In guerra muoiono molti uomini. E donne, e bambini. Militari e civili. In ogni tipo di guerra: nelle guerre dichiarate e in quelle non dichiarate. Nelle guerre sporche e in quelle che sporche non vorrebbero essere. Nelle guerre giuste e in quelle che non provano nemmeno a dirsi giuste. E ancora nelle guerre condotte per offesa o per difesa, per conquista o usurpazione, per cieca sete di potere o per profonde ragioni strategiche. Per realismo, infine, o per (malinteso) idealismo. Ma nella decapitazione di un uomo – di un uomo solo, in ginocchio, la barba mal rasata, lo sguardo impaurito, il volto pallido e provato dalla prigionia – nell’uccisione di un prigioniero inerme, e non di un soldato ma di un giornalista, e non di un nemico ma di un testimone: in una morte così barbara, inumana, crudele c’è qualcosa di più del gesto violento, della ferocia dell’assassino. Nella sua esibizione, nella sua dimostrazione, nella sua sfida c’è la precisa volontà di dichiararsi, più duri, inesorabili e spietati del nemico. Come se la spietatezza fosse la prova da superare. Come se vincere il nemico in efferatezza significasse vincere tout court.
Steven Sotloff, 31 anni, reporter, finito nelle mani dei miliziani islamici dell’Isis con James Foley, è morto ieri. Per mano di quello stesso aguzzino con accento inglese che due settimane fa giustiziò il collega Foley. Come allora, così questa volta è stato diffuso un filmato dell’esecuzione. Come allora, così questa volta ad essere chiamato in causa è direttamente Obama, la politica estera americana, l’intervento militare per fermare l’avanzata jihadista nel nord dell’Iraq. Come allora, così oggi l’orrore è più grande di qualunque altra considerazione. Più grande anche della sua rappresentazione: più reale. Per quante dotte disquisizioni si vogliano condurre sul profluvio di immagini nella società contemporanea, nell’epoca della Rete e degli schermi in ogni casa, su ogni cellulare, resta infatti l’impossibilità di guardare quel filmato senza inorridire. Resta l’orrore: quel che vediamo ci fa orrore. L’orrore che il boia non ha provato, alzando il coltello contro Steven Rotloff, lo proviamo noi, in nome della nostra, comune umanità. Proviamo così a noi stessi di non essere affatto anestetizzati dalle immagini di morte, dalla spettacolarizzazione della morte, dal suo uso mediatico: almeno una piccola porzione del nostro essere rimane attaccata a una certa idea di umanità, a un certo senso di sé al quale non può rinunciare e che anzi impone di rifiutare con tutte le forze lo sperpero immane di una violenza eccessiva, inutile , traboccante.
Per questo la prepotenza incontenibile usata ieri nei confronti di un giovane uomo, nostro simile, nostro fratello, non segna affatto una nostra sconfitta , e contiene anzi la rivelazione di una irrinunciabile verità: non è la violenza che ci fa uomini e che tiene insieme la società, la civiltà. È al contrario il suo rifiuto, la necessità di tenerla lontana dalle nostre vite. Il boia del deserto, che ammazza uomini inermi, suscita in noi il più grande orrore e la più grande collera. Ma proprio così ci ricorda che siamo uomini, che da questa parte del mondo mettiamo la nostra umanità nel rifiuto della violenza e della morte, non nella furiosa signoria sopra di essa.
C’è una storiella ebraica raccolta da Martin Buber, la quale narra del Rabbi di Kozk che chiese una volta a un chassid: «Hai visto un lupo?». «Sì», rispose quello. «E hai avuto timore?» «Sì», rispose ancora. E il maestro: «Ma in quel momento hai pensato che avevi timore?». «No», fu la risposta. «Ho soltanto avuto timore». «Così – concluse il Rabbi, «si deve fare con il timore di Dio». E così si deve fare in ogni autentica risposta dinanzi al male: non perché manchino le ragioni, e le spiegazioni e i pensieri, ma perché prima di essi, molto prima di essi, in un fondo più fondamentale del nostro essere, viene l’uomo, il nostro senso di essere uomini, e non lupi. Non ha riportato alcun vittoria, il boia di Steven Rotloff, e non la riporterà, perché non ha cancellato ma al contrario ha scritto indelebilmente nella nostra esperienza storica – e anche nella politica che vogliamo – da cosa dobbiamo veramente guardarci, se e in quanto siamo uomini: non dall’aver paura o disgusto, ma dal non averne più.
(Il Mattino, 3 settembre 2014)