Niente Tapiro per Ezio Greggio. Il popolare conduttore televisivo il tapiro non lo vuole, proprio non ritiene di meritarlo. E non perché siano pochi i 20 milioni di euro che deve versare per chiudere il contenzioso con l’Agenzia delle Entrate, ma perché non è a lui che il fisco italiano li chiede, bensì alla società irlandese che gestisce i diritti sulla sua immagine. Il volto più noto di «Striscia la notizia» non ha nulla da rimproverarsi. Ezio Greggio risiede a Montecarlo, è vero, ma mica per finta: lui a Montecarlo vive e lavora davvero, salvo quei pochi mesi all’anno in cui trova tempo e modo di venire nel nostro Paese, principalmente per farci la morale dagli studi televisivi di «Striscia». Ora, non è che vogliamo indignarci per il fatto che Greggio abbia preso la residenza fuori dai confini patri; di solito però lo si fa perché nel principato monegasco si pagano meno tasse, non certo perché si ha in uggia l’aguzzo profilo alpino oppure i morbidi declivi appenninici, e neppure perché si va in cerca di un clima più temperato, o di contrade meno densamente popolate. Quel che tuttavia di solito non succede, è che quegli stessi che trasportano armi, bagagli e portafogli oltre confine siano poi tutte le sere in tv a servirci per cena filippiche e sbertucciamenti, denunce e sfottò, indossando i comodi panni dei supermoralizzatori. Ora, pensate un po’ come si commenterebbe, con quei panni addosso, l’inappuntabile precisazione che i venti milioni da versare al fisco sono, attenzione, «concordati ma non dovuti». Giusto, sacrosanto, ma non ci ridacchiereste su un bel po’, non dareste di gomito a Enzino Iachetti al vostro fianco? Non vi chiedereste subito chi è mai quel sant’uomo che concorda di dare al fisco venti milioni «non dovuti»?
«Striscia la Notizia» non ha insegnato in tutti questi anni a far altro che questo: ridacchiare e indignarsi. Certo, Greggio fa bene a querelare chi acchiappa la notizia al volo e gli dà dell’evasore. Difende la sua reputazione e il tribunale gli dà ragione: lui non è un evasore. Tecnicamente parlando. Ma querelerebbe anche chi strizzasse l’occhio come per dire: «ah, certo, come no? Abbiamo capito tutto!». Come difenderebbe la propria reputazione dai frizzi e lazzi del suo telegiornale satirico, dalla voce dell’impudenza o da quella dell’insolenza?
Temo non ci sia difesa. Forse bisogna rassegnarcisi: sono le croci, non solo le delizie dei personaggi pubblici, sono i meccanismi della società dello spettacolo, è la società della vergogna, cioè dello svergognamento beffardo e della cinica spudoratezza. È possibile peraltro che Greggio si sia già un po’ rassegnato: se nella prossima edizione del programma non sarà lui alla conduzione dipenderà dai molti suoi impegni e da progetti assai importanti, e chissà se anche questa notizia i futuri conduttori non la daranno ridendo sotto i baffi. «The show must go on»: ci sarà una nuova stagione di «Striscia». Però intanto qualcosa si può dire delle stagioni precedenti, dei venticinque anni di «Striscia», che coincidono quasi esattamente con gli anni della seconda Repubblica. Venticinque anni di ininterrotta indignazione serale, esercitata però alla distanza che la televisione consente di mantenere. Perché non è vero che la tv ti porta il mondo in casa: almeno non sempre. A volte te lo lascia là fuori, e ti molla tranquillo in salotto con la tua buona, cioè falsa, coscienza, che gli evasori, gli imbroglioni, i corrotti sono sempre gli altri.
Cosa ha di falso una simile coscienza? Nulla di ciò che opina, ma tutto di ciò a cui non pensa. Perché alla buona coscienza indignata non importa nulla se non di stare a posto coi suoi sentimenti. È come se non avesse mai avuto notizia delle ipocrisie della vita interiore, scoperte più di cent’anni fa dalla psicanalisi e da Freud. Al posto di quelle inquietudini si è installata anche in ambito psicologico l’equivalente della cosiddetta «sindrome nimby»: not in my back yard. Nel giardino di casa nostra non c’è mai da fare i conti con motivazioni sordide, piccoli sporchi segreti e miserie umane, tutte quelle bassezze che «Striscia» (ma non solo «Striscia», ovviamente) ci aiuta a vedere sempre solo negli altri. Ma prima di Freud già Hegel ci aveva mostrato, in una figura della «Fenomenologia dello Spirito», come funziona questa coscienza. L’aveva chiamata la «coscienza certa di se stessa», e aveva spiegato che tale coscienziosità si limita a enunciare (a enunciare soltanto) la propria posizione morale, cioè la propria indignazione ne riguardi di come vanno le cose al mondo, e unicamente in questa convinzione, e in nient’altro, fa consistere la propria integerrima coscienziosità. Così il mondo continua ad andare uguale avanti per la propria strada, mentre la coscienza riceve un piccolo risarcimento per la propria irrilevanza: in termini, appunto, di «buona» coscienza. Si vede cioè confermate le proprie ragioni, che ogni mattina sono a sua disposizione – come di tutti – nella chiacchiera quotidiana con cui può commentare i fatti che la sera precedente «Striscia» gli ha messo davanti, proprio perché potesse indignarsi. Cioè limitarsi a parlarne.
Quand’è che questo accade? Non facciamo le cose più grandi di quanto non siano. O perlomeno: lasciamo perdere se «Striscia la notizia» sia la causa o non piuttosto l’effetto. Però diciamo, nel caso, l’effetto di cosa. Wendy Brown ha parlato di una certa equazione tra verità e impotenza, che a titolo di compensazione produce un’offensiva moralistica. E perciò che colpisce l’età di «Striscia», i venticinque anni o giù di lì della seconda Repubblica, che sono stati anche gli anni di massima impotenza della politica, di massimo sfarinamento di un senso pubblico condiviso. Ma ogni compensazione è anche un’ostruzione al ristabilimento di un corretto rapporto tra quei termini. Sicché fino a quando vedremo un Greggio sornione farci la morale in tv, potremo forse dedurne che siamo ancora ben lontani dalla serietà della vita politica e storica, anche se abbiamo in cambio la possibilità di sghignazzarne un po’.
(Il Mattino, 1 agosto 2014)