Archivi del giorno: settembre 24, 2014

Si fa presto a dire: tutta colpa del Sud

Acquisizione a schermo intero 24092014 184136.bmpComincio a pensare che alla fin fine quel che conta non è il libro. Per carità, al libro di Emanuele Felice, «Perché il Sud è rimasto indietro», la rivista «Il Mulino» nel suo ultimo fascicolo dedica una sezione intera. Dunque il libro conta, gli storici dell’economia ne dibattono, e anzi, visto che in occasione del centocinquantesimo dell’unità nazionale la questione meridionale non ha avuto particolare attenzione, Felice ha il merito di aver riattizzato la polemica sul ritardo del Meridione e sul suo divario dal resto del Paese. Perlomeno non si tratta più di abolirlo, come provocatoriamente ha scritto Gianfranco Viesti. Michele Salvati, però, presentando il libro, sembra quasi dimenticarsi della promessa contenuta nel titolo. A lui interessa anzitutto tesserne meritoriamente le lodi: chiarezza, scorrevolezza, rigore, affidabilità. Ben fondato l’approccio metodologico, ben orchestrati i dati. Tutto bene, insomma: ma il libro di cosa parla? Chi leggesse il saggio di Salvati che apre la rivista non avrebbe molti dubbi: il libro parla di quanto fossero arretrate le regioni meridionali al momento dell’unificazione, cioè ai nastri di partenza della storia nazionale unitaria. Scrive Salvati: «La verità è un’altra. Il governo borbonico, specie nel periodo in cui altrove in Italia e in altri paesi ritardatari  creavano le premesse istituzionali dell’imminente sviluppo capitalistico, si pose controcorrente […] esasperando quei tratti reazionari, regressivi ed estrattivi che avrebbero condannato il Mezzogiorno alla minorità economica e istituzionale nella successiva fase unitaria». La condanna borbonica! Come potrà mai uscire il Sud dallo stato di minorità se grava su di esso la plurisecolare condanna?

Ora il libro, in effetti ne parla, non foss’altro perché al lavoro di ricostruzione dei divari economici regionali Felice si dedica da parecchio tempo. E siccome altri studiosi hanno sostenuto che nel 1861 tra Nord e Sud non c’era tutta questa differenza, Felice mette la massima cura possibile, con i dati disponibili, a confutare la tesi che nega l’arretratezza delle regioni meridionali a quella data. Dibattito utile e da seguire con attenzione. Dopodiché il libro, bontà sua, continua, anche se Salvati sembra aver interrotto la lettura. Siccome però la tesi di fondo gli è chiara, e cioè che a penalizzare il Sud è stato un contesto istituzionale volto all’estrazione della rendita a favore di una ristretta élite di privilegiati, cosa fa? Illustra la tesi con riguardo al solo periodo borbonico. E il gioco è fatto, il Sud condannato e Salvati appagato. Ma cosa dice invece il titolo? Non solo che il Sud era indietro (al tempo dei Borboni, che tanto ci dispiacciono), ma soprattutto che ci è «rimasto». Fatti salvo un paio di decenni nel secondo dopoguerra, grazie alla Cassa per il Mezzogiorno, il Sud è «rimasto» indietro.

Certo, se si vuole polemizzare con il presunto revival neoborbonico, è sufficiente gettare la croce addosso alle vecchie strutture del Regno napoletano e farla finita lì, con la questione meridionale. Ma se invece si vuole riflettere sulle vicende dello Stato unitario, e si vuole capire dove siamo adesso e perché stiamo dove stiamo, non basta salvarsi come si salva Salvati. A leggere il quale si finisce col pensare che centocinquant’anni saranno pure passati, ma per via dell’atavica condanna i meridionali sono rimasti né più né meno che i borbonici di una volta. Si capisce allora che se la prendano coi piemontesi, che parlino di annessione, di guerra di conquista, di colonizzazione: stanno ancora fermi a Re Ferdinando e a Franceschiello. Ecco come dunque Salvati legge il libro: non perché il Sud è rimasto indietro, ma perché è rimasto borbonico o, al massimo, neoborbonico.

Troppo comodo. Troppo facile. Ha ragione anzitutto Leandra D’Antone, che nel suo intervento ricorda quali e quanti siano stati gli apporto della classe dirigente meridionale alla costruzione dello Stato unitario: da Nitti a Menichella, da Crispi a Beneduce. Ma hanno ragione un po’ tutti gli interventi che la Rivista ospita, e che del libro di Felice riconoscono il valore, ma insieme offrono diverse chiavi di lettura, diversi spunti di discussione, diversi motivi di approfondimento. Se infatti non si nega che qualcosa nel distorto sviluppo del Paese non ha funzionato non basterà prendersela con la complicità e la connivenza delle nefande (anzi borboniche) classi dirigenti meridionali, se non altro perché, per essere complici e conniventi, bisogna essere complici e conniventi di qualcun altro. E chi è e dove sta quest’altro? Distorcere o frenare lo sviluppo del Paese non lo si poteva certo fare – né oggi lo si può fare – solo da Napoli o da Palermo: bisogna che la cosa interessi anche a Roma e a Milano. E non lo si dice certo con un intento risarcitorio o recriminatorio (il quale poi, se tanto preoccupa «Il Mulino» e Michele Salvati, farebbero meglio a cercarlo più su, al Nord). No, non per puro spirito rivendicazionista, o per fare la Lega del Sud, ma al contrario:  per un senso alto della politica nazionale, della sua responsabilità e dei suoi compiti. Che comunque vengano intesi, non possono mai risolversi nel volgere le spalle alle aree più arretrate del Paese con un volgare:  «arrangiatevi!». Da «arrangiatevi!» ad «arrabbiatevi!» il passo, peraltro, è breve: meglio non suggerirlo, nemmeno sub liminalmente.

(Il Mattino, 24 settembre 2014)