Archivi del mese: giugno 2014

Sinistra-Israele, rapporto da ricostruire

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Può sembrare un paradosso che le analisi più approfondite e dettagliate del libro di Fabio Nicolucci, Sinistra e Israele. La frontiera morale dell’Occidente (Salerno editrice), siano dedicate alla destra, israeliana e americana, ma è un paradosso solo apparente. Perché è anzi proprio nella rottura operata nel discorso pubblico dai neoconservatori, che va ricercato il motivo di fondo, anzi l’urgenza politica che ispira il saggio: ricostruire il rapporto della sinistra con Israele, ripensare il sionismo e le sue origini socialiste, riconsiderare il destino dell’Occidente muovendo dalla sua parte più singolarmente esposta, lo Stato di Israele, ritrovare un rapporto più stretto con una delle fonti ultime di legittimazione dell’identità occidentale. La coppia di termini che forma il titolo del libro è oggi – e ormai da quasi cinquant’anni – fortemente divaricata, e il libro di Nicolucci aiuta a capire perché. Ricostruendo anzitutto le vicende storiche, ma dedicandosi con particolare attenzione allo scontro delle idee. Non a caso il fulcro analitico del libro si trova nei due lunghi paragrafi dedicati a «Israele e la destra neoliberista» e alla «battaglia sul sionismo», a come cioè a partire dallo «snodo cruciale» della guerra dei Sei Giorni (1967) sia incubato quel vasto fronte ideologico che avrebbe poi guadagnato l’egemonia in Israele e negli USA con la dottrina neocon: fortemente identitaria, fortemente interventista, fortemente manichea, capace di fornire una chiave di lettura globale della lotta al terrorismo, intrisa di moralismo e insofferente verso ogni forma di compromesso, di mediazione, di riforma.

Il libro di Nicolucci è davvero prezioso, non solo perché aiuta a ricostruire una fitta trama di idee che non è rimasta confinata nei circoli accademici ma si è tradotta in una dottrina geo-politica assai influente, capace di condizionare in profondità la politica estera americana (in particolare sotto la presidenza di Bush figlio), ma perché indica con cura quale sia stato il nucleo germinale della dottrina neocon, e cioè l’azione dapprima ideologica e organizzativa, poi direttamente politica dispiegata da Benjamin Netanyahu, attuale premier israeliano. L’interventismo neocon si è infatti saldato con – anzi, per molti aspetti è germinato da – una interpretazione identitaria e particolaristica dello Stato di Israele sostenuta dalla destra neoconservatrice israeliana, che si è riflessa anche sulla costruzione dell’occidentalismo in chiave di scontro di civiltà con il mondo islamico. Questa lettura fortemente «polemica» dei concetti politici, che accomuna tutti i teorici neocon, ha avuto in realtà la sua più intensa formulazione in Carl Schmitt. Il suo approfondimento richiederebbe dunque una rivisitazione del controverso rapporto fra il grande giurista tedesco, compromesso col nazismo, e il filosofo ebreo Leo Strauss, emigrato in America e nume tutelare dei neocon americani: così distanti per certi versi l’uno dall’altro ma, per altri versi, accumunati dalla medesima ossessione del moderno, cioè da una sostanziale sfiducia nelle deriva della modernità liberale, democratica e socialista. Nicolucci sceglie invece un’altra strada, più interna ai percorsi della storia e forse anche più fruttuosa, perché in grado di indicare un concreto orizzonte politico e non soltanto un fronte intellettuale.

Alla fine del secondo capitolo, Nicolucci si sofferma infatti brevemente sul seme piantato nell’ebraismo americano da JStreet, movimento nato nel 2008 e cresciuto grazie alla sponda dell’amministrazione Obama. L’esperienza di Jstreet corrisponde allo sforzo di ridefinire il campo politico del sionismo americano, per sottrarlo all’egemonia dei neoconservatori (sforzo che, peraltro, percorre anche il libro). Lo stallo attuale nel processo di pace israelo-palestinese ha reso problematico il tentativo, ma – commenta Nicolucci – «un prezioso seme è stato messo». Il punto è allora se si possa piantare un seme anche nella sinistra europea e italiana, ridefinendo le coordinate politico-ideologiche con cui da sinistra si guarda al conflitto israelo-palestinese e all’intero scenario mediorientale. Nicolucci pensa che ciò sia necessario, e credo che abbia ragione. Credo abbia ragione anche nel rifiutare le chiavi di lettura di quel conflitto in termini di ricchi contro poveri, o di oppressori contro oppressi, così come credo che le abbia nello sterrare le radici dell’antioccidentalismo della sinistra, che affonda in uno scacchiere internazionale da tempo finito. La somma di queste ragioni rende infine ineludibile il confronto con la proposta politica avanzata nelle conclusioni: un «occidentalismo di sinistra» privo di connotazioni aggressive, imperiali o neocoloniali, ma capace di includere senza incertezze nel proprio perimetro storico e culturale Israele, proprio per poterne con maggiore legittimità criticarne le politiche. Non è un passaggio semplice, perché costringe a rivedere il principio dell’equidistanza che porta solo «all’indifferenza e al moralismo impotente», ma è per Nicolucci un passaggio ineludibile, se la sinistra non vuole condannarsi all’irrilevanza. Ed è forse anche un passaggio politicamente opportuno, se e finché permette comunque, come l’Autore ritiene, di considerare il conflitto israelo-palestinese come uno  scontro non fra un torto e una ragione ma fra due ragioni. Contro i neocon e anche contro la vecchia sinistra, che condividono l’idea che a confrontarsi invece siano un torto e una ragione, anche se di quel torto e di quella ragione forniscono identificazioni opposte (e speculari). 

