Archivi del mese: Maggio 2014

Dai Quaderni di Gramsci a House of Cards, così parla la politica

ImmagineGramsci, Togliatti, Berlinguer. E Kevin Spacey. Oppure: Sturzo, De Gasperi, Moro. E Kevin Spacey. Percorri una linea, percorri l’altra ma sempre a Spacey arrivi. Se a tirare la riga, beninteso, è Matteo Renzi. Che, nel presentare alla direzione del Pd i suoi propositi in materia di formazione politica, ha mancato di citare il «Manifesto del partito comunista» di Marx, oppure «Che fare?» del compagno Vladimir Il’ic detto Lenin, o i «Quaderni» di Antonio Gramsci, così come peraltro non ha voluto ricordare il fondamentale «Stato, parlamento e partiti» di Sturzo, o la lezione costituzionale di Dossetti, o il magistero dogmatico conciliare della «Lumen Gentium»; ma, congedata nel più rispettoso dei modi ogni possibile tradizione, è andato piuttosto a pescare là dove si racconta davvero la politica oggi, cioè nelle serie televisive americane. Kevin Spacey veste infatti i panni di un politico americano senza scrupoli, Frank J. Underwood, in «House of Cards», la strepitosa serie del momento, giunta in America alla seconda edizione (e distribuita in rete da Netfix).  Che non predica idealismo, ma insegna un realismo fin troppo cinico. Come dicevano i grandi classici della politica moderna: non la realtà quale deve essere, ma qual è effettualmente.

Nel far ciò, Renzi ha ragione da vendere: è inimmaginabile che i giovani democratici selezionati dal partito, messi davanti ai sordidi intrighi e alle lotte di potere che si svolgono all’ombra della Casa Bianca, sbottino tutti insieme con un liberatorio: «È una cagata pazzesca». Tutt’al contrario: saranno sicuramente avvinti e non vorranno affatto esser liberati. Alla scrittura di questi prodotti televisivi si dedicano infatti i migliori sceneggiatori del pianeta, e sicuramente non c’è oggi miglior linguaggio in circolazione in cui la politica venga raccontata (altra cosa sarebbe pensarla, ma un simile proposito suona vecchio anche solo a formularlo).

È altrettanto inimmaginabile che dopo la trasmissione di un episodio – trasmissione? In realtà, suona vecchio pure questo termine – segua qualcosa come il famoso (e fumoso) dibattito da cineforum, quello che appassionava il professorino Stefano Satta Flores in «C’eravamo tanto amati». C’eravamo, per l’appunto. Oggidì la politica la si fa in tutt’altro modo, e Renzi sa tenerne conto. Sa che il lessico della politica sta facendo rapidamente la fine del latino ecclesiastico: roba per i chierici, mentre già la gente parla in tutt’altro modo. Senza complessi di inferiorità, senza ipocriti sussieghi, dopo aver moltiplicato i tweet sul web, e avere introdotto le slides nelle conferenze stampa da Palazzo Chigi, Renzi si affida ora ai telefilm di successo per la sua scuola di formazione. Rottamando in un sol colpo l’Istituto Sturzo e le Frattocchie. E allineandosi a Obama, che di «House of Cards» è fedelissimo spettatore.

Fedeltà: ecco la parola. Non c’è politica, perché non c’è legame sociale, senza fedeltà. Se l’ideologia non riesce più ad ottenerla, se anche la trama della rappresentazione religiosa appare strappata in più di un punto, allora tocca alle serie televisive ricucire i fili del racconto quotidiano della realtà. Dove trovate infatti un altro prodotto, un altro modello di consumo per il quale usare l’espressione: «non se ne perde neanche una!»? O si tratta della partita, o si tratta della puntata. Basta peraltro andare in libreria per scoprire che anche i romanzi, specie quelli destinati ai più giovani, si stanno sempre più serializzando. La serie è cioè l’unica forma capace oggi di catturare durevolmente l’attenzione, l’unica capace di fidelizzare, di accattivare; l’unica, in definitiva, capace di ridurci in cattività. Cioè di addomesticare. Che significa: costruire consuetudini di comportamento e di consumo, dove altrimenti regnerebbero solo la proliferazione delle differenze, la polverizzazione delle esperienze.

Non c’è nulla di nuovo, antropologicamente parlando. Cambiano, quelle sì, le forme in cui ciò avviene. I primi che hanno inventato le serie sono stati d’altronde quei maghi e antichi sacerdoti che hanno introdotto la scansione del calendario grazie al giorno di riposo, che torna ogni settimana. Senza settimana, insomma, niente serie. Così la storia si ripete, per fortuna: con le sue liturgie ed i suoi riti. E cos’altro ha oggi carattere liturgico se non la serie (o il campionato)?

Che poi a suggerire simili riflessioni sia il paladino della nuova politica è solo un apparente paradosso. Non c’è novità, nelle cose umane, senza rinnovamento. E rinnovamento (rinovellamento) vuol dire un’altra volta ritorno. Anzi rivoluzione. Ma questo, forse, anche col 40% è un poco troppo.

(Il Mattino, 31 maggio 2014)

Le parole sbagliate non portano in cella

ImmagineDi qui al 5 giugno tocca stare con Erri De Luca. È una settimana, si può fare. Tocca stare con lui perché per quel giorno è fissata l’udienza preliminare nel procedimento in cui lo scrittore napoletano è imputato per istigazione a delinquere. La sua incitazione al sabotaggio del progetto Alta Velocità in Val di Susa non è infatti passata inosservata: ha anzi innescato un processo penale, e il 5 giugno si va in udienza. D’altronde, il contesto ambientale in cui il cantiere va avanti è ancora surriscaldato abbastanza perché il delicato invito di De Luca a invadere, occupare o danneggiare scientemente l’opera – questo è il sabotaggio, secondo il codice attualmente in vigore – ricevesse l’attenzione della magistratura. È lecito tuttavia dubitare che De Luca si augurasse il contrario, che cioè sperasse in qualche superficiale alzata di spalle, o che non lo si prendesse seriamente, magari con la scusa che quelle dello scrittore sono ardite metafore, o forse solo parole in libertà, dette con leggerezza e prive di peso. Parole, insomma, da non prendersi alla lettera, frutto magari dell’estro poetico e  letterario di un artista, e non attentamente ponderate. Forse a processo sarà proprio questa la linea difensiva di De Luca. Ma se invece egli tiene alla sua arte, oltre che alla coerenza delle sue parole, deve essere ben contento che qualche magistrato, avendolo sentito spronare i più esagitatori oppositori della Tav perché passassero alle vie di fatto, abbia ritenuto di processarlo.

Comunque sia, i suoi amici non sono affatto contenti (e noi con loro). È orribile, essi dicono, che uno scrittore sia in stato d’accusa per un reato d’opinione. Per il giorno dell’udienza, sono così previste pubbliche letture delle opere di De Luca: a Roma, a Napoli, a Bari e in molte altre città. L’argomento pare essere il seguente: se le parole di De Luca sono pericolose, allora ci autodenunciamo, prendendo le parole dai suoi libri e leggendole a gran voce. È un buon argomento: i libri non si bruciano, gli scrittori non si mandano in carcere. Questo, almeno, in un orizzonte giuridico liberale di cui De Luca probabilmente manca di riconoscere o di rispettare qualche elemento basilare, visto che consiglia azioni di sabotaggio per fermare l’Alta Velocità. In quell’orizzonte, è effettivamente possibile che uno scrittore mostri a parole di fregarsene altamente della legalità democratica. Ma in tal caso la cosa migliore che ai pubblici poteri conviene fare è di fregarsene altamente delle intemperanze verbali dello scrittore. Anche solo per evitare che assuma pose da martire della libertà. Quelle che, peraltro, ha già cominciato eroicamente ad assumere, annunciando che in caso di condanna non ricorrerà in appello. Probabilmente De Luca, gran cultore di cose bibliche, immagina di avere nello Stato il suo personalissimo gigante Golia da abbattere (cioè da sabotare) fiondandogli contro le sue parole dure come pietre. Lo faccia pure: ognuno ha le sue ossessioni. E fino al 5 giugno ci asterremo finanche dal giudicarle. Ma appena si chiuderà con un nulla di fatto la vicenda processuale, come ci auguriamo vivamente, torneremo a pensare che incitare al sabotaggio è un pessimo modo di usare la libertà di opinione che in uno Stato liberale (e solo in uno Stato liberale)  è e deve essere garantita a tutti.

(Il Mattino, 30 maggio 2014)

Nel nome del padrone

ImmagineLa parabola del Movimento Cinque Stelle e quella, ancora più malinconica, di Forza Italia, si presta, prima ancora che all’analisi politica, a quella metafisico-linguistica (addirittura!). Se c’è infatti una cosa che non è possibile sostituire è il nome proprio. Ci chiamiamo così, con nome e cognome, dal primo all’ultimo dei nostri giorni, e anche oltre, perché tale resterà il nostro nome – insostituibile – perfino sulla lapide che di noi tramanderà il ricordo «per saecula saeculorum» (almeno me lo auguro).

Un simile miracolo sembra che riesca al nome, e al nome soltanto. E da sempre filosofi e poeti, teologi e letterati, stregati dal nome proprio, sognano di poter indicare le cose, tutte le cose, con una simile, univoca determinatezza. E però: altro che paradiso del linguaggio! Se tutti i nomi fossero propri, individuali, esclusivi, se non vi fosse più nulla in comune fra di essi, il linguaggio si frantumerebbe in tanti pezzi incomunicabili fra loro e, molto semplicemente non sarebbe più un linguaggio, una «comunità» di parole e discorsi (se avete tempo, fate la prova, provate a metter su una frase formata solo da nomi propri).

