La condanna del carcere senza condanna

Immagine

Nicola Cosentino è in carcere. Siccome ognuno vede nella detenzione di Nicola Cosentino una conferma del proprio giudizio morale, o politico, nessuno fa il passo successivo e si chiede che razza di carcerazione sia, quella riservata all’ex sottosegretario all’Economia del governo Berlusconi. Tocca allora ricordarlo: si tratta di custodia cautelare. La custodia cautelare, secondo le leggi italiane, va inflitta quando sussistano pericoli di fuga, o di reiterazione del reato, o di inquinamento delle prove. A giudicare della sussistenza di questi presupposti sono naturalmente magistrati, altri da quelli dell’accusa. E bisogna attenersi al loro giudizio, e ai casi definiti che l’ordinamento mette a disposizione per gli eventuali ricorsi della difesa. Tuttavia non si può non notare che troppo spesso le condizioni richieste per l’adozione di provvedimenti restrittivi sono profilate non in relazione a condotte specifiche, ma solo «in abstracto». Per esempio: per via delle possibilità a disposizione di un potente uomo politico. E ciò anche se i fatti che lo riguardano, e in relazione ai quali si attende il pronunciamento del tribunale, risalgono a un bel po’ di anni fa. L’uomo politico continua infatti ad avere molti amici, alza spessissimo il telefono, conosce un sacco di cose. Può molto, insomma. Non è questo il caso di Nicola Cosentino? Non ne sappiamo tutti un bel po’? E così siamo daccapo a ciò che ognuno «ne sa», e al giudizio che l’opinione pubblica rende in generale sulla classe politica, sulle aree di collusione col malaffare, sulla pervasività delle infiltrazioni camorristiche, o anche solo sulla piaga delle pratiche clientelari: un giudizio che si salda benissimo – bisogna convenirne – con la carcerazione preventiva del politico chiacchierato.

Solo che nessun ordinamento può trasformare le chiacchiere in un requisito processuale. Nemmeno nel più chiacchierato dei casi. Non si tratta di trasformare Cosentino in carcere in una bandiera, in un capro espiatorio, nella pietra dello scandalo. Tuttavia, non ci si può non chiedere, a distanza di più di vent’anni dall’inchiesta Mani Pulite, se non si debba una buona volta affrontare seriamente il tema della riforma della giustizia e, in particolare, dell’uso della custodia cautelare. Il Parlamento ne sta ridiscutendo, per fissarne meglio i limiti, e il ministro Orlando ci lavora dal giorno del suo insediamento, e allora vale la pena ribadire almeno questo: in un paese civile, non vi può essere il minimo sospetto che la custodia cautelare venga usata strumentalmente, invece che per le esigenze imposte dal codice. Così come non può succedere, come invece spesso succede, che la custodia cautelare si configuri come un anticipo di pena, comminato però in assenza del giudicato. Tanto più che troppo spesso non si arriva a sentenza, oppure fioccano i proscioglimenti, a distanza di anni dall’avvio di procedimenti giudiziari che, nel frattempo, determinano comunque pesanti conseguenze: non solo sulla vita delle singole persone, ma anche sulla vita civile, politica, sociale del paese. In questi anni, per limitarci a queste nostre sventurate terre, inchieste dal forte clamore mediatico hanno riguardato il Comune di Napoli, la Regione Campania, alcuni ordini professionali, la classe imprenditoriale, settori della polizia investigativa, i partiti politici di centrodestra e quelli di centrosinistra. Orbene, qual è il bilancio di tutta questa inesausta attività giudiziaria, in termini di sentenze definitive? Molto povero, forse addirittura fallimentare, anche se non si può dire lo stesso del loro profondo impatto politico e sociale.

Non è un risultato di cui rallegrarsi, ovviamente. Ma qualche dubbio e qualche interrogativo lo pone, e quei dubbi e quegli interrogativi non possono essere scansati solo perché l’opera degli inquirenti è sempre difficile, sempre meritoria, e sempre – va da sé – sostenuta dall’opinione corrente.

Certo, si può ben ritenere che le condizioni di impunità, in cui viene condotta l’attività politica così come quella economica, specie nel Sud, sono tali per cui bisogna a volte necessariamente essere spicci, sennò in carcere non ci finisce mai nessuno e i furbi e i potenti la fanno sempre franca. Ma bisogna sapere che questo ragionamento, condotto con coerenza, sacrifica tutte le garanzie di una civiltà giuridica liberale. Non dico che suoni falso, o che non colga una situazione endemica della società meridionale. Dico però che comporta quel sacrificio. Ed è un sacrificio pesante. Sopportato il quale, peraltro, ci troviamo sempre allo stesso punto: con le stesse emergenze, la stessa illegalità diffusa, e una continua supplenza per via giudiziaria dei normali processi politici e sociali a cui invece dovrebbe rimanere affidato il governo della cosa pubblica, la formazione e il ricambio della classe dirigente, la lotta politica e la competizione economica. E si sa, purtroppo, quale considerazione si ha dei supplenti: si fa finta di ascoltarli, poi tutto torna come prima.

(Il Mattino, 19 aprile 2014)

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...