Archivi del mese: settembre 2014

Inaccettabili minacce

Acquisizione a schermo intero 30092014 121057.bmpNell’intervista che il sindaco di Napoli ha rilasciato all’Espresso, a seguito della condanna in primo grado comminatagli nei giorni scorsi, vi sono parole e toni ed espressioni quasi eversivi, comunque inaccettabili. De Magistris parla di poteri forti che vogliono la sua fine, di pezzi di Stato «putrefatti», «intrisi di corruzione», di «persone implicate in posizioni apicali nelle istituzioni della Repubblica italiana» e infine di «ingiustizie profonde» commesse nei suoi confronti, di cui sarebbe stato protagonista addirittura il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il tutto viene accompagnato dalla minaccia di pubblicare documenti. Ora, è difficile immaginare che un sindaco di una grande città – anzi: della terza città del Paese – possa rilasciare affermazioni più gravi di queste. Nessuna ingiustizia patita – posto che di ingiustizia si tratti: sarà non De Magistris, ma il corso della giustizia ad appurarlo – può giustificare un simile atteggiamento, tanto più nei confronti della prima magistratura dello Stato. Nessuna amarezza personale, nessuna intima persuasione, nessuno sconforto e nessuna sfiducia possono condurre un uomo delle istituzioni, se è tale, a formulare minacce, fare allusioni, ventilare atti e comportamenti al limite della ribellione, comunque offensivi nei confronti del Capo dello Stato. E Napoli, i napoletani non meritano di essere usati e trascinati a forza dal ribellismo disperato del loro sindaco, presi al laccio dalla bandana da capopopolo che, per togliersi dalle difficoltà, De Magistris ha ripreso evidentemente a indossare. De Magistris, un ex-magistrato, rifiuta ciò che non può rifiutare, cioè di prendere atto di una conseguenza di legge, che impone la sua sospensione dalla carica di sindaco, e si appella per questo ad una giustizia  sostanziale «più forte della legalità formale». Oltraggia così e sovverte quel principio di legalità che è invece alla base di qualunque ordinamento giuridico moderno, e del cui rispetto Napoli ha forse più bisogno di altre realtà del Paese. Il sindaco dà l’esempio contrario a quel che ci si attende dal primo cittadino: non il disprezzo della legge, ma il suo ossequio. Dopo aver lasciato la magistratura di sua spontanea volontà, De Magistris sta facendo di tutto per dimostrare che quella fu una fortuna per l’amministrazione della giustizia, anche se è stata una disgrazia per Napoli.

(Il Mattino, 30 settembre 2014)

Ma destra e sinistra sono ancora al palo

2479575094_857b31b7ddSe vi è tanta incertezza su quel che accadrà adesso, dopo la condanna di Luigi De Magistris, non è soltanto per la pervicacia che il sindaco intende mettere nella difesa della propria posizione, ma anche perché nulla nel quadro politico cittadino appare tracciato con chiarezza. Quanto alla posizione di De Magistris, in verità incertezze non ve ne sono, almeno sul piano giuridico: la legge parla chiaro e non c’è altro esito possibile che la sospensione dalla carica di sindaco. Mentre, sul piano strettamente processuale, De Magistris avrà ampio modo di ricorrere contro la sentenza, dando un seguito alle parole durissime pronunciate in questi giorni: invero non solo contro la sentenza, ma pure contro i magistrati che l’hanno emessa. Con quale senso del diritto e delle istituzioni ognuno può giudicare. Ma resta il fatto che la condanna c’è, giusta o sbagliata che sia, e la legge pure. E dunque non solo De Magistris, ma pure la consiliatura, e la città di Napoli, dovranno presto voltare pagina.

Ma cosa c’è nella pagina seguente, quella che si comincerà a scrivere da domani? Nulla o quasi. E di nuovo: non solo perché non si sa se e quando si voterà, ma perché le forze politiche cittadine nulla o quasi hanno costruito in questi anni. Nel 2011, la bandana di De Magistris ha potuto conquistare Palazzo San Giacomo a causa delle divisioni dei due principali schieramenti, e della scarsa o nulla credibilità della loro proposta politica. La giunta Iervolino era ai minimi in termini di popolarità e consenso, e tuttavia il centrodestra, che era all’opposizione, non seppe approfittarne: diviso appariva allora, e diviso appare tuttora, e senza troppe atout sul piano nazionale che aiutino a rilanciarne le chance. Il centrosinistra, invece, pensò bene di suicidarsi con le primarie, prima tenute poi annullate, riuscendo così nel capolavoro di trasformare il segno distintivo del neonato partito democratico in un marchio di infamia. De Magistris, insomma, scassò tutto, ma centrodestra e centrosinistra si erano già scassati abbastanza da soli.

Da allora sono passati tre anni: un tempo sufficiente per avviare la costruzione di una nuova classe dirigente e riconquistare credibilità. Tanto più che a De Magistris è venuto nel frattempo a mancare qualunque retroterra politico: dove sono l’Italia dei Valori di Di Pietro? Dov’è la rivoluzione civile di Antonio Ingroia? Non ci sono più. Non solo, ma il partito democratico, sul piano nazionale, ha davvero messo un’altra marcia, comunque si giudichi la direzione intrapresa.

Invece a Napoli il Pd si è dato appuntamento in fonderia. Ora, può anche darsi che dall’iniziativa di Francesco Nicodemo e Pina Picierno  germoglieranno le nuove idee e le nuove energie necessarie per affrontare le prossime sfide: regionali e comunali. Ma qualcosa dovrà pur significare il fatto che, nel frattempo, i vecchi dioscuri, Antonio Bassolino e Vincenzo De Luca, hanno rubato loro scena e applausi. De Luca e Bassolino: d’improvviso le lancette dell’orologio sono tornate indietro di parecchi anni. Se però questo accade in un tempo e in un clima in cui, al contrario, chi parte con il vento della  novità – non oso dire con la forza d’urto della rottamazione – parte avvantaggiato, vuol proprio dire che le retoriche messe fin qui in campo non hanno ancora prodotto un discorso coerente, credibile, e una leadership capace di legare i democratici intorno a un progetto condiviso. Del resto, se avessero condotto in città un’opposizione coerente e decisa, oggi avrebbero almeno un orientamento chiaro. E invece non ce l’hanno: navigano a vista. Così, capita di sentire, sotto lo stesso cielo, quelli che: «nessun aiutino a De Magistris», e quelli che: «dobbiamo allargare il campo del centrosinistra»; quelli che: «troviamo un nome che favorisca la transizione» e quelli che: «guai scendere a patti». E ancora, in vista delle regionali, quelli che: «le primarie sono inevitabili», e quelli che: «non è detto affatto che faremo le primarie»; quelli che: «ci vuole un candidato unico, se no ci dividiamo», e quelli che: « con un solo candidato sono primarie finte». Alla fine non gli resta che trincerarsi dietro la retorica del partito plurale, per nascondere il dato reale: il partito democratico non c’è ancora, ci sono vari pezzi ma tutto si può dire meno che si siano fusi insieme.

