropologici, e che trascurare questi significa non cogliere la portata di quelli. Ma non è detto che sia vero il contrario, che basti cioè tracciare una diversa figura dell’umano per riuscire a invertire il corso di quei cambiamenti.

(Il Messaggero, 10 aprile 2014)

L’identità e la sfida dell’Altro

ImmagineLa fecondazione eterologa, il cui divieto cade in Italia con la decisione presa ieri dalla Corte Costituzionale, riguarda l’«eteron», ossia l’altro, e – come dicono i filosofi – la possibilità di introdurre l’altro nel cuore dello stesso, ossia dell’omologo. Questa dialettica ha origine là dove queste parole furono innanzitutto forgiate, per divenire poi la forma e la sostanza della cultura occidentale: nel «Sofista» di Platone. La prima fecondazione eterologa fu pensata infatti dal grande filosofo greco. E fu necessaria, per sottrarre l’essere alla sua sacralità: tanto eterna e immobile quanto silenziosa e priva di vita. Platone così violò il divieto del «venerando e terribile» Parmenide di infrangere quella chiusa identità. Fra le grandi forme, i grandi generi dell’essere il filosofo ateniese introdusse il diverso, perché a fianco della solitaria e unica verità della dea Dike vi fosse la possibilità della parola umana (e, così, anche dell’errore).

Non era una cosa semplice da farsi: capire come l’altro dall’essere – la diversità, la molteplicità – potesse introdursi nell’essere senza scompaginarlo del tutto, senza contraddirlo, senza infine negarlo. Nelle astratte regioni del pensiero si svolgeva così un dramma non dissimile da quello che l’uomo vive ogni volta che deve affrontare il diverso, l’altro: per un verso ne ha paura, per un altro ne ha bisogno. Ne ha bisogno perché senza l’altro non c’é movimento né vita, ne ha paura perché l’irruzione dell’altro mette in subbuglio le tetragone certezze dell’identità.

Ivi compresa l’identità biologica, naturale. Le nuove possibilità dischiuse dalle tecniche di fecondazione artificiale pongono questi antichi dilemmi. La fecondazione eterologa introduce il diverso nella relazione genitoriale, da sempre legata alla continuità naturale. Ora, poche cose toccano più in profondità l’umanità dell’uomo di questa. E come Platone si interrogava intorno al modo in cui legare l’identico e il diverso, al modo in cui tenerli insieme, connetterli in un’unica «symphonìa», così l’umanità contemporanea deve ora interrogarsi intorno alle nuove figure che assume quell’antichissimo problema.

La decisione della Corte ci immette in una nuova, grande responsabilità. Ristabilisce un diritto alla genitorialità, che è ora di tutti i cittadini e non solo delle coppie che non hanno problemi di fertilità. Ma a tutti i cittadini chiede di pensare quali legami tengono insieme le nuove differenze che si introducono nel ghenos familiare e sociale, a fronte al fatto che, molto probabilmente, un nuovo intervento legislativo si renderà necessario, dopo che le parti più qualificanti della legge 40 sono cadute sotto il giudizio di incostituzionalità riallineando il Paese al resto d’Europa.  Non basta affrontare però la discussione come se in gioco fossero da una parte solo incomprimibili diritti individuali e, dall’altra, nobili questioni di coscienza. Ovviamente, ci sono davvero gli uni e le altre. Ma c’è anche il problema di quale comunità umana deve prendere forma. Se la politica ha ancora un senso, lo ha se e finché è in grado di elaborare questioni come queste. Il che ovviamente non significa che vi sarà un unico modo di farlo. Di fronte all’irruzione dell’artificiale nei più diversi ambiti della vita e finanche in rapporti che fino a non molto tempo fa si consideravano interamente naturali, si può infatti prendere un diverso atteggiamento, a seconda che si consideri che l’artificiale ha solo un effetto slegante, di disgregazione e dissoluzione della compatta unità naturale, oppure si consideri che anche nell’ambito dell’artificiale nuovi legami possono saldarsi, non meno forti e dotati di senso dei primi. Solo che ora tocca a noi costruirli e tutelarli.

Quello che, però, non si può fare è rinunciare a pensare le forme possibili di questa nuova comunità, perché nessun diritto, tanto meno quello che impatta sulle vite dei nascituri, può esercitarsi, né di fatto si esercita, in solitudine. Ogni diritto è sempre innanzi a terzi. Ogni relazione umana è sempre, in quanto umana, una relazione a tre. Così dicono i filosofi: ci sono io, c’è quello che penso, che faccio o che dico, e c’è ciò innanzi a cui faccio o dico quel che dico. Certo, questo «terzo» non è più la dea, a cospetto della quale Parmenide apprendeva la solida e rotonda verità, perché le nostre verità sono oggi meno solide e meno rotonde. Ma non per questo possiamo pensare di non essere al cospetto di nessuno. Ogni genitore che mette al mondo un figlio, e lo guarda, di sicuro lo sa.

(Il Mattino e Il Messaggero, 10 aprile 2014)