Ora, questo piccolo ma istruttivo insegnamento può essere utile per capire cosa stia succedendo dalle parti del centro destra e del Movimento Cinque Stelle, cioè in quelle due aree politiche timbrate inflessibilmente, indeclinabilmente dal nome proprio dei loro fondatori. Si dice Movimento Cinque Stelle, infatti, e si legge Grillo. Grillo Giuseppe detto Beppe. Suo il nome, suo il blog, suo il dominio. Così come d’altro canto si dice Forza Italia e si legge Berlusconi. Silvio Berlusconi. Suo il partito, sue le risorse, sue le televisioni. E non c’è verso. Non c’è risultato elettorale che tenga. L’individuazione è tanto radicale, l’identificazione è tanto stretta e indissolubile, quanto quella che appiccica il nome proprio alla cosa: come non puoi cambiare quello, così non riesce a Forza Italia e al Movimento Cinque Stelle di cambiare i loro leader.

Le due situazioni non sono però fra loro identiche. Grillo, è vero, aveva detto che in caso di sconfitta sarebbe andato a casa, e invece è volato a Bruxelles, ma la vita del Movimento è ancora così breve, che si può ben immaginare una prova d’appello. E però le dinamiche del movimento sono tali, che non si può non temere che spazio per un’altra figura che prenda il posto di Grillo non ce n’è, nonostante la retorica del movimento in cui ciascuno conta uno. Ho detto «nonostante» ed ho sbagliato: bisogna dire «a causa» di quella retorica, che è solo l’altra faccia della metafisica idiosincratica del Nome (maiuscolo: quello di Grillo). Perché se ciascuno conta uno, nessuno può contare per gli altri, rappresentare gli altri, fare affidamento sugli altri e condividere con altri, comporsi insieme agli altri; tutti rimangono inchiodati all’atomo indivisibile del loro nome e non mettono mai nulla in comune.

Ben altra storia ha Forza Italia. Una storia di vent’anni, in cui l’identificazione con il leader indiscusso è stata presso che totale: chiunque altri abbia cercato di «farsi un nome» è stato disperso. Ha dovuto cioè, prima o poi, togliere il disturbo: da Fini a Tremonti ad Alfano. Nessuna meraviglia se Berlusconi non riesce ad immaginare una prosecuzione dell’attività politica del partito se non attorno al suo nome, o almeno a quello di sua figlia.

Proprio il successo di Matteo Renzi dimostra tutti i limiti di questa concezione della politica. Che confonde il leaderismo con una sua interpretazione proprietaria, e arrischia l’ossimoro del partito personale per nascondere il fatto che di partito ce n’è rimasto ben poco, mentre della persona permane il sigillo incancellabile: il nome, ancora una volta. Ora, non v’è dubbio che con Renzi anche il partito democratico abbia trovato un leader. Ma per l’appunto l’ha trovato: non si è cioè annullato come partito per risorgere nella figura del suo leader. Lo ha anzi prima cercato, poi contrastato, infine consacrato. Renzi ha perduto, ed è rimasto nel partito; poi ha vinto, e chi è stato sconfitto è pure lui rimasto nel partito. Nulla del genere è avvenuto nel centrodestra o tra i grillini, dove non si riesce nemmeno a capire che cosa possa mai significare che Berlusconi perda, o che Grillo perda. Se però non c’è una sconfitta possibile, non c’è nemmeno un futuro possibile oltre i loro nomi. O meglio: l’unico futuro possibile, l’unica evoluzione finora intravista è nel segno della divisione. Nessuna meraviglia: il nome proprio porta con sé non partecipazione ma divisione, perché non ce la fa a risolversi in un nome comune, e in una storia collettiva.

Questo rende difficile anche una lettura del voto italiano in una chiave strettamente europea. Dove, in genere, si sono imposte forze populiste, euroscettiche, nazionaliste, e i partiti tradizionali, appartenenti alla due principali famiglie politiche – quella socialista e quella popolare – hanno raccolto meno consensi che in passato. Il successo al di là di ogni aspettativa di Renzi fuoriesce vistosamente da questo quadro, ma fuoriescono anche i risultati raccolti da Berlusconi e Grillo: l’uno, infatti, fatica a stare dentro il partito popolare europeo; l’altro stenta a entrare in coalizione con le forze politiche anti-europee. L’uno e l’altro sembrano cioè destinati a marcare una specificità, che non ha altra spiegazione che il loro nome e cognome. Ho detto «spiegazione» e ho sbagliato di nuovo: dovevo dire «maledizione». Cos’altro infatti si maledice se non il nome proprio? E come in ogni maledizione che si rispetti, sono proprio le ragioni per cui a quelle formazioni ha arriso in passato il successo, che impediscono oggi ad esse di avere anche un futuro.

(L’Unità, 29 maggio 2014)

Grillo: battuti da un Paese di pensionati

ImmagineGrillo va avanti. Aveva detto che in caso di sconfitta avrebbe lasciato e invece va avanti. E forse non ha tutti i torti. Il quadro che il voto di domenica ci restituisce non permette infatti di considerare chiusa la parentesi del grillismo, e si sbaglierebbe se si considerasse ormai avviata la parabola discendente del movimento e la stabilizzazione del sistema politico e istituzionale. Forse, dal confronto con il voto delle politiche di febbraio, si può trarre non solo l’ovvia conclusione che i democratici hanno di che esultare mentre gli altri si leccano le ferite (con l’eccezione della Lega e, parzialmente, della lista Tsipras), ma anche una constatazione un po’ meno ovvia. I giochi sono ancora aperti, infatti, e per quanto riguarda la rabbia e il disagio sociale che il grillismo intercetta e canalizza, sarebbe avventato dire che è ormai rientrata, o in via di assorbimento. Basta dare una scorsa ai commenti sul blog del movimento, per dubitarne fortemente. Grillo avrà peraltro compreso che andare «oltre Hitler» non fa prendere più voti, ma anzi allontana una parte dell’elettorato certamente insoddisfatto dell’offerta politica, a cui però, altrettanto certamente, non può bastare neppure il carcere per tutti i politici, lo sputo mediatico e il liberatorio rito del vaffa quotidiano. Tuttavia un’altra, consistente parte di elettorato, esasperata dalla crisi e in cerca di risposte concrete, c’è tuttora, e rischia anzi di incancrenirsi per il senso di frustrazione che sperimenta. In giro per il continente, d’altro canto, il vessillo europeo ha radunato molto meno entusiasmo per le idealità che esprime, che malcontento per i sacrifici che impone. La constatazione un po’ meno ovvia che lascia aperti i giochi, dunque, è la seguente: nessuno dei partiti maggiori ha ottenuto un risultato in linea con la sua effettiva forza e rappresentatività nella società. Senza nulla togliere a Renzi, ma anzi riconoscendogli gli straordinari meriti personali, il Pd non vale il quaranta per cento, così come d’altra parte il centrodestra non vale, in Italia, la deludente percentuale raccolta da Forza Italia. Forse neppure se sommiamo al suo risultato qualche altro spezzone del fu centro-destra. Il dato di domenica tutto appare, insomma, meno che consolidato. Il che dà ancora spazio a ulteriori, futuri spostamenti di pesi elettorali.

Ma per una diagnosi del grillismo occorre fare anche una buona anamnesi. E ricordare almeno due ingredienti fondamentali del fenomeno. Il primo può essere ben colto richiamando l’inizio di tutto.

Siamo  nel 1986. È sabato sera. Il comico genovese Beppe Grillo è ospite di Pippo Baudo, nello show più seguito della televisione italiana. Grillo chiude il suo intervento con una battuta feroce: se qui sono tutti socialisti, scandisce piano Grillo nei panni di Claudio Martelli in visita nella Repubblica popolare cinese, «a chi rubano?». La battuta gli costò il licenziamento. Pochi rammentano però la reazione del pubblico. Nessuno rise. E non perché la battuta non fosse arrivata, ma perché non si sapeva bene se si potesse ridere. Perciò partì un applauso piuttosto timido, quasi educato. E Grillo disse, quasi fra sé e sé: «Terribile». Quei secondi fra la battuta e l’applauso sono ormai scomparsi: sono trascorsi invece quasi trent’anni, e la convinzione generale degli italiani, acuita dal malessere sociale, continua ad essere che i politici tutti, socialisti o no, rubano. Grillo può gridarlo dal palco, nessuno può più licenziarlo e il pubblico può applaudire senza guardare l’assistente di studio per sapere se sia il caso. C’è infine una differenza decisiva, da allora: la funzione che i partiti politici italiani hanno assolto nel corso della prima Repubblica è venuta meno. Costruirne una nuova è la sfida che attende ancora il sistema politico italiano, e non può certo bastare la battuta d’arresto del grillismo per considerarla assolta.

Secondo elemento. Anche qui conviene mettere le cose in prospettiva. Siamo nel 2005, in febbraio. Da anni Grillo porta in girò i suoi spettacoli. In quell’anno, Grillo mette però sul suo blog i nomi dei politici inquisiti che siedono in Parlamento. Il blog diviene di colpo uno dei più cliccati al mondo. La rabbia e lo scontento sono ancora gli stessi, ma ora c’è anche un nuovo canale attraverso cui veicolarli. C’è il web, c’è il sito, c’è una rapidità di comunicazione e una intensità di partecipazione prima sconosciute; c’è un fenomeno di disintermediazione che spiazza corpi intermedi e partiti tradizionali, premia le leadership personali, ed amplifica gli sfoghi individuali. Grillo tiene ancora tra le sue mani pure questa carta.