(L’Unità, 29 giugno 2014)

Riforme e pregiudizio

ImmaginePremessa per intendere in maniera pacata i fatti odierni. L’immunità parlamentare sta nella Costituzione italiana dal 1948. Non basta, si potrebbe tornare ancora più indietro: all’epoca medievale, per esempio, e alle prerogative riservate ai membri dei parlamenti in ragione della loro alta funzione. Non c’era ancora la democrazia, non c’era ancora il suffragio universale, non c’era ancora il costituzionalismo, e però si poneva comunque il problema di come tutelare i componenti delle assemblee elettive. Questa tutela si chiamava allora e si chiamerà in seguito – udite udite – «privilegio parlamentare», e si chiamava così, in assenza di grillini agguerriti che elevassero sdegnati la loro protesta. Ma ora i grillini ci sono, e si sdegnano e come: se uno vale uno, come recita il loro finto iperdemocraticismo – finto perché trova un’applicazione piuttosto altalenante, a seconda delle circostanze –, qualunque privilegio è inammissibile. Lo dice (lo direbbe) la parola stessa.

E invece la parola racconta la lunga storia con cui le istituzioni parlamentari si sono fatte largo contro la prevaricazione di altri poteri, conquistando uno spazio giuridico protetto, a tutela della insindacabilità delle opinioni e dei voti espressi nell’esercizio della funzione parlamentare, e per frapporre un impedimento (entro certo limiti e condizioni) alla sottoposizione a procedimenti penali, o all’arresto, o ad altre misure restrittive, di un rappresentante del popolo.

La premessa finisce qua. Dovrebbe essere ben più lunga e tornita ma può bastare. E anche se si giudicasse che non era necessaria per capire cosa è successo in questi giorni, con la reintroduzione dell’immunità parlamentare per i membri del Senato, sarebbe bene che la si tenesse comunque presente, dal momento che più è ampio e profondo il pensiero che accompagna le riforme costituzionali e meglio è. Una volta esplosa la polemica – lo scambio di accuse, le giustificazioni, lo scaricabarile – si capisce una cosa soltanto: nessuno è ancora in grado di affrontare in maniera calma e ragionata un tema simile. E invece, qualunque cosa si pensi al riguardo, è innegabile che di privilegi e immunità parlamentari si parla da che esistono i parlamenti, e dunque qualunque riscrittura della Costituzione è chiamata ad affrontare la questione. Solo che bisognerebbe farlo «sine ira ac studio»: non diremo con atteggiamento scientifico, perché la politica ha le sue ragioni che non sempre la scienza giuridica riconosce, ma sì con una sufficiente distanza e consapevolezza storico-politica. E invece l’ondata di indignazione che si solleva travolge ogni cosa. In queste condizioni, quali distinzioni possono essere fatte valere? Basta la parola. Si chiama «privilegio» dunque è inammissibile. Concede immunità dunque è cosa odiosa e inaccettabile. E poi i politici sono tutti ladri. Ed è la casta che rialza la testa. Il lupo perde il pelo, eccetera. E infine, immancabile: non si può dare un segnale simile all’opinione pubblica.

Tutto giusto (o quasi). Ma tanto per dire: con gli stessi argomenti, con la stessa, ideologica determinazione, il Movimento Cinque Stelle, che vuole senz’altro l’abolizione dell’immunità parlamentare, farebbe bene a chiedere anche – già che c’è – l’abolizione del Parlamento, visto che celebra ed esalta la democrazia diretta e non ha, nelle proprie corde, alcuna sensibilità per la mediazione parlamentare, neppure come mera articolazione funzionale dei poteri dello Stato. La verità è che si vorrebbe poter dire, ad esempio, che il primo comma dell’articolo 68 della Costituzione è un gran bel comma, visto che protegge le opinioni espresse dai parlamentari nell’esercizio delle loro funzione. In fondo, è un privilegio pure questo. Quanto invece all’autorizzazione a procedere (ai commi successivi), la si abolisca pure, ma si conservi almeno memoria delle ragioni per cui un problema esiste: perché vi può essere un interesse generale dello Stato a contemperare il perseguimento di crimini con i beni tutelati dal privilegio parlamentare, in merito all’indipendenza e all’autonomia dell’organo. La scriviamo apposta così, un po’ difficile, perché si recuperi almeno un minimo di sensibilità istituzionale, lasciando fuori dalla porta la facile levata di scudi dell’indignazione, e soprattutto perché si torni a nutrire un rispetto genuino per le opinioni espresse, anche quando vanno contro il sentimento popolare.

Però, difficile o no che sia, sarebbe importante che si capisse bene: in discussione, prima ancora del merito, è il metodo, e persino il clima. E la possibilità di mettere mano alla materia senza passare per farabutti.  Questa possibilità è imparentata con quella cosa importante che si chiama libertà, anche se non tutti – bisogna ammetterlo – sembrano comprenderlo.

