È una «confessione»: per il ministro del Tesoro Gian Carlo Padoan – passato anni fa, ben prima di arrivare a via XX settembre, per le stanze di Italianieuropei, la Fondazione presieduta da Massimo D’Alema – vi è una qualche continuità fra il governo Renzi di oggi e quello guidato da D’Alema nel ‘98, dopo la caduta di Prodi. Di più: la continuità è nell’«approccio», cioè nel metodo, ma anche nel fine: «cambiare la sinistra».
Vi si può leggere un sottinteso: quello che non riuscì allora può riuscire ora. Il che però obbliga a svolgere più a fondo la comparazione proposta dal ministro, che è meno ardita di quanto possa sembrare a prima vista. L’intera vicenda politica degli ultimi vent’anni è segnata infatti, a sinistra, da un’esigenza di cambiamento, conseguenza diretta dell’89, del crollo del Muro di Berlino e della fine della prima Repubblica. Che ora si giudichi incompiuta, tradita o disattesa quell’esigenza, resta il fatto che la sinistra non ha potuto non parlare in questi anni il linguaggio di chi prova a inventarsi una nuova identità. Anche D’Alema si diede un simile proposito: fare dell’Italia un «Paese normale» e costruire una diversa fisionomia per la sinistra di governo. Lo scontro con Cofferati e la CGIL sulle politiche per il lavoro resta indubbiamente il punto più significativo di quella non piccola ambizione.
Ora Renzi sembra darsi un obiettivo analogo. Le condizioni sono molto diverse: sia in termini di ciclo economico, che dal punto di vista dei mutamenti del quadro politico. Ma resta che il segno prevalente che Renzi ritiene di dover imprimere alla sua azione è quello della discontinuità, anzi della rottura (ed effettivamente fino a qualche mese fa si trattava di «rottamazione»).
Perché però è opportuna la comparazione suggerita da Padoan? Nulla si ripete mai tale e quale, ovviamente, ma ricordare quale fu secondo lo stesso D’Alema l’errore principale che egli commise può forse valere se non proprio come monito per Renzi, come istruzione per il buon uso del governo. D’Alema mollò il partito: ecco l’errore. Renzi, per la verità, non ci pensa nemmeno: è molto difficile infatti che lasci nei prossimi mesi la carica di segretario. Sembra allora che sia ben lontano dal fallo commesso dal suo predecessore. Non è però questione di controllo del partito (casomai, nel caso di Renzi, dei gruppi parlamentari), bensì della necessità di riversare nel partito, o di promuovere anche grazie al partito quell’innovazione di cultura politica che richiede un enorme investimento in idee ed uomini, e la capacità di disegnare una nuova visione della società. Non basta insomma entrare nei socialisti europei, se poi non si disegna un profilo politico conseguente.
Ora Renzi ha davvero innanzi a sé una sfida del genere, con due o tre punti in più a suo favore rispetto agli anni Novanta di D’Alema. Il primo: il centrodestra è assai distante, al momento, dal rappresentare un’alternativa reale. D’Alema lo ha detto di recente, quasi a malincuore: il gran privilegio di Renzi è che si misura con il Berlusconi più debole che ci sia mai stato. Il secondo punto: Renzi ha un capitale politico quasi intatto, non usurato da esperienze pregresse. Deve ancora sferrare il suo «first strike», il suo primo colpo. Le Europee gli serviranno probabilmente a questo. Il terzo e decisivo punto: il terreno sul quale deve costruire (e su cui deve potergli servire un partito degno di questo nome) è relativamente più sgombro di quanto non lo fosse negli anni Novanta, quando la sinistra si muoveva ancora in stato di necessità e per una sorta di cattiva coscienza. L’89 era decisamente troppo vicino. Così sui due versanti principali sui quali la sinistra era chiamata alla prova: l’europeismo da una parte (anzi, l’atlantismo: l’ex-comunista D’Alema diede il suo ok all’intervento Nato in Serbia) e il rigore finanziario e di bilancio dall’altro (Maastricht e il varo della moneta unica) – bisognava essere allora persino più realisti del re. Ma l’esigenza di cambiare la sinistra non può certo confondersi con il fare da sinistra le cose che la destra non riesce a fare. E quei terreni restano ancora i terreni su cui il Pd deve misurarsi, in Europa e al governo del Paese. Orbene, Renzi ha il vantaggio di non nutrire nessuno dei complessi di inferiorità che la sinistra storica ha invece nutrito. Gioca una partita nuova, e può giocarla senza avere un braccio legato. Può far prevalere la sua idea di politica economica senza travestimenti tecnici. Fare le sue scelte senza accampare la scusa dei vincoli esterni, senza fare il «riformista per forza». Forse, di governi fondamentalmente riluttanti ne abbiamo avuti davvero abbastanza.
(Il Mattino, 26 aprile 2014, col titolo Renzi-D’Alema, la stessa sfida vent’anni dopo)