(Il Mattino, 29 settembre  2014)

De Magistris verso lo stop

20140925_demagione26Lo si voglia no, ancora una volta la giustizia entra a gamba tesa nelle vicende politiche del Paese e rischia di decidere con i propri verdetti le sorti di un’esperienza amministrativa. La condanna in primo grado di Luigi De Magistris – per atti compiuti nel corso di una inchiesta, poi conclusasi in un nulla di fatto, che fu anch’essa gravida di conseguenze politiche –  non è soltanto un fatto clamoroso, ma controverso, che l’opinione pubblica è chiamata a valutare; è anche, a termini di legge, un caso disciplinato in modo molto chiaro dalla normativa introdotta a inizio 2013, con la cosiddetta legge Severino (che meglio si chiamerebbe legge Cancellieri, visto che fu il titolare dell’Interno a portarla avanti). La legge infatti impone, fra le altre disposizioni, la sospensione dalla carica di sindaco in presenza di una condanna, anche non definitiva, per reati contro la pubblica amministrazione. È una legge dello Stato, perfettamente in vigore, e prevede che, dopo la condanna, parta semplicemente la comunicazione al prefetto dei provvedimenti giudiziari assunti. Il quale prefetto notifica all’interessato. E là finisce.

Sia chiaro: non è una legge di cui la nostra civiltà giuridica possa menar vanto: è anzi lesiva, o perlomeno gravemente restrittiva del principio di non colpevolezza fino a sentenza passata in giudicato, principio cardine di tutti gli ordinamenti liberali. Ma in un momento di profondo sbandamento politico, con il governo Monti in difficoltà,il grillismo che montava e le elezioni sempre più vicine, si voleva evidentemente dimostrare ad un’opinione pubblica esacerbata che le molte emergenze del Paese (in primis la corruzione) venivano comunque affrontate. In quelle condizioni, si faceva valere un rapporto di proporzione inversa fra credibilità della politica e risposta giustizialista: quanto più bassa era quella, tanto più necessaria era questa. Bisognava perciò fare una legge che facesse in automatico quel che la politica non era evidentemente in grado di fare.

E tuttavia, benché possa dispiacere, la legge adesso c’è, e garantismo è pure applicare le leggi che ci sono, per quanto esse siano criticabili. Anzi criticabilissime. Se infatti sindaci e presidenti di regione e presidenti del consiglio possono essere sbalzati di sella da un’inchiesta, o da un esito processuale ancora appellabile, vuol dire che qualcosa continua a non funzionare, tanto più se De Magistris – come gli auguriamo – andrà assolto in appello. E tuttavia ripetiamolo: non si può certo fare come se la legge non vi fosse o fosse disapplicabile.

C’è ancora qualcos’altro da dire. L’abuso per cui De Magistris è stato condannato ebbe conseguenze: la sua inchiesta calabrese provocò un terremoto politico. E così, mentre De Magistris può appropriarsi del verso di Dante, i suoi imputati (i Mastella, i Rutelli) avrebbero potuto usare allora le parole che il Sindaco usa oggi: «non mollo, resisto e lotto per la giustizia». Solo che alcuni di loro furono comunque costretti a mollare, pur non essendo arrivata una condanna e senza che fosse in vigore la cosiddetta Severino (che meglio si chiamerebbe legge Cancellieri, visto che fu il titolare degli Interni a portarla avanti).

Forse, di fronte all’ennesimo cortocircuito fra politica e giustizia, la cosa migliore è che la politica provi a recuperare la sua autonomia, pur nella distretta in cui s’è cacciata. Provi cioè a dare un senso, un corso e un esito proprio a quanto sta accadendo, invece di attendere la comunicazione degli uffici, o la notifica del prefetto. Che senso ha, ci chiediamo, barricarsi a Palazzo San Giacomo, tirar su il ponte levatoio e da lì provare ad andare avanti a dispetto di tutto? Napoli può permetterselo? Non c’è un dato politico di cui prendere atto? La spinta propulsiva della giunta De Magistris si è esaurita ormai da un pezzo, da molto prima che arrivassero i giudici con le loro sentenze. La distanza fra le aspettative suscitate e i risultati raggiunti, come pure tra la maggioranza che si è formata in Consiglio e il voto che portò De Magistris in Municipio è andata, nel tempo, ampliandosi. Né si può dire che questa vicenda contribuisca a ridurla, anzi. In simili condizioni di debolezza politica, ha senso infilarsi in una battaglia a suon di ricorsi e contrappelli? Ha senso proseguire a dispetto dei santi?

De Magistris ha tutto il diritto e finanche il dovere di protestare risolutamente contro l’ingiustizia che a suo dire sta subendo, ma valuti anche, con altrettanta risolutezza, se per governare Napoli possa a questo punto bastare chiudersi a doppia mandata nel recinto della propria maggioranza, non avendo più il rapporto con la città che aveva a inizio mandato.