Veniamo infine ad oggi. I Cinque Stelle hanno perso, e forte è la tentazione, per loro, di dire che l’Italia, «paese di pensionati», non li merita. Con qualche ironia e autoironia, Grillo non sembra però avere imboccato quella strada. In ogni caso, i due focolai accesi negli anni passati, è bene rammentarlo, non sono ancora spenti.

(Il Mattino, 27 maggio 2014)

La Cancelliera vince a Berlino, perde in Europa

ImmagineÈ difficile dare spazio a molte interpretazioni del voto europeo: in Germania la Merkel vince, e i socialdemocratici vengono premiati per la scelta di fare il governo insieme con la CDU della Cancelliera. In Francia, invece, i socialisti del Presidente Hollande subiscono un vero e proprio tracollo e toccano un minimo storico: terzo partito dietro la travolgente avanzata del voto antieuropeista del Front National di Marine Le Pen, dietro anche i gollisti dell’Ump. Una faglia si è dunque formata, e rischia pesantemente di incrinare la costruzione europea. Da una parte del Reno l’establishment crolla, dall’altra mantiene le posizioni. Ma la novità viene anche dall’Italia. Dove Grillo tiene cala, ma e Renzi stravince la sua personale scommessa: il partito democratico non sarebbe in testa, e non sarebbe così clamorosamente avanti, se non avesse puntato tutto sul sindaco fiorentino. Il voto non prende dunque lo stesso valore che ha in Francia: lì si è aperta la faglia che rischia di squassare il continente; qui, invece, la nuova leadership di Renzi ha evidentemente riconquistato al Paese la fiducia in una nuova prospettiva riformatrice.

In Europa però non v’è dubbio: prevale lo scetticismo, il risentimento nei confronti di una cornice di regole e vincoli europei che sembrano risentire troppo del peso economico e finanziario della Germania, e poco invece degli interessi di tutti gli altri paesi che non gravitano intorno alla cancelleria di Berlino. Non ci sono infatti solo la Francia sferzata da Marine Le Pen e l’Italia scossa da Beppe Grillo (a cui vanno sommati i voti no-euro della Lega); c’è anche Tsipras in Grecia, che vince nettamente su una linea fortemente critica nei confronti degli indirizzi di Bruxelles. C’è la crescita delle spinte isolazioniste al di là delle Manica. C’è la sberla presa dai partiti maggiori in Spagna, di governo e di opposizione. E ci sono anche i segnali più inquietanti di paesi come la Danimarca e l’Austria, dove prevalgono nettamente forze di estrema destra, quando non apertamente neo-naziste. Profili così consistenti che non si prestano più ad essere descritti come quelli marginali di frange xenofobe e anti-sistema.

La Merkel vince insomma in Germania, ma perde nel resto d’Europa. La Francia stanca non tiene il passo, e l’Italia si candida a guidare il processo di ricostruzione del concerto europeo. Anche in termini numerici, nel partito socialista e democratico europeo saranno gli italiani a costituire il peso maggiore. Se l’euro non sarà la continuazione del marco tedesco con altri mezzi (o sotto altre spoglie), sarà ora precipua responsabilità italiana. Finora, l’oculatezza economica si è sposata con la miopia politica. La forza economica dei tedeschi, egemonica nel continente, non è stata guidata da una strategia politica all’altezza di questo tempo di crisi. Nel semestre italiano bisognerà trovarla.

Si potrà forse aprire un nuovo tempo, dopo la fase segnata storicamente dal nuovo peso acquisito dalla Germania con l’unificazione. Nulla di male, perché anzi una ferita dolorosa si è rimarginata dopo l’89. Ma gli equilibri politici complessivi ne hanno risentito. E dopo il voto di ieri perde ancora colpi il motore principale dell’integrazione europea, la cooperazione franco-tedesca.

Riprendere il filo del progetto europeo non è allora difficile: è indispensabile. In quattro secoli, francesi e tedeschi hanno combattuto gli uni contro gli altri più di venti guerre. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, la costruzione prima della Comunità Economica, poi dell’Unione Europea ha messo fine a secoli di lotte e divisioni. L’Europa unita, il concerto di nazioni che oggi compie il miracolo di votare insieme propri rappresentanti nel Parlamento di Strasburgo, ha dietro di sé non un cammino pacifico, ma una storia sanguinosa: lo smembramento dei possedimenti spagnoli, la fine del sogno imperiale austro-ungarico, il collasso dell’impero ottomano, la spartizione della Polonia, la sconfitta del nazifascismo, i processi di decolonizzazione, il crollo del comunismo bolscevico. Noi europei siamo gli eredi di questa storia.

Il sogno europeo è troppo importante perché possa essere cancellato. Non è accaduto oggi, ma è accaduto questa settimana: l’attacco antisemita a Bruxelles. Se il nazionalismo si agglutina, se il populismo si gonfia, se i confini si formano di nuovo, la comunità cosmopolita per eccellenza, quella ebraica, diviene uno dei bersagli preferiti. Si comincia con le banche, la finanza, la politica corrotta. Ma il quarto, ricordiamolo, sono sempre gli ebrei.

(Il Mattino, 26 maggio 2014)

Parole e parolacce il catalogo è questo

ImmagineL’unico ordine al quale è possibile ricondurre la politica italiana è quello alfabetico. Siccome le grandi ideologie sono morte, le tradizioni politiche scomparse, gli scenari geo-politici assenti, in questa squinternata campagna per l’elezione del Parlamento europeo, meglio, molto meglio procedere secondo l’aureo principio con cui si compilano elenchi, albi, registri. Cominciamo dunque dalla A.

Astensione. È data in aumento. Di molto. L’Istituto Cattaneo ha ipotizzato cifre mai raggiunte finora nel nostro Paese. La base di legittimazione delle istituzioni europee sarà probabilmente molto più ristretta che nel passato. Certo, ci sono quelli che dicono che nei Paesi democraticamente maturi una fascia larga di astensionismo è del tutto fisiologica. Ma il voto di oggi rischia di esprimere ben altro: disaffezione e sfiducia, o forse addirittura una forma di defezione dalla politica come l’abbiamo finora sconosciuta.

Berlinguer. Ormai lo tirano in ballo tutti. E non solo per via del trentennale della morte. C’entra sicuramente la nostalgia, ma anche una buona dose di spregiudicatezza. Il Berlinguer che finisce nei comizi di Grillo, come in qualche disinvolta pagina di giornale, non ha quasi più nulla del dirigente comunista: è soltanto una brava persona. La questione morale suggella così definitivamente l’incapacità di porre questione politiche. E persino un Casaleggio può intestarsi un pezzo di quella edulcorata eredità: non era meglio quando con Berlusconi il comunismo funzionava almeno da spauracchio?

Capilista. Renzi l’ha pensata giusta: tutte donne capilista nelle cinque circoscrizioni europee. Se e quando la polvere della campagna elettorale si poserà, bisognerà riconoscere che è stato un passo deciso verso il pieno riconoscimento della presenza femminile nella società e nella politica italiana. In attesa che venga il tempo in cui non farà più notizia.

Dentiere. Le promesse di Berlusconi, dal nuovo miracolo italiano degli esordi fino alla malinconica dentiera del 2014. Dal milione di posti di lavoro soprattutto per i giovani alle protesi dentarie soprattutto per i vecchi. Sono passati vent’anni dalla famosa discesa in campo del ’94, e si vede. Dopodiché sotto la lettera «D» ci andava benissimo anche il cagnolino Dudù, balzato agli onori delle cronache anche per prendere il voto degli animalisti. Ma la voce in questo elenco non sarebbe riuscita meno patetica.

Expo. E qui sono dolori. Tanto più che sarebbe quasi doveroso proseguire con la «F» di Frigerio e la «G» di Greganti. Difficile dire quanto pesino sul voto simili vicende, che infangano la politica e producono l’impressione che nulla cambi, che nulla serva, che in fondo sono sempre gli stessi e si fanno gli affari loro. Scegliendo Cantone, Renzi ha reagito subito, e bene, e un discrimine è stato tracciato: Grillo butterebbe tutto a mare, il governo prova faticosamente a distinguere, a separare il grano dal loglio. Ma non c’è dubbio che sempre più la credibilità di un’intera classe dirigente si gioca su vicende come questa.

Firenze. Con Renzi il Pd è tornato finalmente in piazza. Non c’è stata solo la piazza San Giovanni di Grillo, come lo scorso anno, e la mossa abbastanza suicida di lasciare campo libero ai Cinque Stelle; ci sono stati i tanti comizi e piazze piene in giro per il Paese: a Napoli, nell’Emilia, in Piemonte, per finire a piazza della Signoria, nella città del premier. Ed è stato finalmente uno spettacolo bello, colorato, emozionante.

Genny ‘a Carogna. Grillo le cavalca tutte. Ogni occasione è buona per gettare discredito e lucrare sulle difficoltà del Paese. Così quando si è trattato di spiegare che lo Stato ormai non c’è più, Grillo ha usato l’immagina della trattativa svoltasi sulla pista dell’Olimpico fra le forze dell’ordine e il capo ultrà. Quando poi si è trattato di lisciare il pelo ai napoletani feriti nell’onore non ci ha pensato due volte e Genny è passato rapidamente dall’infamia alla lode.

Hitler. Siamo di sicuro l’unico paese al mondo dove un leader politico può mettere insieme nei suoi discorsi un capo comunista come Berlinguer e Adolf Hitler. E dichiararsi peggiore di quest’ultimo, sia pure per paradosso, per spirito di provocazione, per una boutade o per qualunque altro motivo. Il sospetto che anche il discorso pubblico debba correre dentro qualche argine e non tracimare dappertutto non sembra più nutrirlo nessuno. Chissà cosa scriverà il prossimo che proverà a stendere un discorso sopra i costumi degli italiani.

