Non vi è un unico anti-europeismo. Ma questo non vuol dire che i vari fronti non possano saldarsi, e mettere definitivamente in crisi l’Unione europea. L’indipendentismo scozzese, che nel voto di ieri ha mostrato tutta la sua consistenza, sgorga da una storia plurisecolare. Ma ciò non toglie che sfoci nel pelago in cui nuota oggi, con sempre maggiore difficoltà, l’esperimento politico europeo. I populismi e i nazionalismi che punteggiano la mappa dell’Europa hanno segni distintivi propri, specifici, peculiari, e però il messaggio che trasmettono a Bruxelles ha almeno un denominatore comune: vuoi perché lontana, vuoi perché tecnocratica, l’Europa non ce la fa ancora a rappresentare la collettività di cui ciascuno può sentirsi parte. E nella crisi economica e sociale in cui da troppi anni si dibatte, le piccole patrie riprendono spessore, proprio come si rinfocolano gli umori populisti . Non importa che vi possa essere contraddizione fra le une e gli altri, e ad esempio (per restare oltre Manica) che il leader indipendentista dell’Ukip, l’euroscettico Nigel Farage, trionfatore nel voto europeo di maggio, si sia apertamente schierato contro la secessione scozzese; importa che, nell’effetto, tanto le spinte populiste quanto gli impeti nazionalisti suonino come acuti campanelli d’allarmi per le istituzioni europee.
La cui storia – la storia della costruzione dello spazio politico continentale nella seconda metà del Novecento – presenta un tratto singolare, che sarebbe importante ricordare: fondata anzitutto sulla cooperazione fra gli Stati nazionali, la comunità europea ha progressivamente modificato i suoi assetti di governance, per investire di sempre maggiori responsabilità le autorità regionali e locali. La logica che vedeva nella partecipazione alla vita comunitaria solo un ramo della politica estera è stata da tempo accantonata. Questo processo ha però avuto corso in due opposte direzioni: verso il più alto livello delle degli organismi e delle istituzioni sovranazionali sono state sospinte molte decisioni fondamentali, mentre verso il livello più basso dei poteri locali si sono ritratti i motivi identitari, cioè quelli su cui si fonda il senso della comunità e, anche, buona parte della legittimità politica. Questi fenomeni sono a fatica inseguiti, quasi mai preceduti dalle formule giuridiche con cui si provano ad articolare i programmi regionali, le politiche di coesione,i federalismi, gli autonomismi e i regionalismi più o meno avanzati che modificano gli assetti politici nazionali. Di fatto, però, il risultato sembra essere piuttosto, in alto, un deficit di democrazia, e in basso un surplus di risentimento, di animosità e di astio antieuropeo.
Invero le identità locali, proprio come i caratteri regionali, sono anch’essi frutto di una costruzione sociale e culturale, sebbene di lungo periodo. Peraltro, è stato in molti casi proprio l’insorgere degli Stati nazionali, nel corso della storia moderna, a produrre di rimbalzo più marcate appartenenze regionali o municipali. Che queste identità siano costruzioni storiche non toglie nulla, naturalmente, né alla loro forza né alla loro incidenza politica e sociale, ma permette di considerarle almeno in termini dinamici: non come dati inamovibili, acquisiti una volta per sempre, ma come grandezze passibili di modificazioni. Il guaio è che le dinamiche oggi innestatesi in Europa vanno in ben altra direzione, e corroborano, non indeboliscono costruzioni identitarie fondate su chiusure e contrapposizioni, piuttosto che sulla cooperazione e l’integrazione.
Il grande scrittore ebreo, il premio Nobel Isaac Bashevis Singer, riflettendo sui drammi e le tragedie del Novecento europeo ebbe una volta a scrivere: «Quando tutte le nazioni si renderanno conto che sono in esilio, l’esilio cesserà di essere». Qualcosa del genere – il sentirsi in esilio in Europa: non però da soli, ma insieme a tutti gli altri popoli europei convenuti insieme – non ha potuto ancora realizzarsi. Né forse potrà realizzarsi mai. Forse è semplicemente un’utopia, qualcosa che non può reggere agli urti della storia, e che shock economici profondi o crisi come quella ucraina possono mettere impietosamente a nudo, smascherando l’inconsistenza politica europea. Eppure, dopo il voto ad Aberdeen, Edimburgo e Glasgow possiamo forse ancora credere che l’ultimo brandello del sogno europeo non sia già volato via.
(Il Mattino, 19 settembre 2014)