Archivi del giorno: luglio 31, 2014

I cattivi argomenti di mercatisti e indifferenti

Acquisizione a schermo intero 31072014 160327.bmpNon vi sono solo quelli che si dispiacciono per la sospensione delle pubblicazioni del giornale. E per l’incomprensibile chiusura del sito. Ci sono pure quelli che brindano, e quelli che se la cavano, più laicamente (dicono), con un’alzata di spalle. E gli uni e gli altri non è detto affatto che siano soltanto tra coloro i quali non hanno mai accompagnato la vita del giornale, o la sinistra che questo giornale ha rappresentato: si trovano anche di quelli che invece no, qualche pezzo di strada insieme lo hanno fatto, e però ora sfoderano due argomenti. Il primo: un giornale deve stare sul mercato, se non ce la fa si chiude e amen. Il secondo: se il pubblico vi ha lasciato vi sarà un motivo, e il motivo è che la sinistra non si sente più rappresentata dall’Unità. Inutile quindi che tiriate su l’icona del fondatore, gli occhialini e tutto quanto: vi avrebbe lasciato anche lui, anche Gramsci.

Ora, io penso che entrambi gli argomenti non colgano il segno. Quanto al primo: c’è chi dice che non si capisce perché lo Stato debba metterci i soldi (col finanziamento pubblico all’editoria). Io invece lo capisco, penso anzi che rientri nei compiti dello Stato quello di contribuire a tenere viva la varietà delle voci della pubblica opinione; e difendo il principio, per quanto storte possano essere state le applicazioni. Lo difendo persino nel caso tanto deprecato del finanziamento pubblico ai partiti, così come penso che un partito è tale anche (non solo ma anche) perché si impegna sul fronte dell’informazione, della comunicazione, della formazione. E poi non penso affatto che non vi sia spazio sul mercato per un giornale come l’Unità: a condizione però di volerlo cercare. Oggi non si legge di meno: si legge di più. Non si deve confondere il mutamento degli abiti di lettura con la loro fine.

Non condivido neppure il secondo argomento. Invidio coloro i quali vogliono spiegare all’Unità dove sta la sinistra oggi: hanno certezze che io non ho. E che forse non hanno gli stessi elettori. Certo, non accade più che ci si senta di sinistra perché si compra l’Unità, ma ciò non toglie che chi compra l’Unità si considera di sinistra (figuriamoci quelli che ci scrivono). Quelli poi che hanno in testa una certa idea di sinistra che non trovano sulle colonne del giornale, di solito ne danno una rappresentazione talmente minoritaria che ben difficilmente può valere come la soluzione. Poi valgono tutte le critiche alle confusioni ideologiche di questi anni, e alcune le condivido anche, ma questo è il terreno da esplorare, non quello da sgombrare.

Ora, non ho scritto volutamente un pezzo sull’importanza di una voce come l’Unità, e sulla perdita che la sua chiusura rappresenta nel panorama dell’informazione oggi. Non l’ho fatto perché ho preferito ragionarne un po’ (poco, negli spazi dati). Credo infatti che la più profonda attitudine del giornale fosse divenuta questa: ragionare criticamente, pacatamente, liberamente. Ma ragionare. Per il resto (e non è un resto: è tanto, quasi tutto), mi basta rimandare alle storiche prime pagine del giornale, tutti le conosciamo ma c’è da visitare un ricchissimo archivio storico che è sempre disponibile sul sito, sempre che non venga reso inaccessibile pure quello, e ancora di più basta rimandare alle foto di compagni e militanti – quelli a cui Di Vittorio aveva insegnato a non togliersi il cappello davanti al padrone – che lo leggevano nelle bacheche delle sezioni, e lo portavano con orgoglio nella tasca o sotto il braccio. Quelle bacheche quasi non ci sono più, e questo però – mi sia consentito – non è un problema solo per il giornale.