Insulti. Anzi lo sappiamo: scriverà che di costumatezza politica non ce n’é più, e che dal Vaffa Day in poi persino il Senatùr  può essere considerato un campione di bon ton. Per non scomparire del tutto dalla scena, Berlusconi ci ha messo del suo: Grillo è un assassino, ha detto, e ha aggiunto: si faceva pagare in nero. E mai come questa volta ci si è ricordati del bue che dice cornuto l’asino (vedi alla voce «Sacra Famiglia»).

Lisbona. Prendiamoci una pausa, in questo lungo elenco di piccoli orrori. Queste sono elezioni europee. E le elezioni europee sono regolate dal Trattato di Lisbona. Ormai tutti se lo dimenticano, a caccia del significato politico del voto e delle ripercussioni sulla scena politica nazionale. Salvo poi ricordarsene quando ci si scopre lontani dall’Europa, e in balìa di decisioni prese altrove.

Merkel. Prese per esempio da Angela Merkel, al suo terzo mandato di Cancelliera. Il suo volto è sempre più il volto dell’Europa. Lo sanno i greci, lo sanno gli spagnoli, lo sanno anche italiani e francesi (a proposito: Hollande? Non pervenuto). Lo sanno per lo più a loro spese, non riuscendo ad imporre cambiamenti nelle politiche di austerity fortissimamente volute dalla Merkel. Nella campagna elettorale quasi tutti han detto che ci vuole un’altra Europa, ma come si faccia a convincere chi comanda a Berlino nessuno lo sa.

No-euro Tour. Per questo la Lega ha sposato senz’altro la bandiera della lotta contro la moneta unica, risollevandosi dal baratro in cui era sprofondata. Con sparate di dubbio gusto, come la piazzata sotto l’abitazione di Prodi, a Bologna, Prodi «co-responsabile di morti e feriti». Intanto, i sentimenti antieuropei crescono e si coalizzano contro la moneta. Grillo non la dice chiara nemmeno su questa, mentre il Pd e tutta la maggioranza resta  convintamente a difesa dell’euro. Quanto a Berlusconi, ha chiesto scusa per le offese alla Merkel («unfuckable ass», in traduzione inglese) ma non si è fatto mancare una gaffe tremenda, affermando che per i tedeschi i lager non sarebbero mai esistiti. Prendere le misure al Cavaliere in campagna elettorale è una faccenda complicata assai.

Ottanta. Come i giorni dell’ancor breve durata del governo Renzi, e gli euro messi nelle buste paga di maggio. Propaganda o no, Renzi ha cercato di dare una prova tangibile dell’impegno finora profuso, e l’ha chiamato giustizia sociale. Un primo segnale, un’inversione di tendenza. Per tutti gli altri si è invece tratta solo di una mancia, le coperture non ci sono, le tasse aumentano, è un provvedimento una tantum. Vedremo.

Paola Bacchiddu. La foto postata dalla responsabile comunicazione della lista Tsipras, con il lato B in evidenza, ha fatto parlare di sé. Di sé più che della lista, ma tant’è: il duello Renzi-Grillo ha finito con l’oscurare ogni altra proposta politica, e in campagna elettorale la provocazione ci può stare. Resta però il dato di una lista costruita intorno a una serie di testimonial prestigiosi, che non riesce a farsi largo nel consenso popolare. Se dovesse andar male, c’è da temere che ne verrà fuori l’ennesimo dibattito sul ruolo degli intellettuali in politica, e su una tendenza all’ottimato democratico che suona come una contraddizione non piccola.

Quorum. È il problema di tutti gli altri: della lista Tsipras, ma anche di Scelta Europea del fu Monti, della nuova Lega antieuropeista di Salvini, della rinata destra di Fratelli d’Italia, a guida Meloni, e del Nuovo Centrodestra di Alfano. Quest’ultimo risultato può essere decisivo: non dovesse arrivare al 4%, un contraccolpo sul governo ci potrebbe essere. In ogni caso, sarà ancor più evidente che a destra il dopo Berlusconi fatica maledettamente a nascere.

Riforme. Renzi ha detto: ricominciamo lunedì, riprendiamo il filo delle riforme istituzionali, rimettiamo in cammino la riforma del lavoro, e insomma riapriamo i dossier accantonati nel vivo della campagna elettorale. È il terreno più difficile per il governo. Renzi ci ha messo la faccia, ma è difficile fare previsioni.

Sacra Famiglia. Non quella di Betlemme, ma quella di Cesano Boscone, dove ha sede la Fondazione che ospita i venerdì di Silvio Berlusconi. Detta così, somiglia ai mercoledì di Pericoli e Pirella, o al lunedì del Processo di Biscardi, e invece si tratta della condanna definitiva inflitta per frode fiscale all’ex-Cavaliere. E un giorno si potrà raccontare ai nipotini di quella volta in cui la campagna elettorale la fee, seriamente, uno che passava i venerdì ai servizi sociali.

Tribunale del popolo. Ovvero: i processi popolari di Beppe Grillo. Su un refrain che un tempo intonava un altro comico, della compagna di Arbore. Quello che ripeteva sempre: «in galera!». Poi Grillo dice che è cattivo, ma senza violenza, che si tratta solo di uno sputo mediatico, che la sua è una rabbia sana, e va bene. Ma l’immaginario che evoca di sicuro sano non è.

Unione Europea. Seconda e ultima pausa di riflessione in questo elenco. Siamo cittadini europei, siamo membri dell’Unione, e votiamo per questo. Per la prima volta, anche se il processo di revisione costituzionale si è interrotto, un’innovazione profonda è in corso. Eleggiamo i nostri parlamentari, e indichiamo insieme il nostro candidato alla presidenza della Commissione (per i socialisti e democratici europei, il tedesco Martin Schultz). Che se poi si riuscisse a ripartire con il metodo comunitario e a ridurre il ricorso al metodo intergovernativo dell’accordo fra capi di Stato e primi ministri, l’Europa prenderebbe senz’altro un aspetto più democratico e meno arcigno.

Vespa. Eh, sì, un vincitore c’è già, ed è Bruno Vespa. La sua intervista a Grillo ha fatto il pieno, e lui è ancora lì che si frega le mani. Il web sta cambiando la politica italiana, ma per il momento la televisione può risultare ancora decisiva. Anche Renzi e Berlusconi hanno peraltro cercato di occupare lo schermo il più possibile. Anche Floris, Mentana e tutti gli altri si sono presi i loro spazi, ma il più formidabile è stato il colpo messo a segno da Vespa.

Zero. Eh, no. Questa brutta campagna elettorale non ha avuto affatto toni soporiferi. Può darsi sia un merito. Il fatto è che per tenerci svegli si usa un clima sempre più sovraeccitato. Lo diceva già Benjamin all’inizio del secolo scorso: l’esperienza si impoverisce, e perché qualcosa arrivi ci vogliono sempre nuovi choc. Sulle prime magari funziona; alla lunga, però, stanca. In ogni caso, la notizia è che, finalmente, è finita.

(LUnità, 25 maggio 2014)

Il balcone di Vespa

Immagine«Io non sarei venuto qui a farmi intervistare» dice Beppe Grillo nel corso dell’intervista di Bruno Vespa, e il paradosso sta tutto qua. Intervistare, sottintende Grillo, da uno come te, da uno che non mi dispiacerebbe se finisse in galera, e infatti nel plastico del luogo di detenzione che Grillo vuole ma non può mostrare in studio, insieme ai politici c’è pure Bruno Vespa, che nel frattempo, però, gli sorride malizioso di fronte. Intervistare, per giunta, in uno studio televisivo, nel più salottiero degli studi televisivi, dove a volerci andare un grillino verrebbe espulso. E invece Grillo c’è andato, si è accomodato e si è fatto, per l’appunto, intervistare.

A voler misurare le uscite di Grillo col metro della coerenza non si va però molto lontano. O, per meglio dire: la coerenza va essa stessa misurata rispetto al fine tutto politico che Grillo indica senza alcun infingimento. Conquistare il voto dei moderati, di quelli che decidono in base a quel che passa la tv, e trasformare la contesa elettorale in un duello a due fra lui e Renzi. Che se la cosa gli riesce, il voto di centrodestra è bello che fagocitato. Per questo scandisce con forza, a più riprese: il voto è politico. Se vince il Movimento Cinque Stelle Napolitano va a casa, Renzi va a casa, tutti vanno a casa. L’Italia cambia, l’Europa cambia, il mondo cambia. Anzi: è già cambiato, Grillo se ne è accorto, tutti gli altri no, tutti gli altri sono morti, i politici sono morti, la tv è morta. Però lui ci va lo stesso. E siamo daccapo.

Non c’è che dire: il contenitore gli va stretto e lui vorrebbe poterlo cambiare. Perciò non comincia da seduto, ma si aggira in piedi nello studio: non vuole che si pensi che quella è casa sua. Perciò la grammatica della trasmissione deve essere, per quanto possibile, trasgredita. Niente suoni di campanello, niente ospiti e giornalisti tra i piedi. Niente Vespa in piedi e lui seduto, sprofondato in poltrona, ma l’uno di fronte all’altro. Per un tempo. Dopodiché Grillo si volta sempre più verso il pubblico, trasforma il bracciolo in un piccolo balcone dal quale sporgersi verso le case degli italiani, e cerca di riprodurre il format che gli va più a genio: il comizio, e niente domande. Vespa prova ancora a fargliele, ma Grillo cerca il più possibile di sottrarsi: a volte nel merito, altre volte fin nel metodo. C’è un famoso passo di Platone, in cui Socrate perde la pazienza col sofista di turno, che non la smette di tenere lunghi e torrenziali discorsi. O accetti le domande e dai risposte brevi, s’inalbera Socrate, o per me può anche finire qua. Il sofista accetta (e mal gliene incoglie), Grillo invece no. Nelle domande inciampa, a volte chiede di ripetere per capire meglio, e per guadagnare tempo. D’altronde, i tecnicismi, le distinzioni, le analisi pacate non fanno per lui, non stanno dentro la sua foga, e per questo, via via che la trasmissione va avanti, Grillo si prende sempre più spazio: sempre più spesso si accalora, si sporge dall’improvvisato balconcino della sedia e arringa i telespettatori.