(Il Mattino, 26 settembre 2014)

Si fa presto a dire: tutta colpa del Sud

Acquisizione a schermo intero 24092014 184136.bmpComincio a pensare che alla fin fine quel che conta non è il libro. Per carità, al libro di Emanuele Felice, «Perché il Sud è rimasto indietro», la rivista «Il Mulino» nel suo ultimo fascicolo dedica una sezione intera. Dunque il libro conta, gli storici dell’economia ne dibattono, e anzi, visto che in occasione del centocinquantesimo dell’unità nazionale la questione meridionale non ha avuto particolare attenzione, Felice ha il merito di aver riattizzato la polemica sul ritardo del Meridione e sul suo divario dal resto del Paese. Perlomeno non si tratta più di abolirlo, come provocatoriamente ha scritto Gianfranco Viesti. Michele Salvati, però, presentando il libro, sembra quasi dimenticarsi della promessa contenuta nel titolo. A lui interessa anzitutto tesserne meritoriamente le lodi: chiarezza, scorrevolezza, rigore, affidabilità. Ben fondato l’approccio metodologico, ben orchestrati i dati. Tutto bene, insomma: ma il libro di cosa parla? Chi leggesse il saggio di Salvati che apre la rivista non avrebbe molti dubbi: il libro parla di quanto fossero arretrate le regioni meridionali al momento dell’unificazione, cioè ai nastri di partenza della storia nazionale unitaria. Scrive Salvati: «La verità è un’altra. Il governo borbonico, specie nel periodo in cui altrove in Italia e in altri paesi ritardatari  creavano le premesse istituzionali dell’imminente sviluppo capitalistico, si pose controcorrente […] esasperando quei tratti reazionari, regressivi ed estrattivi che avrebbero condannato il Mezzogiorno alla minorità economica e istituzionale nella successiva fase unitaria». La condanna borbonica! Come potrà mai uscire il Sud dallo stato di minorità se grava su di esso la plurisecolare condanna?

Ora il libro, in effetti ne parla, non foss’altro perché al lavoro di ricostruzione dei divari economici regionali Felice si dedica da parecchio tempo. E siccome altri studiosi hanno sostenuto che nel 1861 tra Nord e Sud non c’era tutta questa differenza, Felice mette la massima cura possibile, con i dati disponibili, a confutare la tesi che nega l’arretratezza delle regioni meridionali a quella data. Dibattito utile e da seguire con attenzione. Dopodiché il libro, bontà sua, continua, anche se Salvati sembra aver interrotto la lettura. Siccome però la tesi di fondo gli è chiara, e cioè che a penalizzare il Sud è stato un contesto istituzionale volto all’estrazione della rendita a favore di una ristretta élite di privilegiati, cosa fa? Illustra la tesi con riguardo al solo periodo borbonico. E il gioco è fatto, il Sud condannato e Salvati appagato. Ma cosa dice invece il titolo? Non solo che il Sud era indietro (al tempo dei Borboni, che tanto ci dispiacciono), ma soprattutto che ci è «rimasto». Fatti salvo un paio di decenni nel secondo dopoguerra, grazie alla Cassa per il Mezzogiorno, il Sud è «rimasto» indietro.

Certo, se si vuole polemizzare con il presunto revival neoborbonico, è sufficiente gettare la croce addosso alle vecchie strutture del Regno napoletano e farla finita lì, con la questione meridionale. Ma se invece si vuole riflettere sulle vicende dello Stato unitario, e si vuole capire dove siamo adesso e perché stiamo dove stiamo, non basta salvarsi come si salva Salvati. A leggere il quale si finisce col pensare che centocinquant’anni saranno pure passati, ma per via dell’atavica condanna i meridionali sono rimasti né più né meno che i borbonici di una volta. Si capisce allora che se la prendano coi piemontesi, che parlino di annessione, di guerra di conquista, di colonizzazione: stanno ancora fermi a Re Ferdinando e a Franceschiello. Ecco come dunque Salvati legge il libro: non perché il Sud è rimasto indietro, ma perché è rimasto borbonico o, al massimo, neoborbonico.

Troppo comodo. Troppo facile. Ha ragione anzitutto Leandra D’Antone, che nel suo intervento ricorda quali e quanti siano stati gli apporto della classe dirigente meridionale alla costruzione dello Stato unitario: da Nitti a Menichella, da Crispi a Beneduce. Ma hanno ragione un po’ tutti gli interventi che la Rivista ospita, e che del libro di Felice riconoscono il valore, ma insieme offrono diverse chiavi di lettura, diversi spunti di discussione, diversi motivi di approfondimento. Se infatti non si nega che qualcosa nel distorto sviluppo del Paese non ha funzionato non basterà prendersela con la complicità e la connivenza delle nefande (anzi borboniche) classi dirigenti meridionali, se non altro perché, per essere complici e conniventi, bisogna essere complici e conniventi di qualcun altro. E chi è e dove sta quest’altro? Distorcere o frenare lo sviluppo del Paese non lo si poteva certo fare – né oggi lo si può fare – solo da Napoli o da Palermo: bisogna che la cosa interessi anche a Roma e a Milano. E non lo si dice certo con un intento risarcitorio o recriminatorio (il quale poi, se tanto preoccupa «Il Mulino» e Michele Salvati, farebbero meglio a cercarlo più su, al Nord). No, non per puro spirito rivendicazionista, o per fare la Lega del Sud, ma al contrario:  per un senso alto della politica nazionale, della sua responsabilità e dei suoi compiti. Che comunque vengano intesi, non possono mai risolversi nel volgere le spalle alle aree più arretrate del Paese con un volgare:  «arrangiatevi!». Da «arrangiatevi!» ad «arrabbiatevi!» il passo, peraltro, è breve: meglio non suggerirlo, nemmeno sub liminalmente.

(Il Mattino, 24 settembre 2014)

San Matteo non deve fare le giravolte

20140922_amorÈ finita con l’arcivescovo di Salerno, monsignor Luigi Moretti, circondato dalla Digos. La tradizionale processione di San Matteo, con la statua del santo patrono portata a spalla per le vie della città, è finita tra i fischi, le urla, la polizia. In linea con la conferenza episcopale campana – che raccomandava di «purificare, consolidare, elevare le feste religiose» – la Chiesa salernitana aveva in realtà provato a restituire alla processione il significato di una espressione pubblica della fede, affrancandola da logiche di altro tipo: politiche o commerciali, ad esempio. Ma le paranze, i portatori delle statue, non ne hanno voluto sapere: la processione doveva fermarsi dove volevano loro, e si è fermata. Le statue dovevano compiere le giravolte come dicevano loro, e le hanno compiute. E dovevano poter entrare nel palazzo del Comune, nonostante l’espresso divieto dell’arcivescovo (e il gradimento, invece, del sindaco De Luca, ieri polemicamente assente). E hanno trovato gli uscieri in servizio, le luci accese, il portone aperto, e sono entrate. Tra preghiere e benedizioni subissate dai fischi, grida e schiamazzi, portatori come capi ultras, il questore che muove gli agenti come allo stadio, il vescovo umiliato e il prefetto che, indignata, abbandona il corteo.