(L’Unità, 24 giugno 2014)

“Labirinto filosofico”. Cacciari torna alla metafisica

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I concetti filosofici, diceva Gilles Deleuze, sono firmati. L’«idea» è l’idea platonica, la «sostanza» è la sostanza aristotelica, il «cogito» è il cogito cartesiano e la «volontà di potenza» è la nietzscheana volontà di potenza. Tra i pochi pensatori che hanno oggi l’energia necessaria per firmare i propri concetti c’è Massimo Cacciari. L’«inizio» è, infatti, l’inizio di Cacciari, dall’uscita quasi venticinque anni fa del suo gran libro: «Dell’inizio», per l’appunto. A questo versante squisitamente metafisico delle ricerche cacciariane appartiene anche l’ultimo saggio, «Labirinto filosofico», apparso ora per Adelphi. Ed è degno di nota che l’Italia sia il paese in cui più forte sia oggi il «bisogno di metafisica». Per taluni, è il segno della solita arretratezza o del provincialismo italiano: in Italia il grido «Keine Metaphysik mehr!» («mai più metafisica!») della cultura positivistica e scientifica di metà ottocento non sarebbe mai risuonato con abbastanza forza. Per altri, è invece il segno della vitalità, o almeno della peculiarità della nostra tradizione filosofica, da sempre in concordia discors con la philosophia perennis. Scrivendo la voce «metafisica» per l’enciclopedia Treccani, Guido Calogero notava bene come l’idealismo di Croce e Gentile comportasse per un verso il rifiuto delle anticaglie metafisiche (scolastiche, razionalistiche, oggettivistiche), ma, per altro verso, la riproposizione «dei sommi problemi dell’ontologia e della gnoseologia». Il rifiuto si è riversato nell’indirizzo storicistico e pratico-politico di larga parte della filosofia italiana del dopoguerra. La riproposizione dei sommi problemi continua invece nel lavoro filosofico di Cacciari, ma anche di Emanuele Severino o di Vincenzo Vitiello.

Basterebbe peraltro la citazione che apre il saggio di Cacciari a indicare nel problema metafisico – nella domanda: che è l’ente?, che è la cosa? – il filo conduttore di queste ricerche: «Se la filosofia fosse vuoto formalismo si esaurirebbe in mezz’ora» (Hegel). E cioè: se non avesse una materia, se fosse mera combinazione di concetti, se fosse solo logica formale e metodologia applicata alle singole scienze non metterebbe conto occuparsene. La materia della filosofia, peraltro, non proviene da una qualche speciale rivelazione, ma proprio e soltanto dalla fertile bassura dell’esperienza – per dirla con Kant –, cioè dalla meraviglia inesauribile dell’incontro con l’ente. Con l’ente vuol dire: non con l’essere in generale, che è una vuota astrazione, ma proprio con questo ente qui, con la «cosa stessa», il cui «chiaro mistero», la cui singolarità sempre palese, sempre aperta e rivelata a tutti, rimane tuttavia a una distanza incolmabile, labirintica dalle parole che provano a dirla. Qui, insomma, è l’inizio, non da un’altra parte. E pensare, far filosofia, è percorrere sempre nuovamente la distanza dall’inizio che rimane incancellabile, l’oceano di parole in cui la cosa, questa cosa, non si risolve mai.

L’interesse del libro di Cacciari sta dunque in ciò, che il bimillenario labirinto costruito dal pensiero occidentale non viene abbandonato o fatto a pezzi, come in tanta parte della critica contemporanea. La quale procede di solito in due modi: o considera sbrigativamente che la metafisica sia solo un falso problema, da curarsi attraverso un uso sorvegliato delle parole e degli argomenti, oppure considera che sia (stato) un vero problema, legato però a un orizzonte storicamente determinato (e, anche, ormai superato). Non viene però il labirinto di Cacciari neppure trionfalmente dominato o vinto, come un enigma portato finalmente a soluzione. Viene anzi, al contrario, continuato in nuove vie e nuovi percorsi. «Che è l’essente? Fenomeno e noumeno». La congiunzione impedisce tanto il riduzionismo scientifico (vi sono soltanto fenomeni) quanto la metafisica ingenua (oltre questo mondo c’è un altro mondo: meta-fisico, appunto). Fenomeno è l’ente in quanto appare, si dà. Noumeno è tuttavia quello che, nel fenomeno (e non da un’altra parte, sotto un altro cielo), rimane puramente «pensato», indicato, congetturato, e non mai afferrato.

Questo volto eterno dell’ente Cacciari interpreta fin dal libro del ’90 come il Possibile, il non mai determinato né determinabile. Si può dire anzi che Cacciari rilegge con grande efficacia e suggestione i testi della tradizione filosofica non per altro che per difendere strenuamente e far risaltare la possibilità di questo Possibile – che è la possibilità stessa del pensiero. Per farlo, sia o no un segno dei nostri tempi grami, la compagnia che il pensiero di Cacciari sceglie e coltiva è sempre meno la politica o la storia, ormai disossate e di poco respiro, e sempre più il grande pensiero della metafisica e della teologia.

(Il Messaggero, 23 giugno 2014)

Le opinioni non si processano

ImmagineIncontrollata, incontrollabile, irresponsabile. E in più gode di piena immunità. Silvio Berlusconi usa queste espressioni per giudicare la magistratura italiana, ma siccome è la magistratura italiana a giudicare lui, rischia di andare incontro ad una nuova incriminazione. Ora, non vi è alcun dubbio che simili giudizi, resi per giunta nel corso di una testimonianza in tribunale, a Napoli, nel corso del processo Lavitola, possono riuscire come minimo inopportuni. Anzi: lo sono senz’altro. È abbastanza evidente che nessun comune cittadino, portato dinanzi a un giudice o a un pubblico ministero, userebbe queste parole. Per una comprensibile misura di prudenza, per una semplice cautela, ma anche per rispetto ai luoghi e alle forme in cui si amministra la giustizia in Italia. In quanto poi è un uomo pubblico, che ha avuto gravose responsabilità di governo, Silvio Berlusconi sarebbe forse tenuto ad un rispetto anche maggiore, nel senso almeno che, in paesi più o meno simili al nostro per storia e per cultura politica e giuridica, non ci si aspetta da un ex-primo ministro che esterni simili considerazioni sull’ordine giudiziario. In quanto, infine, è stato condannato in via definitiva, ed è tuttora sottoposto a misure restrittive, sarebbe forse meglio per lui se fosse più guardingo, meno irruente, e seguisse i consigli esperti degli avvocati che lo invitano a smorzare i toni.