Chi ha vinto? Grillo, temo: non vi sono molti dubbi. Qual è però il significato di questa vittoria? In termini elettorali saranno ovviamente le urne a dirlo. Però Grillo è entrato nella scatola televisiva e ne è uscito senza ammaccature, senza perdita di credibilità, continuando anzi a scommettere proprio sulla sua personale credibilità, e soprattutto sulla mancanza di credito degli altri, di tutti gli altri. Quando Vespa ha provato a obiettargli che a criticare son bravi tutti, e che tutti ripetono che bisogna cambiare le cose, Grillo ha avuto facile gioco nell’inchiodare il programma e fermare l’attenzione sulla questione che più gli sta a cuore: non cosa dici, ma chi sia a dirlo. Chi prende la parola. A chi credere. D’improvviso i contenuti sono diventati ininfluenti, irrilevanti, inutili. E la verità che incombe  sul mondo della comunicazione si è fatta d’improvviso palese: la televisione diviene tremendamente efficace proprio quando non comunica nulla, all’infuori del fatto che c’è. Efficace non nel proporre temi, ma nell’imporre attori.

Ma un’imposizione resta pur sempre un’imposizione. Grillo non è sfuggito a questa contraddizione, ma non è detto affatto che l’elettorato democratico voglia mandarla giù.

(L’Unità, 21 maggio 2014)

Perché l’Europa va cambiata ma anche difesa

ImmagineI dati raccolti dall’Istituto Cattaneo non lasciano molti margini di dubbio: l’Unione europea si muove su un crinale sottilissimo. La percentuale di cittadini che nutre sentimenti di scetticismo nei confronti del progetto europeo ha fatto un enorme balzo in avanti, e l’Italia, insieme alla Grecia, è tra i paesi che più sono colpiti da una così profonda disaffezione. I favorevoli alla moneta unica, con cui sempre più si identifica l’intera costruzione comunitaria, prevalgono ancora, sia pure di strettissima misura, ma manca poco, davvero poco, perché nelle tasche degli italiani circoli una moneta in cui la maggioranza non crede più. Moneta vuol dire credito, e credito vuol dire fiducia. Se la fiducia viene meno, anche la moneta viene meno. Con tutto quel che ne consegue.

I leader europei, a vario titolo, provano allora ad avvalorare l’idea che l’Europa per cui votiamo è un’altra Europa: non solo quella della moneta, o dei banchieri, o di Francoforte. Non l’Europa della tecnocrazia, della finanza; non l’Europa delle élite, ma l’Europa dei popoli, l’Europa della democrazia e della pace, l’Europa dei diritti e della libertà. Manca però, rispetto ai primi passi dell’Europa comune, la prosperità, costruita nei primi decenni del dopoguerra e progressivamente erosa dalla crisi economica più lunga e più grave che il continente abbia mai vissuto. Manca il lavoro, e non cresce solo la disoccupazione ma anche il numero di persone che lavora ma non ha cittadinanza e non sviluppa così sentimenti di appartenenza. Manca, infine, il futuro, e una generazione di leader europei capaci di suscitarlo.

Contrariamente al significato della parola, la crisi non si sta rivelando, anche, un’opportunità. Non sta mettendo in moto tumultuosi processi di cambiamento, formazione di nuova classe dirigente, ricambio di idee, rotture di paradigmi culturali consolidati. Genera al contrario stanchezza, non frenesia. La crisi non sta ancora funzionando da setaccio perché il nuovo passi, mentre il vecchio viene seppellito. Al contrario, i dati messi in evidenza dall’Istituto Cattaneo – che valgono drammaticamente per l’Italia, ma anche per la Francia; che inghiottiscono la Grecia, ma riguardano pure l’opinione pubblica tedesca – mostrano un processo completamene diverso: di defezione dai pilastri della rappresentanza democratica, di allontanamento e distacco dai circuiti istituzionali. L’Europa è sulla difensiva: difende gli spazi conquistati più che cercare di conquistarne di nuovi. Difende quanto gli resta di uno storico consenso, più che inventare nuovi motivi per catturare un consenso nuovo, che parli alla nuove generazioni. Per ora la defezione è più silenziosa che rumorosa, più rassegnata che arrabbiata. Domani, però, non si sa.

In ogni caso, il deficit di legittimazione di cui le istituzioni europee hanno sempre sofferto rischia di aggravarsi ulteriormente. In Italia, il voto della protesta populista è dato in crescita – anche se, vietati i sondaggi, non disponiamo di dati pubblici sulle percentuali che toccano al Movimento Cinque Stelle e alla Lega – ma ancor di più cresce l’astensione, il non voto. E il significato di questo non voto non consiste certo in una delega fiduciosa a chi invece vota, ma somiglia piuttosto al ritiro di ogni delega, e a una spaccatura sempre più irrimediabile tra chi cerca di tenere attaccati i pezzi dell’Unione, e chi ormai si sente scollato dalla politica europea. Purtroppo, sempre più questa spaccatura delinea una divisione fra i pochi e i molti, fra le élite e il popolo, fra quelli che godono dei privilegi di uno spazio pubblico e civile allargato a tutta l’Europa e quelli che invece soffrono le ristrettezze imposte dalla coabitazione sempre più forzata in un’unica area valutaria.

In una siffatta congiuntura, la sfida che attende l’Italia è particolarmente ardua. Il governo contiene oggi il massimo di novità possibile dentro il quadro delle forze politiche che scommette sul concerto europeo. Ma questa espressione ha un valore ancora soltanto potenziale, e dal voto dipenderà se questa potenzialità potrà o meno essere spesa nel semestre che il Paese si appresta a guidare. Due mesi sono pochi per valutare l’azione del nuovo presidente del Consiglio, ma non sempre in politica è possibile dettare i tempi. È evidente che un’affermazione dei grillini, insieme a un’avanzata dei populismi antieuropeisti, metterebbe a dura prova non solo la formazione di maggioranze in seno al Parlamento di Strasburgo, ma anche la tenuta della maggioranza che sostiene Renzi. La via di uscita dalla crisi della seconda Repubblica, cercato ormai da troppi anni, potrebbe finire col coincidere con la fine del sogno europeo. E non sarebbe quella che si chiama una felice coincidenza.

(Il Mattino, 20 maggio 2014)

Prostitute, la crociata di De Luca

ImmagineAvviso alle famiglie. Se sei sindaco, puoi. Se sei Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, devi. Non puoi permettere che le vie cittadine siano infestate da mendicanti, e non puoi nemmeno lasciare che la zona litoranea sia in mano alle prostitute e ai loro infami protettori. Sacrosanto. Però, siccome gli uomini continuano a circolare lentamente e a fari bassi in cerca di signorine, qualcosa ti devi inventare. Le multe salate, ok. L’intemerata pubblica, va bene. Ma non basta, Irma la dolce è ancora lì, e il suo cliente pure: dove allora non arrivano le contravvenzioni, più in alto delle timide leggi italiane il sindaco De Luca «giudica e manda secondo ch’avvinghia», come l’infernale Minosse dantesco. Per il bene della città, delle famiglie, dell’ordine pubblico e del decoro veste gli austeri panni del pubblico svergognatore, e invece di riscuotere la multa presso il comando municipale, pensa bene di mandare a casa, per i begli occhi della moglie o dei figli del malcapitato, lo spietato bollettino, accompagnato magari da un verbale che specifichi con inequivoca chiarezza il motivo della sanzione. E il cliente è bello che sistemato. Prima di lasciare un’altra volta il nido familiare per andare a prostitute  ci penserà non due ma tre volte. Che se poi il contravventore avesse eletto domicilio da qualche altra parte – a casa dei genitori, per esempio, o presso lo studio professionale – la notifica potrebbe spandere i suoi riverberi moralizzatori anche su un’anziana mamma, oppure sugli indignati colleghi di lavoro. La multa non basta, insomma: ci vuole lo scandalo, lo scorno, il pubblico ludibrio. Perché allora non raccomandare ai portieri degli stabili condominiali di mettere avviso in bacheca per i condomini affamati di meretricio? Perché non accludere documentazione fotografica, anche per prevenire eventuali ricorsi? Perché non istituire un albo pubblico dei clienti abituali, dei consumatori incalliti? Si dirà: la privacy. Ma se per una buona causa è giusto fare opera di sputtanamento, allora la soluzione è facile: mandi De Luca a tutti i sordidi capifamiglia salernitani una bella letterina, in cui chiedere papale papale l’autorizzazione a rendere note le loro generalità, qualora dovessero – come dire? –   cadere in fallo. Chi si rifiuterà sarà perciò stesso svergognato, e finalmente la pace tornerà sotto i lampioni.