Ora, cosa c’è che non va nel documento approvato dai vescovi campani, al cui spirito monsignor Moretti avrebbe voluto intonare la festa di San Matteo? Quel documento ruotava intorno a una espressione, «pietà popolare». E ad una esortazione: difenderla. Non mortificarla o svilirla ma al contrario: difenderla. Difenderla contro scelte elitarie, «velatamente aristocratiche», che in altro linguaggio e in altri tempi (ai tempi, poniamo di Ernesto De Martino, grande studioso delle storie religiose del Sud) si sarebbero dette classiste. Insomma: la pietà popolare è una buona cosa, non una forma di credulità superstiziosa o un relitto del passato. Poi però il documento passava alla situazione attuale, e là palesava più di una preoccupazione: che la spontaneità della manifestazione popolare del culto si svuotasse di contenuti cristiani, che perdesse il valore di testimonianza devozionale, che decadesse a un fatto folcloristico, e soprattutto che potesse servire altri padroni. Nella parte relativa alle feste religiose e alle processioni colpisce infatti che i vescovi avvertissero l’esigenza di stabilire quanto segue: le varie confraternite e comitati che si costituiscono in occasione delle feste debbono avere l’autorizzazione del parroco; la guida dei cortei spetta sempre all’autorità religiosa; i comitati non possono interferire con la processione. E così via: spontaneità non significa spontaneismo e la Chiesa non può certo rinunciare al suo ruolo di direzione in materia di religiosità popolare.

Ma a Salerno questo ruolo di direzione è stato apertamente contestato, sbeffeggiato, offeso. Come se le tradizioni religiose non appartenessero più alla Chiesa, ma a loro: ai capi paranza, ai portatori delle statue. E a chi dà loro bordone, riconoscendogli una rappresentanza e ricevendone in cambio il formale inchino. «Piccoli episodi», ha scritto il sindaco De Luca il giorno dopo. De Luca ha cercato così di restituire serenità a una città scossa dall’accaduto, anche se ha prudentemente sorvolato su quel palazzo di città lasciato incredibilmente aperto, come un invito esplicito a disobbedire alle indicazioni impartite dall’arcivescovo. Ma se piccoli sono stati gli episodi, grande ne è il significato. Di chi è San Matteo? Ieri è sembrato che l’effigie del Santo non fosse più espressione dell’autorità religiosa. E un ragionamento molto elementare si è potuto così concludere: le parole del Santo a difesa della città sono: «Salerno è mia». Di chi è dunque Salerno? Di chi decide dove si ferma la statua del Santo. E di chi ne riceve l’inchino, qualunque cosa ne pensi l’arcivescovo.

A proposito di significati: che cosa significhi «popolo» oggi è un grande tema. Non solo cosa sia la pietà popolare ma proprio cosa sia un popolo, e dove e come se ne dia la rappresentazione. Nei luoghi a ciò preposti in una democrazia rappresentativa accade sempre meno. Nelle nostre democrazie pubblicitarie, mediatizzate, prevalgono le persone e i rapporti diretti. E conta chi dirige lo spettacolo. Relegare monsignor Moretti al rango di comprimario non è un piccolo episodio : costituisce, anzi, la scena madre. Anche se (o proprio quando) il vero protagonista è assente, e però fa sentire la sua voce fuori campo.

(Il Mattino, 23 settembre 2014)

Partito del Sud? Prima bisogna rifare i partiti

Acquisizione a schermo intero 22092014 175355.bmpDue o tre cose di cui sono convinto, a proposito di Mezzogiorno, meridionalismo e partito del Sud. La prima: siano pure grandi o schiaccianti, le responsabilità storiche non assolvono mai dalle responsabilità politiche. Il che significa: per quanto sia importante, persino indispensabile, individuare le cause storiche del divario meridionale, per quanto possa essere utile, persino necessario, discutere e riflettere su colpe e ritardi delle classi dirigenti meridionali, non resta meno necessario attribuire ai soggetti politici su cui pesa oggi il compito di rappresentare l’interesse del Paese e del Mezzogiorno, le loro responsabilità. Una su tutte: quella di correggere radicalmente le politiche europee recessive, denunciandone gli effetti devastanti sul tessuto economico e civile delle aree più deboli del paese.

La seconda cosa si lega evidentemente alla prima: ci vuole un nuovo meridionalismo, una convinta rappresentazione degli interessi del Mezzogiorno, scrollandosi di dosso il peso di una cattiva coscienza che, se mai l’ha avuto, non ha oggi più motivo di essere, di fronte all’urgenza e alla drammaticità della crisi economica e sociale in cui versiamo. Il Sud non deve essere punito per sue colpe passate o recenti, e non deve nemmeno punirsi da solo, accettando di essere relegato in una posizione di subalternità.

Perché allora non fare un partito del Sud? La domanda è stata posta da Paolo Savona su questo giornale come una provocazione, ma anche come un auspicio o forse di più: come un invito pressante. Prima però di accoglierlo o respingerlo, credo che la domanda andrebbe anzitutto posta in termini analitici, lasciando perdere quello che vorremmo o non vorremmo che ci fosse, e domandandoci anzitutto perché c’è o non c’è. Si vedrà poi se quello che non c’è dovrebbe anche esserci.

E dunque: un partito del Sud non c’è innanzitutto e fondamentalmente perché non ci sono i partiti. Non ci sono da quando è finita la Repubblica dei partiti ed è venuta fuori una Repubblica senza partiti, o con surrogati di partiti, che si tratti di partiti-azienda oppure di sghembe coalizioni.

