Non vi sono solo quelli che si dispiacciono per la sospensione delle pubblicazioni del giornale. E per l’incomprensibile chiusura del sito. Ci sono pure quelli che brindano, e quelli che se la cavano, più laicamente (dicono), con un’alzata di spalle. E gli uni e gli altri non è detto affatto che siano soltanto tra coloro i quali non hanno mai accompagnato la vita del giornale, o la sinistra che questo giornale ha rappresentato: si trovano anche di quelli che invece no, qualche pezzo di strada insieme lo hanno fatto, e però ora sfoderano due argomenti. Il primo: un giornale deve stare sul mercato, se non ce la fa si chiude e amen. Il secondo: se il pubblico vi ha lasciato vi sarà un motivo, e il motivo è che la sinistra non si sente più rappresentata dall’Unità. Inutile quindi che tiriate su l’icona del fondatore, gli occhialini e tutto quanto: vi avrebbe lasciato anche lui, anche Gramsci.
Ora, io penso che entrambi gli argomenti non colgano il segno. Quanto al primo: c’è chi dice che non si capisce perché lo Stato debba metterci i soldi (col finanziamento pubblico all’editoria). Io invece lo capisco, penso anzi che rientri nei compiti dello Stato quello di contribuire a tenere viva la varietà delle voci della pubblica opinione; e difendo il principio, per quanto storte possano essere state le applicazioni. Lo difendo persino nel caso tanto deprecato del finanziamento pubblico ai partiti, così come penso che un partito è tale anche (non solo ma anche) perché si impegna sul fronte dell’informazione, della comunicazione, della formazione. E poi non penso affatto che non vi sia spazio sul mercato per un giornale come l’Unità: a condizione però di volerlo cercare. Oggi non si legge di meno: si legge di più. Non si deve confondere il mutamento degli abiti di lettura con la loro fine.
Non condivido neppure il secondo argomento. Invidio coloro i quali vogliono spiegare all’Unità dove sta la sinistra oggi: hanno certezze che io non ho. E che forse non hanno gli stessi elettori. Certo, non accade più che ci si senta di sinistra perché si compra l’Unità, ma ciò non toglie che chi compra l’Unità si considera di sinistra (figuriamoci quelli che ci scrivono). Quelli poi che hanno in testa una certa idea di sinistra che non trovano sulle colonne del giornale, di solito ne danno una rappresentazione talmente minoritaria che ben difficilmente può valere come la soluzione. Poi valgono tutte le critiche alle confusioni ideologiche di questi anni, e alcune le condivido anche, ma questo è il terreno da esplorare, non quello da sgombrare.
Ora, non ho scritto volutamente un pezzo sull’importanza di una voce come l’Unità, e sulla perdita che la sua chiusura rappresenta nel panorama dell’informazione oggi. Non l’ho fatto perché ho preferito ragionarne un po’ (poco, negli spazi dati). Credo infatti che la più profonda attitudine del giornale fosse divenuta questa: ragionare criticamente, pacatamente, liberamente. Ma ragionare. Per il resto (e non è un resto: è tanto, quasi tutto), mi basta rimandare alle storiche prime pagine del giornale, tutti le conosciamo ma c’è da visitare un ricchissimo archivio storico che è sempre disponibile sul sito, sempre che non venga reso inaccessibile pure quello, e ancora di più basta rimandare alle foto di compagni e militanti – quelli a cui Di Vittorio aveva insegnato a non togliersi il cappello davanti al padrone – che lo leggevano nelle bacheche delle sezioni, e lo portavano con orgoglio nella tasca o sotto il braccio. Quelle bacheche quasi non ci sono più, e questo però – mi sia consentito – non è un problema solo per il giornale.