Può sembrare un paradosso che le analisi più approfondite e dettagliate del libro di Fabio Nicolucci, Sinistra e Israele. La frontiera morale dell’Occidente (Salerno editrice), siano dedicate alla destra, israeliana e americana, ma è un paradosso solo apparente. Perché è anzi proprio nella rottura operata nel discorso pubblico dai neoconservatori, che va ricercato il motivo di fondo, anzi l’urgenza politica che ispira il saggio: ricostruire il rapporto della sinistra con Israele, ripensare il sionismo e le sue origini socialiste, riconsiderare il destino dell’Occidente muovendo dalla sua parte più singolarmente esposta, lo Stato di Israele, ritrovare un rapporto più stretto con una delle fonti ultime di legittimazione dell’identità occidentale. La coppia di termini che forma il titolo del libro è oggi – e ormai da quasi cinquant’anni – fortemente divaricata, e il libro di Nicolucci aiuta a capire perché. Ricostruendo anzitutto le vicende storiche, ma dedicandosi con particolare attenzione allo scontro delle idee. Non a caso il fulcro analitico del libro si trova nei due lunghi paragrafi dedicati a «Israele e la destra neoliberista» e alla «battaglia sul sionismo», a come cioè a partire dallo «snodo cruciale» della guerra dei Sei Giorni (1967) sia incubato quel vasto fronte ideologico che avrebbe poi guadagnato l’egemonia in Israele e negli USA con la dottrina neocon: fortemente identitaria, fortemente interventista, fortemente manichea, capace di fornire una chiave di lettura globale della lotta al terrorismo, intrisa di moralismo e insofferente verso ogni forma di compromesso, di mediazione, di riforma.
Il libro di Nicolucci è davvero prezioso, non solo perché aiuta a ricostruire una fitta trama di idee che non è rimasta confinata nei circoli accademici ma si è tradotta in una dottrina geo-politica assai influente, capace di condizionare in profondità la politica estera americana (in particolare sotto la presidenza di Bush figlio), ma perché indica con cura quale sia stato il nucleo germinale della dottrina neocon, e cioè l’azione dapprima ideologica e organizzativa, poi direttamente politica dispiegata da Benjamin Netanyahu, attuale premier israeliano. L’interventismo neocon si è infatti saldato con – anzi, per molti aspetti è germinato da – una interpretazione identitaria e particolaristica dello Stato di Israele sostenuta dalla destra neoconservatrice israeliana, che si è riflessa anche sulla costruzione dell’occidentalismo in chiave di scontro di civiltà con il mondo islamico. Questa lettura fortemente «polemica» dei concetti politici, che accomuna tutti i teorici neocon, ha avuto in realtà la sua più intensa formulazione in Carl Schmitt. Il suo approfondimento richiederebbe dunque una rivisitazione del controverso rapporto fra il grande giurista tedesco, compromesso col nazismo, e il filosofo ebreo Leo Strauss, emigrato in America e nume tutelare dei neocon americani: così distanti per certi versi l’uno dall’altro ma, per altri versi, accumunati dalla medesima ossessione del moderno, cioè da una sostanziale sfiducia nelle deriva della modernità liberale, democratica e socialista. Nicolucci sceglie invece un’altra strada, più interna ai percorsi della storia e forse anche più fruttuosa, perché in grado di indicare un concreto orizzonte politico e non soltanto un fronte intellettuale.
Alla fine del secondo capitolo, Nicolucci si sofferma infatti brevemente sul seme piantato nell’ebraismo americano da JStreet, movimento nato nel 2008 e cresciuto grazie alla sponda dell’amministrazione Obama. L’esperienza di Jstreet corrisponde allo sforzo di ridefinire il campo politico del sionismo americano, per sottrarlo all’egemonia dei neoconservatori (sforzo che, peraltro, percorre anche il libro). Lo stallo attuale nel processo di pace israelo-palestinese ha reso problematico il tentativo, ma – commenta Nicolucci – «un prezioso seme è stato messo». Il punto è allora se si possa piantare un seme anche nella sinistra europea e italiana, ridefinendo le coordinate politico-ideologiche con cui da sinistra si guarda al conflitto israelo-palestinese e all’intero scenario mediorientale. Nicolucci pensa che ciò sia necessario, e credo che abbia ragione. Credo abbia ragione anche nel rifiutare le chiavi di lettura di quel conflitto in termini di ricchi contro poveri, o di oppressori contro oppressi, così come credo che le abbia nello sterrare le radici dell’antioccidentalismo della sinistra, che affonda in uno scacchiere internazionale da tempo finito. La somma di queste ragioni rende infine ineludibile il confronto con la proposta politica avanzata nelle conclusioni: un «occidentalismo di sinistra» privo di connotazioni aggressive, imperiali o neocoloniali, ma capace di includere senza incertezze nel proprio perimetro storico e culturale Israele, proprio per poterne con maggiore legittimità criticarne le politiche. Non è un passaggio semplice, perché costringe a rivedere il principio dell’equidistanza che porta solo «all’indifferenza e al moralismo impotente», ma è per Nicolucci un passaggio ineludibile, se la sinistra non vuole condannarsi all’irrilevanza. Ed è forse anche un passaggio politicamente opportuno, se e finché permette comunque, come l’Autore ritiene, di considerare il conflitto israelo-palestinese come uno scontro non fra un torto e una ragione ma fra due ragioni. Contro i neocon e anche contro la vecchia sinistra, che condividono l’idea che a confrontarsi invece siano un torto e una ragione, anche se di quel torto e di quella ragione forniscono identificazioni opposte (e speculari).