Archivi del mese: ottobre 2014

Il vecchio e il nuovo che si somigliano

Acquisizione a schermo intero 30102014 104723.bmp«Renzi al governo coi poteri forti», e «la Camusso alla guida della CGIL grazie alle tessere false». Accuse specchio con la firma autografa della stessa Camusso, e dell’eurodeputata Pina Picierno. Il vecchio e il nuovo che si somigliano fino a confondersi. Il vecchio e il nuovo in versione rozzamente caricaturale, non so se volutamente farsesca, di sicuro degna non di un vero dibattito politico, ma di un’opera da avanspettacolo.

Il segretario generale della CGIL ha molti motivi per essere soddisfatta della manifestazione di sabato: la gente in piazza c’era, il segnale politico è arrivato. Ma non ha alcun motivo per lanciarsi in un attacco così poco riguardoso nei confronti del governo e del presidente del Consiglio. In un attacco personale, portato con l’argomento più polveroso che a sinistra sia possibile reperire: l’ombra dei poteri forti che si allungano sulle istituzioni democratiche. Se una cosa è chiara, infatti, nella vicenda politica italiana di quest’ultimo anno, è che Renzi ha un consenso reale e di vasta portata nel Paese. Quel consenso si è manifestato in tutte le occasioni in cui ha potuto manifestarsi: nelle primarie e nelle successive elezioni europee, così come nei voti espressi in Parlamento e nel suo partito, il Pd. C’è da scommettere che, si andasse al voto domani, si manifesterebbe un’altra volta. Dunque la Camusso non ha alcun motivo per fare illazioni sulle ragioni per cui oggi Renzi siede a Palazzo Chigi: nessuno. Se d’altra parte si volesse chiamare «manovra di Palazzo» il modo in cui Renzi è succeduto a Letta, si dovrebbe perlomeno riconoscere che la manovra è riuscita per un’unica e sola ragione: il consenso di cui sopra. Parliamoci chiaro: Letta si è dimesso non perché Marchionne gli ha telefonato, pregandolo di accomodarsi alla porta, ma perché non godeva più dell’appoggio del suo partito. La Fiat non c’entra nulla, e nulla c’entrano i fantomatici poteri forti evocati dalla Camusso: che peraltro fa un inutile torto alla sua confederazione se si acconcia in questo modo a considerarla un potere debole. La Camusso, in realtà, non è un povero Don Chisciotte in lotta contro i mulini a vento; è il capo del sindacato italiano più grande, che ha deciso di mettere tutto il peso della propria organizzazione per frenare la riforma del lavoro voluta dal governo. Non è poco, e proprio perciò non è il caso di inventarsi polemiche speciose, ma di stare semmai al merito delle proposte di governo e di replicare su quelle.

Ma ancor meno c’entrano le tessere false dei congressi della CGIL, o i pullman pagati per andare a piazza San Giovanni. Che un esponente di spicco del maggior partito italiano, che governa il paese, capolista alle Europee, non trovi di meglio, per respingere critiche e obiezioni, di muovere attacchi denigratori nei confronti dell’interlocutore fa veramente cadere le braccia. Se questa è la cultura politica che esprime il nuovo, che diventi subito vecchio pure questo. Pina Picierno poteva prendersela con le idee del sindacato, con il conservatorismo del sindacato, con il corporativismo del sindacato, con la perdita di rappresentanza del sindacato: con qualunque cosa fosse venuta fuori nel dibattito di queste settimane sul Jobs Act. Non poteva però e non doveva provare a delegittimare la figura stessa del segretario generale, né offendere le centinaia di migliaia di persone scese in piazza, secondo lei, solo perché retribuite. Tanto più che non sono affatto parole dal sen fuggite: il conduttore la interrompe, ma lei, con una tenacia degna di miglior causa, non demorde affatto e anzi fa di tutto per arrivare fino in fondo, per dire proprio quello che ha detto. Poi, certo, nel pomeriggio corre ai ripari, si scusa, chiarisce, precisa. Ma a parte le scuse, che sono sempre benvenute, cosa c’è da precisare? Qualunque cosa intendesse dire con quelle parole, non è possibile estrarre da esse altro che motivi di una polemica diretta contro la persona.