(L’Unità, 31 luglio 2014)

No alla trappola antisemita

Acquisizione a schermo intero 31072014 152012.bmpLa terribile sequenza di morte che segna queste giornate nella striscia di Gaza non accenna a interrompersi. La scuola dell’ONU colpita nella notte di martedì ha segnato una nuova escalation, anche se per il governo israeliano era uno dei molti luoghi in cui Hamas nasconde le armi. Ieri, bombe sono cadute anche sul mercato. I palestinesi morti si contano ormai a migliaia. Anche Israele ha avuto perdite, seppure in misura molto minore. Ma vive sotto l’incubo dei razzi, e bombarda Gaza per la sua sicurezza, benché non sia affatto sicuro che l’operazione in corso le stia effettivamente procurando un maggior «margine di protezione». Un tempo, comunque, si diceva: il mondo segue con preoccupazione il precipitare degli eventi. Oggi invece, nonostante la drammaticità della situazione, non solo l’attenzione della comunità internazionale, ma anche la retorica con la quale le si dà rappresentazione presso la pubblica opinione si è affievolita. Nonostante le vittime, nonostante la disperazione. Ciò dipende forse dal fatto che vi sono forti tensioni fra le maggiori potenze mondiali anche in altre parti del mondo: vedi Ucraina. E forse anche dal fatto che gli stessi scenari nell’area mediorientale si sono complicati, dalla primavera araba in poi, e la causa palestinese non è più così centrale come in passato: vedi i cambi di regime in Egitto, e la nascita del Califfato islamico tra Siria e Iraq.

E però una cosa sembra tornare uguale, ad ogni nuovo scoppio del conflitto: i ributtanti rigurgiti di antisemitismo che il conflitto isrelo-palestinese provoca. Gli stereotipi, i cascami ideologici, i rimasugli e le scorie mai digerite di storie passate, ormai finite da un pezzo, che però sopravvivono ancora, sempre. Impermeabili ai torti e alle ragioni. I manifesti apparsi sui muri di Roma, le svastiche, le scritte antisioniste, ne sono purtroppo la triste dimostrazione. E non c’entrano nulla con le critiche (legittime) alla politica di Bibi Netananyu, che provengono ormai esplicitamente anche dall’amministrazione Obama, e nemmeno con le vittime della guerra, che sono sempre troppe, anche quando fossero poche. Ma vittime ne fanno anche il conflitto russo-ucraino, o il jihadismo in Iraq, eppure questi conflitti non liberano nell’aria gli stessi miasmi, non mettono in circolo gli stessi, terribili fantasmi.

Che purtroppo allignano sia a destra che a sinistra, in una combinazione che fece scrivere a Vladimir Jankélévitch, filosofo ebreo di origine russa e lingua francese, singolare figura di intellettuale, partigiano e engagé: «L’antisemitismo è la trovata miracolosa, l’occasione provvidenziale che riconcilia la sinistra anti-imperialista e la destra antisemita; l’antisionismo dà il permesso di essere democraticamente antisemiti». Rispetto a questo antisemitismo, i bombardamenti di Israele sono purtroppo soltanto un alibi. Un comodo cuscino conformista sopra il quale adagiare le posizioni preconcette. Jankélévitch lo diceva in un libro intervista del 1978, in anni dunque di furia ideologica, quando dunque c’erano ancora ed erano ben visibili e pericolose l’una e l’altra: tanto la sinistra anti-imperialista quanto la destra antisemita. Ora si sbaglierebbe a dire che non esistono più, ma in ogni caso resiste quello strano, maleodorante amalgama che prova  a rendere accettabile pur in ambiente democratico il pregiudizio contro Israele, e che ad ogni crisi riaffiora, più intrattabile che mai. E così Jankélévitch si chiedeva anche, sconsolato: «come chiamare una maledizione che resiste all’evoluzione storica, una sventura ereditaria che il progresso non ha guarito, una discriminazione fatale che sopravvive alla scomparsa delle classi sociali, una tara incancellabile che la stessa conversione non basta a cancellare?». E alla sinistra che nonostante ogni ideale di progresso ricadeva nei più odiosi cliché, lui obiettava con ironia amara: nell’anno tremila, quando ci sarà la repubblica socialista universale, quando il razzismo contro i neri sarà scomparso, «si dirà ancora sporco ebreo su un tram». È triste dover ammettere non che la repubblica socialista universale si è allontanata ancor più dall’orizzonte, ma che sui muri della capitale, sulle serrande dei negozi ancora ieri si è letto «sporchi ebrei». E questo odio non viene dai fatti di queste settimane; viene, purtroppo, da più lontano.

(Il Mattino, 31 luglio 2014)