È così che si fa. Non come il sessuologo à la page che ti spiega che così non si risolve il problema, o come il sociologo post-sessantottino che ti invita casomai a riflettere sulla marginalità sociale e su eventuali programmi di recupero, o come lo psicologo problematico che mette piuttosto l’accento sulle soggiacenti, difficili dinamiche familiari. E neppure, magari, come la femminista aggressiva che, dall’altra parte, rivendica il diritto della donna a far liberamente uso del proprio corpo, con chi crede e come crede. E neanche, infine, come Benjamin Franklin, il quale aveva un amico che non la finiva di pagare le donne, e allora il geniale inventore, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America, che ti fa? Si mette a disquisire se sia meglio andare con le vecchie o con le giovani, e consapevole di proporre un paradosso consiglia di preferire le prime, per esperienza e affabilità. E perché si corrono meno rischi e si pecca di meno.

Consigli da smidollati. De Luca ha deciso invece da tempo di interpretare il suo ruolo di sindaco in maniera ruvida, volitiva, mascellare. E insieme enfatica, istrionica, plateale. Essere amministratore è evidente che non gli basta: ha bisogno di sentirsi il padrone assoluto della scena, di avere in pugno la città come un mattatore sul palcoscenico. Di essere e sentirsi tutto d’un pezzo: debolezze e fragilità dell’umana condizione non lo riguardano, non gli appartengono, e non meritano nessun esercizio di comprensione. Così anche i ragionamenti scadono subito a sofisticherie, cavilli, sottigliezze inutili. La privacy, la dignità, i limiti dell’azione pubblica: chiacchiere da intellettuale, fisime da sfaccendati, depravazioni da rammolliti. Se però qualcuno dei suoi fidati collaboratori avesse il coraggio di sussurrargli almeno che le casse comunali non sono floridissime, e che incassare subito e con certezze le multe comminate in litoranea è meglio, molto meglio che aspettare di riscuoterle chissà quando, dopo l’invio a domicilio, forse non lo aiuterebbe a rinunciare a questa singolare forma di eretismo amministrativo, ma una prudente mano al bilancio forse la darebbe. In attesa che De Luca salti su per la prossima crociata.

(Il Mattino, 18 maggio 2014)

L’Italia delle manette che non vuol cambiare

ImmagineLa Camera vota l’autorizzazione all’arresto del deputato del Pd, Francantonio Genovese. In aula, tutto soddisfatto, qualcuno dei grillini fa il segno delle manette. Qualcun altro esibisce cartelli. Grillo d’altronde aveva detto: «Andatelo a prendere!». C’è poco da fare: è un copione già visto. Che però non porta da nessuna parte. Prendendo a prestito un termine della filosofia della mente, si potrebbe chiamare «incapsulamento informazionale». Parola difficile, ma che descrive bene a qual punto siamo. L’Italia rischia di rimanere di nuovo incapsulata in uno schema già applicato vent’anni fa, nell’illusione che il cambiamento potesse venire dalle inchieste e dagli arresti. E però, al tirar delle somme, come non vedere che dal passaggio traumatico di Tangentopoli non è venuta nessuna vera innovazione di sistema, nessun miglioramento della qualità della vita politica, nessun progresso in termini civili, sociali, morali? Grillo, però, vuole spingere il Paese a provarci un’altra volta.

La Camera, intanto, ha votato per l’arresto. Renzi ha chiesto per il partito democratico che ci fosse il voto palese; il voto palese c’è stato, e già nella serata di ieri Francantonio Genovese si è costituito a Messina, nella sua città. Grillo esulta, e in fondo ne ha ben donde. A patto però che si tenga per buono l’incapsulamento, ossia il modello della mente modulare, per cui ogni modulo è determinato in maniera univoca nel trattamento sempre uguale di un certo tipo di stimoli, e soltanto di quelli. È il modulo che i provvedimenti di questi giorni – dall’arresto di  Genovese alla fuga di Dell’Utri, passando per Scajola e l’Expo – fanno scattare irresistibilmente, infiammando la campagna grillina per «sputare in faccia in modo digitale» alla politica tutta. E infatti nient’altro il tour di Grillo racconta, se non quello che accade nell’arco riflesso che va dall’arresto all’esultanza, dall’inchiesta allo sputtanamento, dall’imputazione giuridica alla condanna mediatica. Un unico modulo, ripetuto in ogni piazza, ad ogni comizio, ad ogni nuova informazione che dovesse giungere dalle procure.

Ma esiste una mente, un’intelligenza pubblica non modulare? Esiste un’Italia non incapsulata? Non è questione di garantisti contro giustizialisti: anche questo sarebbe un riflesso condizionato, automatico. È questione invece di contrastare non solo l’intreccio fra la politica e il malaffare, ma pure l’idea che si fa politica solo per cacciare via il malaffare. Non va bene la prima cosa; ma non basta nemmeno la seconda. Non è mai bastata ed è un’illusione pericolosa credere che basti. L’una e l’altra cosa falsano il racconto del Paese, ne fiaccano le possibilità, ne avvelenano il clima.

Francantonio Genovese deve affrontare una mole di accuse non indifferente: truffa, peculato, riciclaggio e altro. La giustizia farà il suo corso, si spera nelle sedi e nelle forme proprie. Ma è quel che deve affrontare il Paese intero che non può non preoccupare, ed è per questo che si fa urgente la necessità di attivare altri moduli di azione, altre linee di comportamento, uno sguardo più ampio e più libero ai problemi dell’Italia.

C’è infatti un altro modo di parlare al Paese, ed è responsabilità della politica trovarlo. Che se infatti non lo si trovasse, se non lo si inventasse, una dolorosa coazione a ripetere butterebbe l’Italia un’altra volta indietro, con tanti begli arresti e nessuna via d’uscita.

(Il Mattino, 16 maggio 2014)

Mezzogiorno, se riparte il dialogo

ImmagineA dieci giorni dal voto, Matteo Renzi ha fatto il punto dell’impegno del suo governo per il Mezzogiorno. È una notizia. È, forse, il segno di un’attenzione nuova verso quel terzo del Paese che è stato più duramente colpito dalla crisi. Ed è anche, certamente, una presa di posizione in campagna elettorale. Ma non si può dire che non sia emersa, dalla discussione di ieri nel Forum del Mattino, la precisa consapevolezza che una questione meridionale esiste: è nelle cose, e comincia ad essere nuovamente nella coscienza nazionale, se c’è un Presidente del Consiglio che non la risolve sbrigativamente rispedendola al destinatario. In verità, la seconda Repubblica si è costruita anche attraverso la brusca rimozione di una tale questione. Il problema non è stato più come curare i mali del Mezzogiorno, ma come impedire che contagiassero il resto del Paese. Un federalismo male interpretato è stata non la formula di una nuova unità nazionale, non il modo di realizzare il massimo di unione possibile in un Paese storicamente disunito, ma il modo di realizzare la massima disunione possibile senza rompere del tutto l’unità nazionale. Nel frattempo, però, l’Italia è entrata in Europa e – complice la crisi più grave del dopoguerra – si è dovuta accorgere a suo spese, a spese cioè dell’Italia intera, di quanto logiche centralistiche, fondate in questo caso su egoismi nazionali invece che su egoismi locali, possono penalizzare le periferie ben oltre le responsabilità e le colpe portate dalle loro classi dirigenti.

Le quali responsabilità, beninteso, ci sono tutte, e richiedono un’attenzione critica e non compiacente: a Napoli come a Roma (o come a Milano). Ma nessun discorso sul passato o sul presente disegna da solo un futuro diverso. E Renzi è parso consapevole che un conto è individuare le responsabilità altrui, un conto è scaricarsi delle proprie. E invece nel lungo ventennio di questa scalcagnata seconda Repubblica l’una cosa ha finito col comportare sempre più anche l’altra, e governi si sono succeduti a governi senza che mai davvero si provasse a recuperare il filo di un discorso verso il Mezzogiorno, a lanciare la proposta di un nuovo patto sociale, a tentare il ridisegno di un vero progetto strategico, industriale, infrastrutturale.

È la volta buona? Renzi lo twitta continuamente: le riforme istituzionali? È la volta buona. La legge elettorale? È la volta buona. La riforma del lavoro? È la volta buona. I tagli ai costi della politica? È la volta buona. Ma è la volta buona anche per il Mezzogiorno? Per ora possiamo solo augurarcelo. Né due mesi di governo possono bastare per fondarci sopra un giudizio. Intanto, però, l’incontro di ieri – con il Vesuvio e la questione meridionale sotto gli occhi e nelle domande del giornale: i fondi europei, i criteri di ripartizione della spesa nazionale, le infrastrutture materiali e digitali, il sistema dell’istruzione e della formazione, la riqualificazione del territorio, la legalità – tutto ciò può davvero servire a sgombrare finalmente il campo dalla lagna per cui si tratterebbe del solito meridionalismo piagnone e un po’ straccione: non «la volta buona», bensì ancora una volta la solfa stantìa del Sud e del suo divario dal Nord.

Poi, certo, non si può trascurare che oggi più che mai valgono le leggi della campagna elettorale. E la campagna elettorale, si sa, è il terreno delle promesse, delle parole date, persino dei giuramenti sulla testa dei figli (Berlusconi docet), promesse parole e giuramenti così spesso disattesi all’indomani del voto. Ma Renzi è sicuramente consapevole che le elezioni sono anche il momento vero in cui si può ristabilire una corrente di partecipazione e di emozioni comuni, e rifondare quell’elemento così indispensabile alla salute di una comunità nazionale che è la fiducia. In politica, infatti, le crisi morali e di legittimazione si curano  nell’unico luogo in cui possono essere con certezza avvertite: nell’urna.