E però, ora che le abbiamo dette tutte, possiamo anche dire che l’eventuale incriminazione di Silvio Berlusconi per le parole usate ieri ci appare un’enormità. Una cosa che, forse, avrebbe il solo significato di confermare Berlusconi nel suo giudizio, e insieme con lui anche larghi settori dell’opinione pubblica. Che sa di poter parlare e sparlare di chiunque, dal Presidente della Repubblica in giù, ma non invece dei magistrati, che peraltro si rivelano sempre particolarmente solerti nel reagire.

I giuristi ci spiegheranno come, nel caso si procedesse, non si tratterebbe che di applicazione del codice, e sicuramente sarà così: Berlusconi stia perciò attento. E però nessun codice può reprimere la manifestazione di un’opinione, la seguente: in simili circostanze pare proprio che sul perseguimento della giustizia prevalga – e prevalga di gran lunga – la difesa miope del tocco e dell’ermellino, cioè lo spirito corporativo e una fortissima idiosincrasia alle critiche.

Berlusconi ha un’opinione sul funzionamento della giustizia in Italia, e sulle sue vicende processuali: condivisibile o no che sia, è la sua opinione. Non gliela si può far cambiare minacciando di incriminarlo, oppure ventilando la possibilità che gli venga tolto l’affidamento ai servizi sociali. Né gli si può chiedere di starsene buono, zitto e muto. Non solo perché la manifestazione delle opinioni è un diritto fondamentale, ma perché l’opinione di Berlusconi sulla giustizia è una cosa sola col contenuto della sua azione politica: sua e di larga parte del centrodestra, da vent’anni a questa parte. Berlusconi lo va ripetendo dal ’94, sin dal primo avviso di garanzia, e non ha cambiato idea: gliela si vuol togliere di bocca ora a colpi di incriminazioni e condanne? E come si farà quando ne trarrà nuovo motivo per dirsi vittima di una persecuzione?

Cosa conterrebbe poi di così intollerabilmente offensivo la dichiarazione in questione? Che la magistratura sia incontrollata o incontrollabile potrebbe persino essere un complimento, un modo per richiamarne l’indipendenza, anche se ovviamente non era questa l’intenzione del Cavaliere. Quanto a irresponsabilità e impunità, basterebbe dire che solo la settimana scorsa si è votato in Parlamento sulla responsabilità civile dei giudici, per modificarne i termini, segno che la materia è perlomeno sul tavolo della politica, e oggetto di discussione. E in ogni caso l’esiguità dei procedimenti a carico dei magistrati per mala giustizia è indice vistoso che la situazione è, nei fatti, molto vicina a quella descritta dagli aggettivi di Berlusconi.

Ma in fondo non si tratta nemmeno di questo. Il Cavaliere ha usato altre volte termini assai più pesanti, a volte davvero inaccettabili. E i magistrati hanno potuto respingere con sdegno le accuse, raccogliendo ampie solidarietà, anche in considerazione della delicatezza delle loro funzioni e della pericolosità di una delegittimazione complessiva dell’ordine giudiziario. Ma questo è appunto il piano sul quale va condotto il confronto: il piano politico, sul quale peraltro l’opinione della magistratura associata arriva forte e chiara, senza nessun bisogno di corroborarla sanzionando come oltraggiose le opinioni contrarie. È così difficile, allora, per i pm napoletani essere pazienti, accettare qualche critica, mostrare più garbo, e tirare dritto, senza raccogliere provocazioni?

(Il Mattino, 21 giugno 2014)

Se il diritto è double face

ImmagineIndividuato l’assassino di Yara Gambirasio (soddisfazione). Il presunto assassino, intendo dire (prudenza, precauzione, morso della lingua). Messa così, fra la soddisfazione e la precauzione con cui si precisa che, al momento, si tratta solo di una colpevolezza presunta, perché fino all’ultimo grado di giudizio nessuno è colpevole, messa così la cosa il ritardo è minimo: giusto il tempo di una proposizione. Angelino Alfano, ministro dell’Interno, ha impiegato invece diciotto ore circa. Ha prima twittato giulivo che l’assassino è stato individuato, ringraziando forze dell’ordine e magistratura. Poi – ma molto, molto poi, praticamente il giorno dopo – ha scritto in un secondo twit che, ovviamente, la presunzione di innocenza vale per tutti. Figuriamoci, si può aggiungere, se non debba valere per chi si trovava, al momento del giubilo di Alfano, ancora solo in stato di fermo, e in attesa della convalida dell’arresto. Ma sono sottigliezze. Quel che conta è il risultato e, come ha detto il ministro, l’opinione pubblica deve sapere. Dimenticandosi di avvertire che quel che deve sapere non è nient’altro che la verità, cioè che c’è un fermo per il caso di Yara, non che l’assassino è stato preso, perché per quello anche l’opinione pubblica più impaziente di avere tra le mani il colpevole (e anzi soprattutto quella) deve aspettare ancora.

