Archivi del giorno: aprile 14, 2014

Una passeggiata e tante scoperte

ImmagineCerto che con il 50% dei disoccupati un paese è davvero in crisi. Lo ha detto la cancelliera tedesca, Angela Merkel, recandosi ieri in visita privata presso gli scavi di Pompei ed Oplonti, e dunque c’è da scommettere che è proprio così: siamo in crisi. Chi si illudeva che per essere in crisi bisognasse avere, che so, il 70% di disoccupazione, oppure una mortalità infantile come ai tempi dell’antica Roma, oppure peggio: l’invasione delle cavallette, deve purtroppo ricredersi, basta il 50%. Basta: si fa per dire. Il fatto è che nel lieve stupore di Angela Merkel per il dato riferitogli dal sindaco di Pozzuoli, che finora non era evidentemente riuscito a fare arrivare la ferale notizia fino a Berlino, sembra affacciarsi un tratto di comportamento che – il paragone non sembri troppo irriverente – ricorda le famose brioches della regina di Francia Maria Antonietta di Asburgo-Lorena. La gente affamata protestava sotto le finestre del palazzo chiedendo pane, e giustamente la regina rispose che, se non c’era pane, potevano almeno gettare loro delle brioches. La principale differenza tra i due episodi sta evidentemente nel fatto che quello di Maria Antonietta è molto probabilmente inventato, mentre quello che riguarda la Merkel è, purtroppo, ben reale.

Poi certo, vi sono altre differenze: per esempio che nella Francia del ‘700 le regine indossavano le parrucche e c’era ancora la monarchia (e di lì a poco sarebbe invece scoppiata la rivoluzione, brioches o non brioches), mentre noi oggi viviamo in una sana e robusta democrazia e portiamo molto liberamente i capelli. Però qualcosa della distanza che esisteva un tempo fra i regnanti dell’epoca e il popolo minuto forse si sta producendo nuovamente, drammaticamente, se c’è bisogno di una passeggiata tra gli scavi, o di un caffè in un bar di Pozzuoli, per scoprire con sorpresa il dato della disoccupazione nel Mezzogiorno. Che democrazia è quella che separa così tanto i luoghi di decisione dal paese reale, da renderglielo quasi invisibile, al punto che ci vuole una passeggiata quasi casuale per farne la triste scoperta?

La cosa non può non preoccuparci. Una qualche sottile preoccupazione deve però averla anche la Merkel, se ha voluto farsi un giro, chiacchierare, scambiare impressioni, e non starsene semplicemente in vacanza ad Ischia. Il fatto è che le elezioni europee si avvicinano, e mai come questa volta è di Europa che si parla. Di Europa e dell’euro, e delle politiche fin qui seguite nell’affrontare la crisi, sotto la regia principale del governo tedesco. Ebbene, non poteva certo essere una giornata di libertà il momento giusto per parlare del bilancio dell’Unione, delle necessità finanziarie degli Stati o dei vincoli del patto di stabilità, ma la Merkel deve essersi chiesto cosa mai arrivi ai cittadini europei di tutto questo gran parlare di finanza, monete, debito se, appena ha potuto, ha osservato che, dopo tutto, qualcosa di buono s’è potuta fare con i fondi europei. E vorrei pure vedere!, deve aver pensato il sindaco di Pozzuoli, che però garbatamente si è astenuto dall’esclamare. Ma se quell’uscita è apparsa come la perfetta «excusatio non petita», vuol dir proprio che la Merkel un po’ sotto accusa deve evidentemente sentirsi. Così ha preso a muoversi nelle stanche e provate periferie del vecchio continente in cerca di qualche rassicurazione. La stessa sensazione si è infatti avuta in Grecia, dove pure la Merkel si è recata qualche giorno fa per incoraggiare ed elogiare gli sforzi del governo greco nell’attuazione delle draconiane riforme decise di concerto con l’Unione e gli organismi internazionali. Ecco: chissà se anche lì la Cancelliera ha chiesto il dato della disoccupazione giovanile: lì infatti sono addirittura al 60%, e c’è veramente da augurarsi che la Merkel lo conoscesse ancor prima di recarsi ad Atene.

Che se invece non lo conosceva, e qualche solerte funzionario glielo ha rappresentato come da noi il sindaco puteolano, beh: non vorremmo essere nei panni dei cittadini greci. Ma, a pensar bene, neppure nei nostri.