E nell’urna del 25 maggio c’è dentro un po’ di tutto, ormai. Sempre meno il destino dell’Unione europea, in verità, e sempre più il giudizio sull’operato di Renzi. Ma dentro deve esserci anche un po’ di Mezzogiorno, perché senza l’Italia non si tiene. Senza il voto del Mezzogiorno, anche l’eventuale vittoria di Renzi sarebbe una vittoria a metà.

(Il Mattino, 15 maggio 2014)

L’Europa dimenticata

ImmagineE anche questa campagna per le europee se ne va tra polemiche e veleni. Ma soprattutto in un orizzonte di temi e problemi che con l’Unione europea c’entra poco o punto. In verità va così dal 1979, o quasi, cioè da quando gli europei hanno cominciato a votare per il Parlamento di Strasburgo. Questa volta, però, vi sarebbe stata – eccome! – materia per decidere la rappresentanza parlamentare in Europa in forza delle posizioni espresse su questioni di formato europeo: il futuro presidente della Commissione indicato dai cittadini attraverso il voto; la riforma dei Trattati; la crisi dell’area Euro, il fiscal compact e le politiche di austerity; i fondi europei e la loro destinazione nel Mezzogiorno; le politiche per l’immigrazione. E sono solo alcuni dei capitoli su cui c’è bisogno di una consapevolezza e dell’esercizio di una cittadinanza finalmente europea.

E invece progressivamente questi temi sono impalliditi, dell’Unione ci è rimasto quasi soltanto lo spauracchio a uso di una certa retorica populista, dopodiché le prossime elezioni hanno preso a funzionare come una verifica del consenso ai partiti, per finalità quasi esclusivamente interne. O come un’elezione di metà mandato, per testare la salute del governo. D’altra parte i sondaggi – quelli pubblicati prima dello stop elettorale, e quelli che continuano a circolare riservatamente – continuano a rispondere a domande tutte italiane: quanto peserà sul voto lo scandalo dell’Expo? Gonfierà ancora il consenso a Grillo e all’antipolitica oppure non inciderà più di tanto? E Scajola, e Dell’Utri, e Berlusconi ai servizi sociali: non sarà che le parole dell’ex-ministro Geithner offrono un’insperata ciambella di salvataggio al Cavaliere, a corto di argomenti e di uomini? Ma possono divenire gli appalti milanesi, oppure l’ignominiosa caduta del governo Berlusconi, nel 2011, gli argomenti su cui si decide l’esito del voto del 25 maggio?

L’Unione europea non ha una politica estera degna di questo nome, e intanto l’Ucraina è sull’orlo della guerra civile. Nessun partito politico italiano sembra però minimamente attraversato dalla questione. Né prova a prendere voti sul destino di Kiev o sui rapporti con Mosca. Quanto al bilancio del Parlamento europeo, esso rappresenta l’1% del bilancio dell’Unione e solo un quinto della spesa amministrativa complessiva delle istituzioni europee. Eppure è l’unico luogo vero in cui, nel voto, si mescolano effettivamente le identità nazionali, il che per forza di cose non accade fra capi di governo. E però la crisi ha rafforzato robustamente il metodo intergovernativo, per cui l’Europa è divenuta sempre più l’Europa di primi ministri, presidenti e cancellieri. Ma anche questo, anche la qualità e l’intensità dei processi democratici dell’Unione sembra non avere alcuna rilevanza nella campagna elettorale.

La quale si va giocando dapprima sulla burrascosa finale di Coppa Italia, poi sulla coppia indecente formata da Primo Greganti e da Gianstefano Frigerio, poi sull’approvazione del decreto lavoro: il profilo di un programma per l’Europa bisogna cercarlo fra le pieghe di un discorso, a margine di una conferenza stampa, in qualche comunicato scritto per gli addetti ai lavori, ma in nessun modo là dove lo si dovrebbe trovare, e giudicare: nel dibattito delle idee, nell’opinione pubblica, e infine (e soprattutto), nel sentimento popolare.

Cui prodest? A chi giova? Forse non ad uno solo ma a tutti. Perché Berlusconi quali argomenti avrebbe, quale idea di Europa coltiva? Vallo a sapere. E Grillo? Ha ragione il premier, quando sottolinea che non si ricorda il nome di un solo candidato a Cinque Stelle. Grillo, d’altronde, li manda a Bruxelles non perché abbiano chissà quale visione dell’Europa, ma solo perché facciano pulizia negli uffici. Al futuro del continente ci si penserà dopo, magari con qualche sbrigativa consultazione on line. E poi l’Italia offre un molto più pescoso mare di polemiche. Renzi, infine, ha tutto l’interesse ad incassare un voto che capitalizzi la luna di miele con il Paese, che lo rafforzi alla guida del governo e della maggioranza, che gli dia una più piena legittimazione.

Al tirar delle somme, dunque, Parigi val bene una messa, e così Roma o Berlino, ma Bruxelles o Strasburgo pare proprio di no.

(L’Unità, 15 maggio 2014)

Conchita e il terzo duca di Alcalà

ImmagineC’è un buon numero di differenze fra Conchita Wurst e Maddalena Ventura. Conchita è austriaca, ha venticinque anni e ha vinto l’Eurovision Song Contest 2014. Maddalena Ventura è abruzzese, ha più di cinquanta anni e non ha vinto un bel nulla. Sono famose entrambe, però. Conchita per il successo dell’altra sera, Maddalena perché ritratta nel ‘600 dal pittore spagnolo, napoletano d’adozione, José de Ribera. Chi vuol vedere Conchita dal vivo può seguire uno dei suoi spettacoli. Dal vivo Maddalena non la si può vedere più, ma il quadro è conservato a Toledo, in Spagna.

Conchita ha la barba; Maddalena, anche. Per il resto però non si somigliano per niente. E non solo per via dell’età, ma perché Maddalena era solo una donna sfortunata, affetta da irsutismo, mentre Conchita è il fortunato personaggio creato dal cantante e performer austriaco Thomas Neuwirth. Conchita è una «drag queen»; Maddalena non ha alcun tratto regale. Neuwirth ha scelto di indossare eleganti panni femminili e portare una lunga barba; Maddalena non ha scelto proprio nulla. Neppure, probabilmente, di farsi ritrarre, insieme al marito e al bimbo che allatta al seno. Maddalena è un caso clinico; Conchita un caso  spettacolare. Maddalena aveva un aspetto mostruoso, e proprio per questo il viceré  Fernando Enriquez Afán de Ribera y Enriquez, terzo duca di Alcalà, commissionò al pittore il quadro; Neuwirth ha dichiarato invece che del suo aspetto e dell’identità sessuale non gliene importa niente. Maddalena ispira pietà per la sua condizione, la pietà e l’umana comprensione riservata solitamente a chi non è normale; Neuwirth non riconosce alcun significato ad una qualche normalità biologica o sessuale. Maddalena è una donna, che una patologia priva di femminilità. Conchita gioca con i caratteri sessuali secondari per ibridare la stessa idea della femminilità. Maddalena è brutta; Conchita, invece? E se Conchita fosse non brutta ma kitsch?

Che cosa sia il kitsch è una faccenda complicata; in luogo di una definizione, forse è meglio proporre un piccolo ragionamento. Dunque: Conchita mescola ruoli e generi e canta a voce piena. Rivendica il diritto di essere quel che vuole, e mette definitivamente in crisi l’idea che non si possa scegliere quel che si è. Altro che «progetto gettato», altro che «libertà situata», come dicevano i filosofi nel ‘900! Dalla situazione in cui siamo ne usciamo quando vogliamo. Non siamo affatto «gettati», venendo nel mondo con un corpo e un’identità definita: lo possiamo modificare, cambiare, migliorare, rendere ambiguo e sfuggente. Perfino il gran principio di Aristotele e della metafisica occidentale, per il quale l’essere è determinato e ogni cosa ha una sua determinatezza non è più al sicuro, grazie a Conchita (e non solo a lei, a dire il vero). Diceva l’uomo del sottosuolo di Dostoevskij: «mi contraddico: e con ciò?». Conchita Wurst rivendica il diritto di contraddire la natura. E il diritto e la morale, nella misura in cui l’uno e l’altra credevano di essere in qualche modo posti a guardia della natura, di una qualche idea di natura umana.

Conchita non è certo la prima a farlo. Anzi, è da un secolo che lo si fa, almeno nell’arte. Con la sua donna barbuta, José de Ribera non voleva contraddire nulla e nessuno; travestendosi da Rrose Sélavy e facendosi fotografare da Man Ray in panni femminili, Marcel Duchamp, uno dei più geniali artisti del secolo scorso, non voleva far altro: inoculare un sottile veleno in tutte le usuali certezze e revocare in dubbio la salute, la saldezza, la stabilità dell’umanesimo occidentale e i suoi fin lì indiscussi canoni estetici e morali.

E siamo al punto. Perché Conchita sembra esclusivamente interessata a ciò che gliene viene o gliene può venire da un simile smottamento. L’avanguardia artistica e la paccottiglia – il kitsch, appunto – camminano così insieme, sotto la medesima insegna della trasgressione. Che mette allarme, perché gli uomini in genere temono ciò che non capiscono: ed è l’operazione dell’arte. Ma quel che al contrario fa Conchita si capisce fin troppo bene, ed è fin troppo calcolato nei suoi effetti: più che alla libertà di essere risponde alla necessità di stupire. Che Conchita assume su di sé, senza più neppure un terzo duca di Alcalà che glielo chieda. Così Maddalena  ci ispira compassione, fosse pure per via di atavici tabù; Conchita spazza via tutti i tabù, ma forse in questa liberazione ci mette anche un cinico calcolo. Riuscito al punto che porta a casa il primo premio.

(Il Mattino, 13 maggio 2014, col titolo Il trionfo kitsch solo per stupire)

«Chi sono io per giudicare?»