L’intervallo delle diciotto ore misura così il non brillante tempo di reazione di Alfano, quando gli mettano innanzi non la vicenda in cui è coinvolto un compagno di partito, o magari il Presidente Silvio Berlusconi, ma un bel caso insoluto di omicidio, che ha suscitato grande eco mediatica, e nel chiudere il quale, mettendoci la faccia e diramando un comunicato, si può lucrare un particolare compiacimento. Per tenere conto dell’intervallo in questione, e del modo in cui il ministro Alfano lo occupa, si potrebbe aggiungere un comma all’articolo 27 della Costituzione. In questo modo: «Comma 2. L’imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva. Comma 3. Può però essere dichiarato senz’altro colpevole nelle diciotto ore immediatamente seguenti al suo arresto, scadute le quali è ripristinato il principio di non colpevolezza di cui al comma precedente».

Solo un infortunio, si dirà, ed è vero. Ma parte il fatto che non è il primo infortunio in cui incorre il Ministro dell’Interno, purtroppo, sta il fatto che la gaffe è rilevatrice di una maniera troppo disinvolta di considerare il diritto, i suoi principi, le sue garanzie fondamentali. Di solito questa disinvoltura si traduce nella velocità fulminea e pelosetta con la quale dopo un arresto eccellente si ricorda prima il principio, e solo dopo, se proprio non se ne può fare a meno, si rammentano anche i fatti contestati; questa volta invece si è trattato, all’opposto, di mettere quel principio semplicemente da parte, come un «gargarismo che non c’entra niente», come direbbe Marco Travaglio.

E invece c’entra. E c’entra particolarmente in un caso come quello di ieri: al di là degli elementi di prova raccolti, infatti, il caso si segnala per l’emozione profonda suscitata dall’assassinio della tredicenne, e per gli sforzi finora sempre frustrati di trovare il colpevole. Le parole con cui Alfano ha cercato di giustificarsi, richiamandosi al diritto dell’opinione pubblica di sapere, costituiscono se mai un aggravante. Perché quella di venir incontro a una domanda dell’opinione pubblica è un’esigenza sacrosanta: della politica, però, non della giustizia. Quest’ultima anzi deve guardarsene bene, perché quanto maggiore è la pressione popolare tanto maggiore deve essere la prudenza, il riserbo, l’osservanza delle forme e delle procedure. Il procuratore di Bergamo lo sa, e infatti ha espresso forte disappunto per come è stato dato l’annuncio della soluzione del caso, «anche a tutela dell’indagato». Qualificandolo subito come assassino, Angelino Alfano si è dimenticato qualunque tutela. Per diciotto ore. Poi ha detto che lui è uno che ci crede particolarmente alla presunzione di innocenza. Auguriamoci allora che la prossima volta, visto che ci crede, riesca almeno a dimezzare il suo tempo di reazione e a darci la correzione del tiro in otto, nove ore al massimo.

(L’Unità, 18 giugno 2014)             

La generazione che ha perso fiducia e ideali

ImmagineIl legno storto dell’umanità. «Da un legno così storto come quello di cui è fatto l’uomo, non si può costruire nulla di perfettamente dritto». Se è così, se l’uomo è fatto così, allora come può bastare il vocabolario del diritto a tenere insieme una società? E infatti non basta. Ma chi si è inventato la metafora del legno storto pensava di avere comunque tra le mani qualche fascina di legno sano, anche se non proprio dritto. E invece leggi le cronache napoletane che raccontano di come si possa condurre la vita tra Chiaia e Posillipo, di medici e avvocati, imprenditori e gioiellieri che un po’ consumano e un po’ spacciano, un po’ si divertono e un po’ si annoiano, e ti viene il dubbio che con questa mediocre borghesia cittadina non puoi costruire proprio nulla di buono.

Ma non voglio moraleggiare. Per evitare i facili moralismi, rileggo qualche pagina della teoria delle classi agiate di un pensatore irregolare  come Thorstein Veblen. Lì trovo che più o meno in ogni società si distinguono certi gruppi che marcano la loro differenza dalle classi lavoratrici in molti modi, e tra questi rientra senz’altro il «consumo vistoso». Le classi inferiori praticano una forzosa continenza; la casta superiore si permette invece lo scialo ed il festino. Però Veblen aggiunge: «Strettamente connessa con l’esigenza che il gentiluomo deve consumare beni liberamente e del genere più squisito, c’è l’esigenza  che egli deve saperli consumare in modo conveniente». E «conveniente» non significa nulla di moralistico, ma semplicemente: in maniera conforme al proprio rango, al proprio gusto, al proprio senso estetico. Ora, che fine ha fatto questa seconda esigenza? Come rintracciarla nel professionista benestante che fa la spesa di narcotici «pe’ tutt’ quant’», e non si limita a consumare ma si prende anche la fatica di spacciare? Come farla valere se a volte, nell’oscurità della notte, Posillipo finisce con l’assomigliare a Scampia, come ha raccontato su questo giornale Pietro Treccagnoli? E cosa vuol dire il fatto che quella esigenza non sia più riconoscibile, che le due Napoli si sono mescolate a un punto tale che non vale più l’adagio «quale il padrone, tale il servo» – non però perché non vi sono più padroni, ma perché non vi sono che servi? Nel suo editoriale di ieri, Alessandro Barbano ha chiamato in causa «l’incontro mancato tra la borghesia e i doveri». E ormai si può dire: non solo a Napoli, e forse non più a Napoli di quanto non accada a Venezia, all’ombra del Mose, o a Milano, dietro le ruspe dell’Expo. Manca la tenuta morale, manca il senso del dovere, e tutto si risolve in termini di rivendicazione di diritti, e di diritti soggettivi, che slegati da ogni responsabilità collettiva, perdono ogni ancoraggio in un possibile compito pubblico, in qualcosa come un ethos condiviso, o in una missione storico-nazionale e infine – perché no? – in un senso di patria.