A leggere insomma le une e le altre dichiarazioni, c’è da ritenere che sia la Camusso che la Picierno credono molto poco alle loro stesse ragioni, se provano a sostenerle con questi argomenti. E la colpa non può essere sempre dei giornali, del talk show, della politica spettacolo che richiede dichiarazioni ad effetto, della personalizzazione o di non so quale altro inarrestabile fenomeno. È colpa anche di chi se ne fa interprete, e del modo in cui lo fa. Perché un altro modo c’è, ci deve essere, e forse persino altri interpreti. O almeno lasciatecelo credere.

(Il Mattino, 30 ottobre 2014)

Non pieghiamo Leopardi alla città di oggi

Acquisizione a schermo intero 27102014 101420.bmpGiacomo Leopardi, Zibaldone: «Il clima d’Italia e di Spagna è clima da passeggiate e massime nelle loro parti più meridionali». Bisogna dunque che ci si domandi se, con un tal clima, in queste nazioni ci si dedichi all’arte della conversazione, arte e costume civile e civilizzatore quant’altri mai. Arte salottiera e illuministica, moralistica e letteraria, borghese e mondana. Ma la risposta è no: l’Italia non è la patria della civile conversazione. A Napoli, per esempio, «si fanno tuttodì partite di piacere, ma non di conversazione, e si chiacchiera assai, e si donneggia, ma non si conversa».

Ora, la Napoli che si vede nel film di Mario Martone non è certo un luogo di fiorite conversazioni. Colori rossi e scuri, meretrici e lazzaroni, grida e pestilenze, e sopra ogni cosa il fumo e la lava ardente del «formidabil monte, sterminator Vesevo». Ma poche volte Giacomo conversa, in verità, lungo tutto il film: non si conversa a casa del padre Monaldo, tra i libri della biblioteca paterna e le sudate carte e lo studio disperatissimo. Giacomo fugge, e raggiunge Firenze, ma neanche lì il giovane poeta si trova a suo agio, poco incline a fare conversazione alla maniera della società letteraria dell’epoca. Non si conversa neppure a Napoli, dove il poeta è trascinato nei gironi infernali della città. Ma anche quando siede al tavolino di un caffè sorseggiando un gelato, sotto il colonnato di piazza Plebiscito, non è affatto per scambiare parole e pensieri con gli altri avventori.

C’è in generale molta poca voglia di parlare «civilmente» lungo tutto il film: voglia di vivere forse, ma nessuna voglia di parlare. O di pensare. I «sovraumani silenzi» incombono, e rischiano sempre di dilagare sopra le poche parole spese e dopo ogni tentativo, da parte del giovane Giacomo, di abbracciare più intimamente la vita. I pensieri rimangono così chiusi nei fogli che Leopardi porta con sé in tutti i suoi spostamenti, in una massa di riflessioni che quasi mai sono rivolte al suo secolo e che disegnano, nella trama del film, un altro luogo: mai pubblico, e mai politico. E in verità proprio per questo raggiungono noi, molto più di qualunque altra parola sia appartenuta all’Italia della prima metà dell’Ottocento. Non è sorprendente perciò che il film di Martone convinca di più quando ci tocca con quelle parole, e quando ci permette di misurare la distanza fra quelle parole – potenti, lucide, spietate – e il mondo circostante: Napoli e l’Italia dell’epoca. È la distanza che Leopardi stesso sperimenta: non a proprio agio nell’orizzonte tradizionale del cattolicesimo legittimista del padre, ma neppure tra le «magnifiche sorti e progressive» che si cercano o si indovinano nei salotti e nei gabinetti scientifici, ai tavolini dei bar o, più tardi, nelle piazze, e che saranno celebrati per tutto il secolo decimonono, secolo «superbo e sciocco».