Così è andata almeno fino al maggio 2014, al voto alle europee. Se poi le cose cambieranno si vedrà. Ma questa è una osservazione decisiva, se, come io credo, la questione meridionale è davvero una questione nazionale. Se, in altre parole, non è pensabile, non è accettabile, non è neppure conveniente – non solo per il Sud, ma anche per il resto d’Italia – che permangano condizioni di così grave diseguaglianza. La Germania ha ragionato così, dopo l’89. Lo ha detto bene Isaia Sales: l’unificazione è stata interpretata dai tedeschi come un interesse di tutto il paese, non come un dovere di carità verso i più sfortunati fratelli dell’Est. Ma se questo è vero, allora c’è poco da dire: non può essere un partito a base territoriale la risposta migliore e più efficace.

Se però proposte del genere emergono, è appunto per il fatto davvero enorme a cui la politica italiana è inchiodata da vent’anni a questa parte. Ed è che non conta, non esiste o fatica ad esistere. Il che non toglie che per la sua non esistenza, per la sua inconsistenza, vi sia chi ci guadagna e chi ci perde. E questo tanto al Nord quanto al Sud: l’Italia è attraversata da linee di divisione che non sono solo geografiche.

Si dice partito del Sud, insomma, ma si deve leggere invece politica, politica degna di questo nome, partiti politici che tornino a farsi interprete dell’interesse nazionale, visto che (e finché) di una solidarietà europea non vi è traccia. C’è materia per una battaglia politica e ideale, ma non c’è bisogno di colorarla di rivendicazioni autonomiste o indipendentiste per dargli valore.

Se poi un fascino residuo la proposta di Paolo Savona di un partito del Sud dovesse ancora averlo, è perché si legherebbe a certi motivi identitari che secondo alcuni sarebbero radicati nella storia meridionale, del regno borbonico o di quelli che lo precedettero. Ma è davvero così? È la terza cosa che mi sento di dire, con un po’ di ruvidezza: non sono molti i cittadini meridionali che si sentirebbero sollevati dal gettare tutte le colpe possibili sui prefetti piemontesi che fecero l’Italia. Il Sud non è la Scozia, e non c’è motivo di rammaricarcene. Fare un partito del Sud, proprio come è accaduto al Nord con la Lega, temo si risolva solo nel lucrare sul discredito della politica e la sua crisi di fiducia e di legittimità, non certo contribuire a curarla e a venirne fuori.

(Il Mattino, 22 settembre 2014)

Secessionisti e populisti. Asse anti-Ue

Just-BelieveNon vi è un unico anti-europeismo. Ma questo non vuol dire che i vari fronti non possano saldarsi, e mettere definitivamente in crisi l’Unione europea. L’indipendentismo scozzese, che nel voto di ieri ha mostrato tutta la sua consistenza, sgorga da una storia plurisecolare. Ma ciò non toglie che sfoci nel pelago in cui nuota oggi, con sempre maggiore difficoltà, l’esperimento politico europeo. I populismi e i nazionalismi che punteggiano la mappa dell’Europa hanno segni distintivi propri, specifici, peculiari, e però il messaggio che trasmettono a Bruxelles ha almeno un denominatore comune: vuoi perché lontana, vuoi perché tecnocratica, l’Europa non ce la fa ancora a rappresentare la collettività di cui ciascuno può sentirsi parte. E nella crisi economica e sociale in cui da troppi anni si dibatte, le piccole patrie riprendono spessore, proprio come si rinfocolano gli umori populisti . Non importa che vi possa essere contraddizione fra le une e gli altri, e ad esempio (per restare oltre Manica) che il leader indipendentista dell’Ukip, l’euroscettico Nigel Farage, trionfatore nel voto europeo di maggio, si sia apertamente schierato contro la secessione scozzese; importa che, nell’effetto, tanto le spinte populiste quanto gli impeti nazionalisti suonino come acuti campanelli d’allarmi per le istituzioni europee.

La cui storia – la storia della costruzione dello spazio politico continentale nella seconda metà del Novecento – presenta un tratto singolare, che sarebbe importante ricordare: fondata anzitutto sulla cooperazione fra gli Stati nazionali, la comunità europea ha progressivamente modificato i suoi assetti di governance, per investire di sempre maggiori responsabilità le autorità regionali e locali. La logica che vedeva nella partecipazione alla vita comunitaria solo un ramo della politica estera è stata da tempo accantonata. Questo processo ha però avuto corso in due opposte direzioni: verso il più alto livello delle degli organismi e delle istituzioni sovranazionali sono state sospinte molte decisioni fondamentali, mentre verso il livello più basso dei poteri locali si sono ritratti i motivi identitari, cioè quelli su cui si fonda il senso della comunità e, anche, buona parte della legittimità politica. Questi fenomeni sono a fatica inseguiti, quasi mai preceduti dalle formule giuridiche con cui si provano ad articolare i programmi regionali, le politiche di coesione,i federalismi, gli autonomismi e i regionalismi più o meno avanzati che modificano gli assetti politici nazionali. Di fatto, però, il risultato sembra essere piuttosto, in alto, un deficit di democrazia, e in basso un surplus di risentimento, di animosità e di astio antieuropeo.

Invero le identità locali, proprio come i caratteri regionali, sono anch’essi frutto di una costruzione sociale e culturale, sebbene di lungo periodo. Peraltro, è stato in molti casi proprio l’insorgere degli Stati nazionali, nel corso della storia moderna, a produrre di rimbalzo più marcate appartenenze regionali o municipali. Che queste identità siano costruzioni storiche non toglie nulla, naturalmente, né alla loro forza né alla loro incidenza politica e sociale, ma permette di considerarle almeno in termini dinamici: non come dati inamovibili, acquisiti una volta per sempre, ma come grandezze passibili di modificazioni. Il guaio è che le dinamiche oggi innestatesi in Europa vanno in ben altra direzione, e corroborano, non indeboliscono costruzioni identitarie fondate su chiusure e contrapposizioni, piuttosto che sulla cooperazione e l’integrazione.

Il grande scrittore ebreo, il premio Nobel Isaac Bashevis Singer, riflettendo sui drammi e le tragedie del Novecento europeo ebbe una volta a scrivere: «Quando tutte le nazioni si renderanno conto che sono in esilio, l’esilio cesserà di essere». Qualcosa del genere – il sentirsi in esilio in Europa: non però da soli, ma insieme a tutti gli altri popoli europei convenuti insieme – non ha potuto ancora realizzarsi. Né forse potrà realizzarsi mai. Forse è semplicemente un’utopia, qualcosa che non può reggere agli urti della storia, e che shock economici profondi o crisi come quella ucraina possono mettere impietosamente a nudo, smascherando l’inconsistenza politica europea. Eppure, dopo il voto ad Aberdeen, Edimburgo e Glasgow possiamo forse ancora credere che l’ultimo brandello del sogno europeo non sia già volato via.