C’è del vero, in questa disamina. E però vorrei dire così: a noi, all’Italia, Mazzini non è mancato. Non è mancato prima Alfieri, poi Foscolo, e poi Mazzini. Non è mancato l’idealismo romantico. Non è mancato chi ha scritto dei doveri dell’uomo, per infiammare la giovine Italia e spronarla all’azione. È mancato al contrario un senso di spregiudicatezza nel ricercare e nel perseguire la modernità non solo come il terreno gretto dell’utile, ma come il terreno operoso della virtù. Ed anche dell’individuo – il vero fiore all’occhiello della modernità – è forse mancato non il contrappeso, che ne contenesse i desideri e gli egoismi, ma il prolungamento. Non è vero infatti che individuo e società, privato e pubblico siano termini opposti, così che a premiare l’uno si debba penalizzare l’altro. Ogni individuo, in quanto è un cittadino, non può non aver fiducia di incontrare, in fondo alla propria autorealizzazione, alla propria emancipazione, quella di tutti. Il presentismo, che ci ricaccia in un consumo privo di prospettiva e di senso, è la malattia di chi ha perso questa fiducia. E forse non un eccesso di diritti, ma un eccesso di sfiducia sta dietro l’imprenditore annoiato che non trova di meglio di una striscia di coca per legare una giornata all’altra. Ritrovarla, però, è impresa tutt’altro che semplice. E in una città come Napoli lo è ancora meno.

(Il Mattino, 16 giugno 2014)

Un altro segno di cambiamento

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E a settembre la legge sulle unioni civili. All’assemblea nazionale di sabato, Renzi ha confermato che intende procedere nella direzione indicata dapprima durante le primarie, e poi nel discorso per la fiducia in Parlamento: la civil partnership, sul modello tedesco. Di mezzo tra le prime dichiarazioni e quelle rese sabato scorso sta il dato elettorale, quel 40,8% che Renzi intende considerare come «un punto di partenza per cambiare davvero l’Italia». E fare una legge sulle unioni civili significa davvero cambiare. Farlo poi dopo il voto del 25 maggio scorso significa mettere la sordina a un bel po’ di reazioni che a inizio d’anno punteggiarono le prese di posizioni di quello che allora era solo il nuovo segretario del Pd: i prudenti distinguo di Alfano, i «non possumus» di Giovanardi, i possibilismi di Schifani, i trombonismi di Formigoni. Nel merito, Renzi non ha indicato i contenuti dell’iniziativa parlamentare ma per il momento c’è l’indicazione di una chiara volontà politica: su un terreno sul quale l’Italia accusa un ritardo impressionante rispetto agli altri paesi europei, ci sarà una legge. Una legge che dia alle coppie conviventi – ivi comprese le persone dello stesso sesso – diritti degni di un Paese civile. Ovviamente non mancano i punti ancora controversi, a cominciare dalla possibilità per le coppie di adottare, ma per una volta, come si dice, lasciamo che a prevalere sia il dato politico. Cioè la direzione di marcia. Perché è vero: c’è un elenco imbarazzante di cose da fare, e molte di queste si fanno solo se c’è una forza politica sufficiente a sostenere il peso della mediazione necessaria e a rivendicare il passo avanti che può comportare. Nello stilare l’elenco, Renzi ha messo in fila: la riforma della legge elettorale, la riforma della pubblica amministrazione, la riforma della giustizia, la riforma del servizio pubblico radiotelevisivo, la sfida educativa, una nuova legge sulle infrastrutture, un nuovo impegno europeo sull’immigrazione, norme di semplificazione fiscale, e sicuramente dell’altro ancora. Su tutti questi punti non è difficile immaginare linee di resistenza più o meno robuste. Quel che però verrà giudicato non più accettabile è che non ci si assuma la responsabilità di affrontare tutti questi nodi per il prevalere di opposizioni esplicite o striscianti, veti incrociati, corporativismi. Questo non significa affatto che, in tutte queste materie, qualunque legge è meglio di nessuna legge, o che avrà il pregio di chiamarsi riforma qualunque intervento legislativo modifichi le cose, in qualunque direzione vada. Per questo, ci vorranno il partito e i gruppi parlamentari, le sedi di elaborazione, di discussione e di confronto, la congruenza fra gli ideali di una sinistra democratica, ben ancorata al socialismo europeo, e l’attività parlamentare e di governo. Ma il voto di maggio offre a tutti una cartina di tornasole su cui valutare l’impegno del partito democratico, della maggioranza e del governo di qui alle prossime elezioni. Renzi ne è assolutamente consapevole.

Ma questa situazione offre forse anche l’opportunità per una piccola considerazione di sistema. Renzi ha in Parlamento la stessa maggioranza uscita dalle urne un anno fa. Il risultato alle Europee non gli ha portato un solo voto in più nel Parlamento nazionale. E tuttavia la sua forza è enormemente accresciuta, così come la sua legittimazione a governare. Vale a dire: i numeri contano, ma torna a contare anche la politica. In fondo, il tema delle unioni civili è un tema delicato, che smuove sensibilità profonde, ma che tocca anche diritti sacrosanti per troppo tempo calpestati e negletti. Su una simile materia, anche quando si sono profilati almeno idealmente schieramenti parlamentari sufficientemente ampi, non si è avuta in passato la forza di fare una legge. Ora che al governo continua ad esservi una coalizione che include pezzi di centrodestra, i quali hanno comunque un peso determinante in un ramo del Parlamento, l’investimento compiuto dal Paese con quella cifra, il 40,8%, che all’improvviso ha quasi raddoppiato la dimensione elettorale del partito di maggioranza, contiene un mandato politico tanto chiaro e forte da obbligare Renzi a sfogliare con rapidità e determinazione i petali delle riforme, anche su terreni controversi.