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«A me questo Papa piace. Mi mette in allarme»: così comincia Giuliano Ferrara, nel suo ultimo libro (con Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro: Questo Papa piace troppo, Piemme, Euro 15,90). E così finisce. Non rinuncia a farsi piacere il Papa, ma nemmeno a restare in allarme. Perché gli piaccia il Papa può sembrare ovvio, dal momento che piace a tutti, e piace sin troppo, ma in realtà le ragioni che Ferrara adduce non sono le stesse per le quali piace a tutti. Proprio quelle, anzi, sono motivo di allarme. Il Papa, dunque, non gli piace perché la sera dell’elezione saluta dal balcone di San Pietro con un timido buonasera, o perché va in giro portandosi appresso la sua vecchia borsa nera, o perché ha ogni tanto il ghiribizzo di telefonare a chicchessia, a Scalfari come al suo calzolaio (suo del Papa, non di Scalfari). Non gli piace per quanta misericordia e tenerezza spande nei suoi discorsi, e nemmeno perché sembra accantonare certe rigidità dottrinali o voler riformare profondamente la curia romana. No, gli piace piuttosto perché con Francesco la Chiesa ha voltato pagina, ed è uscita dalla «storica impasse» in cui si era cacciata. Perché con Francesco la Chiesa cattolica sembra cominciare da un’altra parte e cominciare di nuovo, invece di macerarsi nel dubbio su come proseguire nello spirito del Concilio, oppure farne un altro, o anche fare macchina indietro. Circola invece un’altra aria, una bella ventata di novità: «una rumba sudamericana presa dalla fine del mondo». E questo qualche frutto darà.

Dopodiché però diciamolo pure: l’allarme prevale. Di gran lunga. La simpatia: d’accordo. La curiosità: va bene. Il relativismo gesuitico (Francesco che ai cronisti dice: «chi sono io per giudicare?» e nessuno che gli risponde: «bene o male sei – o saresti – il Papa!»): magari quella è davvero la strada giusta per chiamare a sé le coscienze. Ma il nocciolo della questione, per come lo vede Ferrara, è: quale posto le idee e la cultura cristiana possono trovare e ancora troveranno nello spazio pubblico. Perché per quel posto gli ultimi due papi si erano in modi diversi fieramente battuti, mentre questo Papa Francesco non si sa quanta voglia ne abbia. E anzi spiace così poco alla communis opinio, al mainstream dominante, agli spiriti laici e illuministi e politicamente corretti, che sembra proprio non volerla contraddire mai, codesta pubblica opinione. Ragion per cui dall’omosessualità alla comunione per i divorziati, passando per la legge 40, il timore (l’allarme) è che Francesco adotti semplicemente un atteggiamento rinunciatario (Gnocchi e Palmaro lo chiamano addirittura «catechismo della desistenza»), compiacente verso il mondo e fin troppo accomodante.

E invece aut Christus fallitur, aut mundus errat: o Cristo si inganna o il mondo è in errore. E siccomesan Bernardo aggiunge subito dopo che è impossibile che la divina sapienza s’inganni, c’è poco da fare: è il mondo che è in errore.

Ora, credo che a Ferrara importi molto meno fare l’elenco degli errori in cui il mondo incorre, che non rivendicare alla Chiesa il diritto di stigmatizzare l’errore, senza farsi intimidire da un’aggressiva coscienza laica, o (cosa più probabile) ammorbidire dalle lusinghe del mondo, dal consenso misurato dal numero di follower che il Papa può vantare su Twitter o dal numero delle telefonate a Scalfari. Basti leggere le pagine forse più vivaci del libro, il provocatorio l’elogio di Pio IX e del suo Sillabo, quello che condannò il liberalismo e la civiltà moderna, per cogliere la vera questione, per Ferrara: riuscirebbe oggi la Chiesa, avrebbe l’energia necessaria per produrre un testo simile al Sillabo di Pio IX?

Domanda legittima. Ma se si dimostrasse che no, la Chiesa non ha più questa energia, perché invece ce l’ha il mondo (e perché poi il mondo non dovrebbe averla?), certo Gnocchi e Palmaro se ne dorrebbero altamente; ma poi? Che cosa nel «depositum fidei» sarebbe compromesso? E perché la differenza fra la Chiesa e il mondo sarebbe in questo caso necessariamente assimilata, tolta, cancellata? Perché la Chiesa dovrebbe perdere con ciò la sua forza profetica, testimoniale, spirituale? Forse, assumerebbe solo una diversa figura, e forse Papa Francesco sta solo provando a incarnarla. Andando a casa del peccatore, e non solo giudicandolo dal colonnato di piazza San Pietro.

(Il Mattino – Cultura, 9 maggio 2014, col titolo Questo papa fa sul serio)

La partita più difficile del premier

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Stando ai sondaggi, il Movimento Cinque Stelle è il primo partito nel Mezzogiorno. Ora metteteci tutto: che mancano ancora venti giorni al voto. Che i sondaggi non sempre ci prendono. Che la volatilità delle opinioni e delle intenzioni espresse è molto alta. Che in realtà il vero primo partito è, al Sud e in Italia, il partito dell’astensione. Che le elezioni europee non sono le elezioni politiche nazionali e non hanno lo stesso peso. Metteteci tutto questo e altro ancora: l’invasione degli ultracorpi e la fine del mondo come l’abbiamo conosciuto, sta di fatto che Grillo vola nei rilevamenti di questi giorni, e i partiti tradizionali annaspano. Tradizionali? Magari ci fosse un partito tradizionale! In realtà, di tradizionale nell’offerta politica del nostro paese non c’è praticamente più nulla o quasi. Di più: quasi non c’è offerta, punto e basta. Ed in particolare non c’è un’offerta, una proposta, una visione che parli alla società meridionale. E non ci sono strutture partitiche credibili, classi dirigenti degne di questo nome, amministratori all’altezza.

Si dirà: troppo facile generalizzare. Vero. Ma non sono io, è il voto che generalizza, è il voto che esprime un’opinione generale. E nell’opinione generale sta venendo complessivamente meno la fiducia nei compiti stessi della politica, ancor prima che nei singoli uomini o partiti.

Per questo, la sfida che attende Matteo Renzi fa tremar le vene ai polsi. Nei suoi ultimi interventi, Berlusconi ha dato l’impressione di voler contenere i danni, e di considerare non queste elezioni ma le future elezioni politiche il vero banco di prova: non è ovviamente una dimostrazione di salute, bensì piuttosto una realistica presa d’atto delle difficoltà che il centrodestra attraversa, diviso e frammentato com’è, parte al governo e parte all’opposizione. L’altro perno del sistema è però il partito democratico. Se frana pure quello, frana tutto. È dunque il partito che ha le maggiori responsabilità di governo e, peraltro, esprime il massimo tasso di novità possibile in questo momento. Resta però che finora anche il partito democratico, che forse prova effettivamente a pensarsi come partito della nazione – come quel partito, cioè, che tiene insieme i vari pezzi del paese, ancor più che come il partito della sola sinistra progressista – resta, dicevo, che il PD non sembra affatto soddisfare questa ambizione. E in ogni caso non si può dire che abbia tirato fuori un’idea per il Sud, o magari anche solo una trovata o una semplice alzata d’ingegno. Si ricorda lo scontrino esibito dalla Picierno, poi che altro?

Renzi deve cominciare da zero, o quasi. Ha poco tempo, due settimane o poco più, per trasmettere un’idea diversa di ciò che il Pd fa o può fare. Lanciando una sfida capace di suscitare nuove energie. Indicando due o tre obiettivi da perseguire con determinazione in Italia e in Europa. Rimettendo il Sud al centro della politica nazionale. Tocca a lui: dopo la stagione di Bassolino, al Sud il centrosinistra non ha saputo ancora trovare un assetto credibile. Fatica a chiudere la stagione congressuale, fatica a darsi un profilo politico riconoscibile. Sopravvivono qua e là notabilati locali, ma ben difficilmente Renzi potrà aggrapparsi ad essi per imprimere anche nel Mezzogiorno la «svolta buona». E tuttavia una svolta occorre, nelle politiche e negli uomini. Il rottamatore qui non ha ancora finito di rottamare.

Parliamoci chiaro, infatti: l’iniziativa riformatrice di Renzi sul terreno istituzionale è ben percepibile. Anche in altri settori, come per esempio in materia di giustizia o sul lavoro, si vede che il governo intende muoversi. A questa intenzione può corrispondere quindi un’attesa fiduciosa. Ma con il Sud la luna di miele del nuovo governo deve ancora cominciare, e a Renzi tocca inventarsi subito qualcosa per sovvertire il dato che i sondaggi riportano: Grillo al comando e gli altri a inseguire. Il Mezzogiorno potrebbe pesare come un macigno sulle future prospettive di questo governo e del Paese. Che non può certo essere governato abbandonando un terzo del territorio al suo destino.

Hegel diceva che è solo uno spiritosaggine quella di chi ritiene che grandi effetti possano essere prodotti da piccole cause. Nessun naso di Cleopatra ha cambiato insomma le sorti di Roma e del mondo. Se dunque l’effetto dirompente dovesse prodursi nelle urne, sappiamo già che non sarà stato per una candidatura sbagliata, per un difetto di comunicazione o per una partita di calcio andata storta. Suona antipatico ma, dopo tutto, Hegel aveva buoni motivi dalla sua: il reale è razionale. Se le cose succedono, una qualche ragione ci sarà. E non è consigliabile scoprire quale sia soltanto la sera di domenica. Meglio, molto meglio farlo prima.

(Il Mattino, 7 maggio 2014)