(Il Mattino, 19 settembre 2014)

Festival e Forum, Modena vince e Napoli affonda

ImmagineSi apre oggi la quattordicesima edizione del Festivalfilosofia di Modena Carpi e Sassuolo. È una notizia? Certo che è una notizia, soprattutto se si guardano i numeri e se, dopo aver guardato i numeri, si istituisce un paragone – impietoso, crudo, necessario – con il programma del Forum universale delle Culture di Napoli e della Campania, in corso di svolgimento.

Il Festival si svolge ogni anno dal 2001. L’ultima edizione ha raccolto più di duecentomila presenze in tre giorni: si era partiti, nella prima edizione, con poco più di trentamila. Alle lezioni magistrali, che costituiscono il cuore culturale dell’evento, hanno partecipato in media, lo scorso anno, più di duemila persone alla volta. Che se ne stanno in silenzio, sedute o in piedi, ad ascoltare filosofi, scrittori, intellettuali impartire severi la lezione dei classici, o declinare con qualche licenza in più il tema scelto per l’edizione in corso (quest’anno si parla della gloria). Tutto questo ben di dio di persone che per tre giorni occupano le sale, le chiese, le piazze, le mostre – persone che leggono (e comprano), che discutono (e rianimano) i luoghi della città – tutta questa roba costa, in tutto, poco più di ottocentomila euro. Fa quasi tenerezza leggere l’onere che grava sul bilancio del Comune di Modena per la partecipazione nel Consorzio che gestisce il Festival: cinquantacinquemila euro. Indagini di mercato dimostrano poi che tra acquisto di libri, consumazione di menu filosofici (ci sono anche quelli) e merchandising – cioè magliette, borse, penne, oggettistica in genere, distribuita in una miriade di punti vendita – l’impatto economico del festival è da stimarsi intorno ai 3 milioni di euro. Hanno insomma moltiplicato per tre volte e mezzo i soldi investiti.

Ora, da quelle parti sono bravi. Indubbiamente. Hanno capacità organizzativa, fanno sistema, riescono a coinvolgere le energie vive delle città interessate e a innestare un’amplissima trama culturale in un’occasione di crescita civile. Hanno fatto di un festival un’istituzione. Ma sia chiaro: partono dallo gnocco fritto e dall’aceto balsamico, non dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici o dall’Istituto Croce. Certo, a Modena sorgono l’università e il Collegio San Carlo, e lì vicino è nato Pico della Mirandola; ma qui abbiamo l’ateneo federiciano e ci è nato, solo per dirne uno, Giambattista Vico. E comunque: non è certo sulle spalle del poliedrico umanista mirandoliano che poggia il festival, non è lui che dà il là all’iniziativa, ma un consorzio efficiente, partecipato da istituzioni pubbliche e private, capace di gestire, di promuovere, di comunicare.

E il Forum, invece? Come l’araba fenice: che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa. A meno che qualcuno non se ne sia accorto. E finirà, l’altisonante Forum, come tutte le cose umane finiscono. A differenza però del festival modenese, non lascerà alla città alcun segno concreto, visibile, appariscente. Non un marchio vincente, non una traccia duratura, non un fattore di sviluppo. Eppure, per produrre questo nulla, avrà comunque impiegato non ottocentomila euro o un milione, ma la bellezza di undici milioni di euro. Undici. Riversati su iniziative le più diverse, senza una vera programmazione, senza un filo conduttore autentico, senza una capacità reale di promozione della città e della Regione. Come l’hanno fatto, il Forum? Hanno preso più o meno quello che c’è, gli hanno stampigliato sopra il bollino della Fondazione, hanno versato i quattrini, hanno messo in cartellone l’evento. E stop: nulla viene cucito insieme, tutto rimane slegato, mentre la città rimane completamente indifferente. Capacità di incidere sulle dinamiche cittadine, di trasformare e coinvolgere i luoghi, la memoria, le persone: zero. Sempre a fronte, però, di undici milioni di euro. Certo, è giusto aspettare di vedere i resoconti – voce per voce, capitolo per capitolo, per capire come si possano sperperare tanti milioni di euro spalmandoli su una molteplicità sconclusionata di eventi – ma non c’è bisogno di attendere la fine dell’anno per accorgersi che dal Forum non è venuto fuori un marchio, un’idea, un logo, qualcosa che faccia davvero da volano allo sviluppo della città.

A leggere sul sito, il meritorio intento era quello «creare occasioni di riflessioni sui temi del Forum». Stiamo riflettendo, ma non v’è dubbio che l’occasione maggiore di riflessione è offerta, purtroppo, dal Forum stesso: su come è andata, sta andando, e se ne andrà.

(Il Mattino, 12 settembre 2014)