Certo, conta anche una diversa maturità del Paese. Contano i pronunciamenti della Corte Costituzionale. Quando essa ad esempio interviene, come è accaduto di recente con una sentenza storica, per dichiarare illegittima la norma  che annulla le nozze nel caso in cui uno dei due coniugi cambi sesso, è chiaro che sancisce nel più formale dei modi il cambiamento avvenuto. Quell’uomo e quella donna rimarranno legati dal vincolo matrimoniale nonostante la coppia sarà formata da due individui dello stesso sesso: come è possibile allora non includere d’ora in poi nel nostro ordinamento giuridico le nozze gay? La sentenza fa rilevare peraltro proprio l’assenza di alcun’altra forma di vincolo che, nella nuova condizione intervenuta, tuteli i diritti e gli obblighi della coppia. Come dire: il Parlamento deve legiferare e darci quell’altra forma di vincolo che finora non si è riusciti a configurare giuridicamente, limitandosi al più a riconoscere situazioni di fatto nei registri comunali (e non senza inciampi anche in quei casi). Tutto questo, si diceva, conta. Ma ancora di più conta il fatto che adesso c’è una forza politica che ha titoli sufficienti non solo per fare la legge, ma per intestarsi finalmente questa battaglia come una battaglia di progresso. O forse, visto che c’è ancora timidezza ad usare (o tornare ad usare) la parola «progresso», per uscire finalmente da una storica arretratezza.

(L’Unità, 16 giugno 2014)

Se l’indipendenza diventa immunità

ImmagineSette voti di scarto – sette voti a scrutinio segreto – e il governo viene battuto alla Camera sul tema della responsabilità civile dei giudici. Renzi dall’Asia prova a minimizzare: gli incidenti di percorso ci sono sempre stati, dice, ed è vero. Ma la giustizia è materia troppo delicata perché il voto di ieri non risvegli sensibilità, susciti preoccupazioni, e sopratutto indichi esigenze non più differibili.

La responsabilità civile dei giudici è sul tavolo della politica dal referendum promosso negli anni Ottanta dai radicali. Il referendum fu vinto, e in conseguenza del suo esito fu introdotta nell’88 la legge Vassalli che prevedeva finalmente un regime di responsabilità per i magistrati. Quel regime, tuttora vigente, si fonda su alcune limitazioni dell’azione di risarcimento: il cittadino non può intentare l’azione risarcitoria direttamente contro il magistrato, la legge limita l’ammontare del risarcimento, i casi in cui il procedimento può essere avviata sono limitati, e comunque non devono toccare le attività di interpretazione delle norme e di valutazione dei fatti, su cui la discrezionalità del magistrato deve rimanere intatta.

Si tratta di un regime speciale di responsabilità, che trova la sua giustificazione nella delicatezza della funzione giurisdizionale esercitata dai magistrati. Il risultato è però che, in un quarto di secolo, si contano sulle dita di una mano i casi in cui questo sistema ha investito davvero la responsabilità civile dei magistrati. Vale a dire: il sistema non funziona.  C’è poco da fare. Naturalmente non è l’unica cosa che non funziona, nei tribunali e nelle procure italiane. Ma ciò non toglie che un intervento era ed è necessario, anche perché la stessa Corte di giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata in merito, costringendo il nostro Paese ad avviare una ridefinizione della materia.

E siamo così al voto di ieri. E all’emendamento, approvato contro il parere di relatore e governo, che mette il cittadino in condizione di esercitare un’azione diretta contro il magistrato. Il voto però si colloca non solo a valle della storia che abbiamo raccontato, ma anche nel bel mezzo di un fronte assai aspro di polemiche. Basti vedere le reazioni: la Lega, presentatrice dell’emendamento, esulta. Esulta anche Forza Italia. Pezzi di opinione pubblica, invece, tirano in ballo la volontà della politica di vendicarsi delle clamorose inchieste in corso sulla corruzione: quasi un avvertimento mandato ai magistrati, perché non si spingano troppo in là. Quanto al Pd e alla maggioranza, manifestano un forte imbarazzo. Perché l’emendamento non sarebbe passato senza il voto di un numero consistente di democratici, e tuttavia, salvo l’eccezione del deputato Giachetti, non c’è nessuno che osi rivendicare il risultato. E anche i Cinque Stelle, astenendosi, hanno mostrato come minimo di non avere le idee chiare sulla questione, e di sapersene solo lavare le mani.

Il fatto è che, senza un chiaro giudizio storico-politico su cosa è stato il rapporto fra politica e magistratura negli ultimi vent’anni, si continuerà a procedere così, per strappi e imboscate, sospetti e manovre, senza chiare assunzioni di responsabilità. Non v’è dubbio che l’indipendenza della magistratura sia infatti un bene prezioso da tutelare, un bene costituzionale e non un odioso privilegio, come ha giustamente ricordato il Presidente Napolitano; ma non v’è dubbio altresì che i magistrati godano oggi di qualcosa di più che non l’indipendenza: godono di fatto di un’immunità quasi completa. Per mettere però mano a una materia così delicata, per far valere principi di diritto che appartengono ai paesi di più avanzata cultura giurisdizionale, per prevedere azioni più efficaci di risarcimento senza ledere autonomia e indipendenza, per riequilibrare i rapporti fra le parti del processo, e, su un piano più generale, quelli fra poteri dello Stato, ci vuole ben altro che lo spirito punitivo insufflato nell’emendamento leghista, e qualche esultanza scomposta dopo la brutta figura della maggioranza.

