La legge del taglione si può disapplicare. La vendetta può finire. Anche in Iran. Anche su una pubblica piazza. Anche dinanzi a una folla urlante, che attende di vedere lo spettacolo della morte. Anche quando l’assassino – un ragazzo, Abdollah Hosseinzadeh – ha ucciso tuo figlio pugnalandolo e infierendo sul suo corpo. Anche quando è già salito sulla sedia – è stato martedì scorso, lo si è appreso ieri – e urla, e ha il cappio al collo e la benda sugli occhi, e le guardie sono schierate e tu sei la madre, chiamata ad infliggere la pena capitale. E tu, invece di stringere il nodo, invece di dare un calcio alla sedia, prendi a schiaffi l’assassino, e parli alla folla in lacrime, e tuo marito, il padre della vittima, leva al condannato la corda dal collo e insieme abbracciate l’altra madre, la madre dell’assassino. Va’, e non peccare mai più.
È già esistito in verità un uomo cui la sentenza fu letta e a cui fu dato il tempo per torturarsi con l’assoluta certezza che la pena sarebbe stata eseguita, e a cui fu detto invece, all’ultimo minuto: «Puoi andare, ti è concessa la grazia». Quest’uomo potrebbe raccontare cosa ha provato Abdollah quando ha tolto la benda, e ha riavuto la vita, la luce, lo sguardo di altri uomini. Lo ha già fatto, in verità: nell’«Idiota», perché quell’uomo era Fëdor Dostoevskij. L’uomo di cui racconta nel romanzo – parlando della propria stessa esperienza – era grande e forte, e coraggioso, e intelligente, ma mentre saliva al patibolo piangeva come un bambino. Una tortura infernale! In quali sofferenze non si getta un’anima quando non ha più alcuna speranza di salvarsi, quando sa con certezza che «tra dieci minuti, e poi tra mezzo minuto, e poi adesso, in questo preciso istante» tutto sarà finito! «Sta scritto: tu non ucciderai. Siccome uno ha ucciso, lo si deve uccidere? No, questo è peccato». Così si spiega nel romanzo il principe Myŝkin, l’idiota, cioè il puro, il santo, l’innocente. E una goccia infinita di questa purezza era martedì sulle labbra di quella madre. «Sta scritto», dice Dostoevskij, ma la madre musulmana che non ha ucciso, che non ha voluto uccidere, ha dimostrato che non c’è neppure bisogno di leggerlo in un libro, fosse pure un gran libro, fosse anche il libro dei libri. A volte può bastare molto meno: essere visitati da uno strano sogno, ad esempio, com’è accaduto alla donna, e capire, rivedendo in sogno il volto sereno del proprio figlio, che non c’è bisogno di vendicarsi, che nessuna offesa va lavata col sangue, che nessuna giustizia può essere fatta mettendo a morte un uomo, che uccidere chi ha ucciso, in forza di una legge, «è una pena senza paragone più grande della colpa». È una pena semplicemente inumana.
L’umanità comincia proprio là, dove quella pena è estinta. Là dove perfino una madre può vincere i sentimenti di vendetta e perdonare all’assassino di suo figlio. Là dove incontra gli occhi di quell’assassino, dopo che essi hanno veduto con assoluta chiarezza e in una ridda confusa di pensieri febbrili, la morte, e dalla morte sono ritornati. La vita umana è umana non perché va verso la morte, ma perché dalla morte ritorna, e così conquista la grazia incomparabilmente bella della vita.
Ora la pena di Abdollah è sospesa. Le autorità decideranno. Gli uomini e le donne che erano su quella piazza sono tornati alle loro case e ai loro giorni. Anche tutti loro, insieme al loro giovane e grande paese, devono decidere a quale vita vogliono ritornare.
(Iran, la madre della vittima salva la vita all’assassino, Il Mattino, 18 aprile 2014 )