La sinistra tra vecchie cordate e nuovi tweet

Acquisizione a schermo intero 10092014 133251.bmpL’introduzione delle primarie in Italia si deve al partito democratico. E tuttavia il partito democratico non ha ancora deciso che cosa le primarie siano: se una regola che il partito segue, e in quali circostanze, o invece uno strumento di lotta politica, e un modo per regolare i conti fra gruppi dirigenti del partito. Se infatti fossero una regola non potrebbero venire ogni volta in discussione, e invece puntualmente accade che la discussione si accenda furiosa, in particolare quando si abbandona il palcoscenico nazionale e si entra nella selva selvaggia ed aspra e forte delle primarie per i comuni, le province, le regioni. Le regionali 2015 in Campania non fanno eccezione: il Pd ignora ancora il se ed il quando. Il che però non toglie che alla decisione su come e se tenerle si cerchi di giungere da una parte o dall’altra attraverso comunicati, colpi di mano, iniziative più o meno estemporanee, dichiarazioni, posizionamenti, fughe di notizie: nulla del vasto repertorio della tattica politica ci viene risparmiato. Ma la situazione, dopo tutto, è abbastanza semplice. Il sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca, vuole fortissimamente le primarie, e fino a qualche tempo fa lasciava intendere che se non si facessero sarebbero pronto a candidarsi ugualmente: che è un modo ben strano per stare in un partito e attendere le decisioni dei suoi organi collegiali. Ma si sa: il personaggio è irruento. Una larga fetta del Pd, però, De Luca proprio non lo vuole, e lavora a opporgli l’europarlamentare Pina Picierno. La quale, dal canto suo, un po’ si schermisce e un po’ no, ma in realtà è pronta a scendere in campo, anzi in fonderia, a patto però che cali un’esplicita investitura dall’alto (cioè da Renzi). Ma al momento l’investitura non c’è, il che rende possibile immaginare altri nomi. Quello di Andrea Cozzolino, per esempio, che dovrebbe rompere gli indugi prima della kermesse di fine settembre convocata dai renziani, e sparigliare i giochi. O nomi che dovrebbe fare direttamente Roma: nomi autorevoli, indiscutibili, di quelli che costringono a rimettere le primarie (le regole?) nel cassetto. Per evitare che invece degli indugi si rompa per l’ennesima volta il Pd.

Tiriamo allora il fiato e ricominciamo. Però da un’altra parte. In tutto questo bailamme, infatti, non si riesce ancora a vedere quello che dovrebbe costruire il cuore della battaglia politica: una proposta, una visione, due o tre cose decisive sulle quali puntare, e le alleanze sociali e politiche da costruire per realizzarle. Il metodo e i tavoli, le commissioni e i tweet sono al centro del dibattito, ma di tutto il resto poco o nulla. Ad esempio, questo giornale ha denunciato in questi giorni che cosa significa oggi partorire a Napoli: non avere a disposizione strutture affidabili, che rispondano ai requisiti di legge e garantiscano nei reparti le condizioni operative che consentono di affrontare parti difficili, situazioni di emergenza. Che le cose vadano bene per le giovani mamme è quasi una scommessa: ce ne sarebbe, dunque, per parlare di sanità, della condizione della donna, delle diseguaglianze del paese. E per smuovere interessi consolidati che si incrostano sulla pelle dei cittadini. Ma niente: tutto tace.

Ancora: succede che si muoia accidentalmente, assurdamente, per paura o imperizia, e che un quartiere intero di una città sempre più divisa a pezzi metta in piazza tutto il proprio disagio, la propria disperazione, il senso di una condizione irredenta e irredimibile, senza alcuna speranza di riscatto sociale, solo rabbia e rassegnazione. Ma anche in questo caso nessuno riesce a metter su qualcosa che somigli a una proposta seria, effettiva, concreta. Qualcosa che assegni ancora alla politica un’interlocuzione reale con i cittadini. Niente: tutto tace.

E si potrebbe continuare: con Bagnoli, con i fondi europei, con le politiche di sviluppo. Ma a che serve fare l’elenco? Il fatto è che la politica nel Mezzogiorno non prova più a costruire. Quel che al massimo riesce a costruire sono cordate politico-clientelari, somme di micronotabili – come giustamente li ha chiamati Mauro Calise – che non fanno altro che contendersi il fiero pasto. E se non micronotabili, una sventagliata di micro-dichiarazioni via twitter. Che per l’amor di Dio: vanno benissimo, ci passi il pomeriggio rimbalzando da una battuta all’altra e da un link all’altro. Quel che però non riesce a passare, è la sensazione che tutto questo non faccia avanzare la politica campana di un solo passo.

(Il Mattino, 10 settembre 2014)

Il primato del civile

magritte-voix1Di cosa è sinonimo la società civile? Bella domanda, a patto di spiegarla. Ma la spiegazione è necessaria, dopo aver ascoltato le parole rivolte da Raffaele Cantone al consesso riunito annualmente dallo Studio Ambrosetti a Cernobbio. Cantone ha detto un paio di cose che sarebbe bene scolpire nella mente. Da presidente dell’Autorità nazionale anti-corruzione, ha rivolto innanzitutto agli industriali l’invito a tenere nei confronti della corruzione lo stesso atteggiamento che meritoriamente si propongono di tenere nei confronti di imprese e imprenditori in odor di mafia: isolarli, tenerli fuori, cacciarli dagli organismi associativi. Quel che si fa con i mafiosi va fatto con i corrotti. In secondo luogo, ha rimarcato che se passasse l’idea che il contrasto alla corruzione non è soltanto un dovere morale, ma anche l’interesse bene inteso del Paese e dello stesso sistema produttivo, allora la scommessa contro la corruzione potrebbe essere finalmente vinta. Una vera e propria «battaglia culturale». Ma le battaglie culturali, si sa, sono faccende serie, lunghe, onerose, che non si vincono dalla sera alla mattina. Perciò non si trovano molti che siano disposti a farle. Eppure sono battaglie essenziali, perché una società civile e un Paese bene ordinato poggiano sui comportamenti dei cittadini, non solo sulle leggi. Parafrasando Kant: i comportamenti senza le leggi sono ciechi, ma le leggi senza i comportamenti sono vuoti. Non c’è insomma norma senza una normalità soggiacente, e se la prima si può produrre con un atto legislativo, la seconda purtroppo no, e richiede un lavoro di ben più lunga lena.

Tutte e due le cose dette da Cantone sono giuste e sacrosante, e per una volta spostano l’attenzione dalle leggi che si attendono dal Parlamento ai comportamenti che è lecito aspettarsi dalla cosiddetta società civile. La quale è «cosiddetta» non perché non esista o sia incivile, ma perché la definizione rigorosa del suo concetto è complicata assai. Ma Cantone ad essa si è rivolto, e così torna la domanda iniziale: di che è sinonimo, cosa intendiamo con essa? Nell’essenziale, tre cose. La prima: società civile è la somma degli interessi privati che si organizzano al di fuori della dimensione dello Stato e dei poteri pubblici. La seconda: società civile è il complesso di rapporti familiari, sociali, ideali, per i quali una comunità può dirsi tale. In questo secondo caso, il concetto di società civile non è imperniato esclusivamente sugli individui, ma su una condizione condivisa di appartenenza (di clan, di gruppo, di nazione), che genera identità. Entrambe queste idee presentano però dei problemi. Uno in particolare, ci riguarda qui. Entrambe procedono da una separazione netta delle due sfere, pubblico e privato (anche se connotano diversamente la sfera privata), che spesso si traduce in una secca contrapposizione. Per cui si reagisce sempre alla stessa maniera: il privato che funziona se la prende col pubblico – e in Italia è il ritornello di gran lunga dominante –, e il pubblico che funziona (o cerca di funzionare) se la prende col privato, che nicchia e fa orecchie di mercante, come ieri suggeriva Cantone.