Tra poche settimane il ministro della Giustizia Andrea Orlando presenterà un progetto di riforma, che mira anzitutto a restituire efficienza al sistema della giustizia, e certezza al diritto. Siamo un paese dove è più conveniente essere debitori che creditori: prima che intervenga la giustizia, campa cavallo. Ciò detto, ci aspettiamo che insieme agli aspetti di razionalizzazione e riorganizzazione della giustizia, un grande dibattito politico-parlamentare, di natura costituente, mostri al Paese in qual modo si intenda provare – provare almeno – a curare le gravi patologie della giustizia italiana, senza nascondere la testa sotto la sabbia, e senza neppure volerle tagliare sommariamente.

 (Il Mattino, 12 giugno 2014)

Non lasciare i popoli ai populisti

ImmagineLa più grande responsabilità che incombe sul partito democratico e su Matteo Renzi è dare significato alla parola democrazia. Ma non per le ragioni che qua e là sono state addotte, in questi primi mesi a guida Renzi: perché ad esempio la via intrapresa dalle riforme istituzionali nasconderebbe un sottostante pericolo autoritario; oppure perché l’accentuazione della leadership di Renzi ridurrebbe gli spazi di dialettica e di confronto. Con tutto il rispetto per simili discussioni – che a volte rivelano preoccupazioni reali, ma più spesso paiono sollevate pretestuosamente – non si tratta di nulla del genere. Si tratta invece di una cosa che viene da lontano.

Qualcuno dice persino che tutto il XX secolo, che è il secolo della democrazia di massa, è anche, contemporaneamente, il secolo della sua crisi, come se l’ordinamento politico democratico fosse cioè sempre minacciato dalla possibilità di rovesciarsi nel suo contrario. Questa minaccia appare oggi lontana, ma lo è meno di quanto comunemente si ritiene. Certo, crisi o non crisi, la vita procede in maniera abbastanza ordinata: le auto girano, le scuole e gli ospedali funzionano, i negozi sono aperti. Il lavoro però manca, soprattutto al Sud, e il sistema economico fa fatica. Ma è soprattutto l’area della fiducia, il sentimento di adesione, l’investimento di senso nella trama legale degli ordinamenti giuridici vigenti che va sensibilmente riducendosi. La fonte ultima di legittimità di questi ordinamenti è infatti meno limpida, meno visibile di un tempo. E a questa opacità non è estranea ovviamente, la costruzione europea, i cui punti alti di rappresentanza appaiono decisamente sfocati agli occhi dell’opinione pubblica, che continua a vedere nettamente in primo piano la Banca centrale, i governi nazionali, e poco altro. Il voto del 25 maggio mostra quanto l’affanno delle democrazie investa l’intero spazio dell’Unione. E lancia così una sfida decisiva. La sfida non è tuttavia tra i due schieramenti che paiono delinearsi: da una parte l’europeismo dei diritti e delle libertà, dall’altra l’antieuropeismo delle formazioni populiste e nazionaliste. O per meglio dire: questa sarà pure la sfida, ma se la si gioca così, in questi termini, lasciando che si scontrino da un lato le ragioni ideali del diritto, dall’altro quelle reali dei popoli; da un lato, l’altruismo di una morale universalistica, dall’altro l’egoismo delle politiche nazionali, particolaristiche; da un lato la certezza formale delle regole, dall’altro le pulsioni imprevedibili della vita reale, ebbene: questa sfida non sarà facile vincerla. Meglio saperlo; meglio non farsi troppe illusioni. Per non dover sgranare troppo gli occhi scoprendo che nelle urne si ingrossa il consenso delle destre nazionaliste, delle formazioni reazionarie, o anche solo di forze politiche euroscettiche. Che cosa questi partiti politici vogliono, infatti, si capisce. Che cosa vogliono invece i tradizionali partiti europeisti, no. Politiche di bilancio rigorose: d’accordo. Un maggior coordinamento delle politiche fiscali: va bene. Ma poi? Che cosa dicono oggi che miri più in alto di una difficile linea di galleggiamento dell’Unione? Che cosa dicono, che parli davvero ai popoli europei? Se non si modificano i termini della partita, se europeismo significa rimanere a guardia di vincoli, compatibilità, regole – magari allentandoli un po’, ma senza avvertire il bisogno di gettare fondamenta nuove – allora la sfida, torniamo a dirla, non sarà facile vincerla.

Perciò daccapo: dare nuovamente significato alla parola democrazia è la più grande responsabilità. Il risultato del Pd, e il semestre italiano di guida dell’Unione, devono saperla assumere. Perché non abbiamo altro modo di cominciare, non abbiamo altro inizio, che non provenga da lì: dalla energia del demos. Dalla sua forza di dichiararsi ed esserci. Se l’Europa che occorre difendere è l’Europa liberal-democratica, domandiamoci una buona volta, insomma, se quello che ad essa manca sta dal lato della libertà, o dal lato della democrazia. Se abbiamo bisogno di piccole dosi di liberalismo, o di robuste iniezioni di democrazia. Se abbiamo cioè bisogno di atti che inventino daccapo le condizioni alle quali l’Europa è unita. Un’unione non può procedere solo per minimi accordi tra governi, senza mai mettere i popoli che quei governi rappresentano dinanzi al loro destino politico. I popoli sono una cosa troppo importante perché li si possa lasciare ai populisti.

(Il Mattino, 2 giugno 2014)