(Il Mattino, 14 aprile 2014)

Se il dibattito fa notizia

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Il ragionamento che è comparso ieri sui giornali italiani è di una semplicità disarmante. Muove da un fatto inoppugnabile: si è riunita a Roma la minoranza del Pd. Se si è riunita, non è difficile dimostrare che esiste; ma, se esiste una minoranza del Pd, è a maggior ragion necessario – hanno inferito gli spiriti più arguti – che esista una maggioranza del Pd; dunque esistono due Pd. Questo impeccabile ragionamento ha bisogno naturalmente di una premessa aggiuntiva. La quale dice che: una minoranza e una maggioranza non possono stare nel medesimo partito senza che il partito, da uno che era, si divida in due. Il fatto che il partito si chiami democratico, e che la democrazia si fondi a quanto pare sul principio di maggioranza – che perciò stesso non può non prevedere almeno la possibilità di una minoranza – questo fatto non disturba i ragionatori di cui sopra. Il fatto ulteriore che lo stesso Matteo Renzi, prima di diventare maggioranza nel Pd, è stato minoranza entro lo stesso partito di cui poi è divenuto il segretario: neppure questo scompone minimamente i sagaci commentatori delle vicende interne del Pd.

Il fatto è che questa benedetta personalizzazione della politica non deve affatto coincidere con la depersonalizzazione di tutti gli altri, e nemmeno con il rinsecchimento dei partiti. I quali partiti, per la verità, negli ultimi anni sono già rinsecchiti abbastanza di loro stessa mano, che proprio non c’è bisogno che si insegni loro come svuotarsi ulteriormente di istanze critiche e di articolazione interna. C’è peraltro, in questa tendenza, un’accentuazione tutta italiana, perché negli altri paesi non si rimprovera certo alle minoranze di esistere, o di provare a riorganizzarsi, come accade qui da noi.

Poi ovviamente vi sono modo diversi di essere minoranza (così come, beninteso, vi sono modi diversi di essere maggioranza). Tra i più critici nei confronti di Renzi, nel suo intervento di sabato scorso all’assemblea romana Miguel Gotor ha assicurato anzitutto lealtà e responsabilità: sarebbe politicamente incomprensibile – ha detto – mettersi a fare l’opposizione al governo guidato dal segretario del partito. Dopodiché ha aggiunto: insieme alla lealtà e alla responsabilità ci vuole anche autonomia, per non condannare all’eutanasia un intero patrimonio politico e culturale. Ecco: anche in questo ragionamento sembra in verità che sia all’opera una premessa aggiuntiva: che cioè di quel patrimonio politico e culturale non vi sia traccia alcuna né in Renzi né in alcun pezzo della maggioranza che lo sostiene. Che dunque quel patrimonio non lo si possa mettere in gioco se non mettendolo al riparo. In attesa che passi la nottata.

Ma questa osservazione attiene, per l’appunto, ai modi diversi di essere minoranza. Il che è tutt’altra cosa dal farsi cadere le braccia per il fatto che nel Pd non c’è un unanime e compatto coro di assensi ad ogni proposta che venga formulata dal governo. Eh no: le braccia devono cadere, al contrario, se non si ascolta più alcuna voce critica. Abbiamo avuto per anni Berlusconi, per anni Bossi. Abbiamo avuto per anni partiti fondati esclusivamente sulla figura più o meno carismatica del Capo. Che in questo modo quei partiti abbiano funzionato è tutto meno che dimostrato. Per giunta, ora abbiamo anche Grillo, e anche lì non sapremmo come immaginare una dialettica fra componenti diverse.

Eppure, quelli stessi che fanno la morale a Grillo, e che magari lo accusano di metodi antidemocratici nei confronti dei dissidenti, non riescono ad accettare l’esistenza di una minoranza fra i democratici.

Cosa che invece Renzi sa fare benissimo, non foss’altro perché è forte dei numeri. Così la direzione si riunisce, i gruppi parlamentari si riuniscono. Certo, la curvatura personale è tale, che non sempre si riesce a differenziare quel che vuole la comunità dei democratici da quel che vuole invece il segretario. Ma proprio per questo non c’è alcun bisogno di assecondare il fenomeno dimostrandosi più realisti del re. Anche questa tendenza, peraltro, sembra contenere una specificità tutta italiana.

(L’Unità, 14 aprile 2014)