Noi però abbiamo un bisogno assoluto di uscire dall’impasse. E di far emergere una terza sfera che si interseca con le prime due, e disegna una più ricca fisionomia della società civile. Una sfera che non è vincolante, coercitiva come quella pubblica, dello Stato e della legge – perciò quello di Cantone era un «invito» –, ma che sa assumersi responsabilità collettive, più grandi del solo interesse particolare, immediato, esclusivo – e perciò l’invito di Cantone riguardava la cura di una condizione generale, valida per tutti e legato all’impegno di tutti. Questa sfera esiste ed è la sfera della «civicness», la sfera civica in cui i cittadini non sono semplici individui privati, né solo clienti, utenti o consumatori, ma attori sociali impegnati alla costruzione di un qualche bene comune.

Quanta ne abbiamo, in Italia, di questa civica virtù? Non abbastanza. Ma se non proviamo a farla emergere, se tra pubblico e privato continuerà invece il gioco dello scaricabarile, allora purtroppo l’invito – e non solo l’invito, anche il nostro malandato Paese – cadrà nel vuoto.

(Il Mattino, 8 settembre 2014)

Uomini e lupi

Acquisizione a schermo intero 03092014 212302.bmpIn guerra muoiono molti uomini. E donne, e bambini. Militari e civili. In ogni tipo di guerra: nelle guerre dichiarate e in quelle non dichiarate. Nelle guerre sporche e in quelle che sporche non vorrebbero essere. Nelle guerre giuste e in quelle che non provano nemmeno a dirsi giuste. E ancora nelle guerre condotte per offesa o per difesa, per conquista o usurpazione, per cieca sete di potere o per profonde ragioni strategiche. Per realismo, infine, o per (malinteso) idealismo. Ma nella decapitazione di un uomo – di un uomo solo, in ginocchio, la barba mal rasata, lo sguardo impaurito, il volto pallido e provato dalla prigionia – nell’uccisione di un prigioniero inerme, e non di un soldato ma di un giornalista, e non di un nemico ma di un testimone: in una morte così barbara, inumana, crudele c’è qualcosa di più del gesto violento, della ferocia dell’assassino. Nella sua esibizione, nella sua dimostrazione, nella sua sfida c’è la precisa volontà di dichiararsi, più duri, inesorabili e spietati del nemico. Come se la spietatezza fosse la prova da superare. Come se vincere il nemico in efferatezza significasse vincere tout court.

Steven Sotloff, 31 anni, reporter, finito nelle mani dei miliziani islamici dell’Isis con James Foley, è morto ieri. Per mano di quello stesso aguzzino con accento inglese che due settimane fa giustiziò il collega Foley. Come allora, così questa volta è stato diffuso un filmato dell’esecuzione. Come allora, così questa volta ad essere chiamato in causa è direttamente Obama, la politica estera americana, l’intervento militare per fermare l’avanzata jihadista nel nord dell’Iraq. Come allora, così oggi l’orrore è più grande di qualunque altra considerazione. Più grande anche della sua rappresentazione: più reale. Per quante dotte disquisizioni si vogliano condurre sul profluvio di immagini nella società contemporanea, nell’epoca della Rete e degli schermi in ogni casa, su ogni cellulare, resta infatti l’impossibilità di guardare quel filmato senza inorridire. Resta l’orrore: quel che vediamo ci fa orrore. L’orrore che il boia non ha provato, alzando il coltello contro Steven Rotloff, lo proviamo noi, in nome della nostra, comune umanità. Proviamo così a noi stessi di non essere affatto anestetizzati dalle immagini di morte, dalla spettacolarizzazione della morte, dal suo uso mediatico: almeno una piccola porzione del nostro essere rimane attaccata a una certa idea di umanità, a un certo senso di sé al quale non può rinunciare e che anzi impone di rifiutare con tutte le forze lo sperpero immane di una violenza eccessiva, inutile , traboccante.

Per questo la prepotenza incontenibile usata ieri nei confronti di un giovane uomo, nostro simile, nostro fratello, non segna affatto una nostra sconfitta , e contiene anzi la rivelazione di una irrinunciabile verità: non è la violenza che ci fa uomini e che tiene insieme la società, la civiltà. È al contrario il suo rifiuto, la necessità di tenerla lontana dalle nostre vite. Il boia del deserto, che ammazza uomini inermi, suscita in noi il più grande orrore e la più grande collera. Ma proprio così ci ricorda che siamo uomini, che da questa parte del mondo mettiamo la nostra umanità nel rifiuto della violenza e della morte, non nella furiosa signoria sopra di essa.

C’è una storiella ebraica raccolta da Martin Buber, la quale narra del Rabbi di Kozk che chiese una volta a un chassid: «Hai visto un lupo?». «Sì», rispose quello. «E hai avuto timore?» «Sì», rispose ancora. E il maestro: «Ma in quel momento hai pensato che avevi timore?». «No», fu la risposta. «Ho soltanto avuto timore».  «Così – concluse il Rabbi, «si deve fare con il timore di Dio». E così si deve fare in ogni autentica risposta dinanzi al male: non perché manchino le ragioni, e le spiegazioni e i pensieri, ma perché prima di essi, molto prima di essi, in un fondo più fondamentale del nostro essere, viene l’uomo, il nostro senso di essere uomini, e non lupi. Non ha riportato alcun vittoria, il boia di Steven Rotloff, e non la riporterà, perché non ha cancellato ma al contrario ha scritto indelebilmente nella nostra esperienza storica – e anche nella politica che vogliamo – da cosa dobbiamo veramente guardarci, se e in quanto siamo uomini: non dall’aver paura o disgusto, ma dal non averne più.

(Il Mattino, 3 settembre 2014)