Ma Napoli, nel film, non appartiene a Leopardi come Leopardi non appartiene a Napoli. «Ranieri mio caro» scrive una volta Giacomo all’amico napoletano «la vita che ho non è tanta, che abbia forza di ammazzarmi». Vita e pensiero non si incontrano, e non c’è nel film un solo pensiero che Napoli dia al poeta, nulla che non siano le aride pendici del Vesuvio. Può darsi che Martone abbia indugiato un po’ troppo sull’amore mercenario e i diavoli che abitano i bassifondi della città, ma più che la rappresentazione offerta da Martone della città dove Leopardi trascorre gli ultimi anni della sua breve vita, più del cielo amabile e pur dell’aria «colerosa» che Leopardi vi incontra, è una domanda metafisica, sul senso stesso dell’esistenza, che mantiene Napoli sullo sfondo del film, e, forse, della storia. Nel secolo delle più ardenti passioni politiche, della formazione dello Stato nazionale, della questione sociale, delle rivoluzioni, il pensiero di Leopardi ha disegnato per sé altri percorsi. Chi volesse riflettere sul destino di Napoli, non dovrebbe allora fare la recensione di quanti cieli azzurri si vedono nel film, o di quante inquadrature sono dedicate al Vesuvio o al golfo, o di quanta musica e di quanto chiasso si ascolti, ma di quanti e quali pensieri Napoli abbia bisogno per trovare le vie della modernità. Di quali conversazioni. Perché però chiederlo a un film, e a un poeta, che quelle vie guarda da una profondissima distanza? Di accorciare quelle distanze tocca a noi, oggi, senza piegare la «varia filosofia» di un pensatore così potentemente inattuale alla misura sempre angusta del nostro difficile presente.

(Il Mattino, 27 ottobre 2014)

Il sindacato affronti la sfida della modernità

ImmagineE adesso che strada prenderà la CGIL? La manifestazione di ieri è un robusto invito al governo a tornare sui propri passi e a rimettere mano al Jobs Act. Ma il governo tirerà dritto, e a quel punto la domanda rimbalzerà all’indietro, di nuovo sulle spalle del maggior sindacato italiano. Renzi, infatti, ha già deciso: cosa deciderà Susanna Camusso? Dal palco di San Giovanni il segretario della CGIL (questa volta sostenuta da Landini) ha detto chiaro e tondo che il sindacato andrà avanti, e non esiterà a proclamare lo sciopero generale. Ma non è questa la decisione fondamentale che il sindacato deve prendere. Perché la grande mobilitazione a di ieri si è raccolta intorno alla riforma dell’articolo 18, peraltro già modificato dalla Fornero all’epoca del governo Monti (senza analoghe manifestazioni di piazza). Si è avuta cioè su un punto che mette ormai in discussione il ruolo del sindacato, la sua rappresentanza e il suo potere nell’ambito delle relazioni industriali, prima e più ancora che la condizione dei lavoratori, che è ormai articolata in una pluralità di figure, sempre più lontane da quella normativa, e sempre più interessate ad altre forme di garanzia. Si comprende così perché Renzi sia tanto determinato nel mantenere il punto, senza recedere di un passo e nonostante la grande piazza di ieri. Il fatto che, d’altro canto, non vi siano leader capaci di rilanciare sul piano politico le ragioni di ieri non è per niente una congiuntura sfortunata, o una semplice iattura: è, invece, una conseguenza del restringersi, in termini di fiducia e di rappresentatività nei luoghi di lavoro, dello spazio del sindacato. Che può dunque portare in piazza i suoi, e portarli tutti, ma non convincere gli altri.

Si tratta d’altra parte di un fenomeno che investe tutti i corpi intermedi della società, compresi naturalmente i partiti: Renzi lo sa e ne approfitta. È legittimo anzi il sospetto che, al di là del contenuto economico, i provvedimenti che va annunciando sugli ottanta euro – da ultimo alle mamme e ai bebè – siano decisi e sostenuti anche simbolicamente per il fatto che non richiedono, per essere esigiti, la mediazione rappresentativa di un soggetto politico o sindacale.

Ora, se la piramide sociale del fordismo è franata – e con essa anche le figure e i contenitori tradizionali in cui si componeva la società: il partito, il sindacato, la classe – sta al governo dimostrare che è capace di tenere unito il paese puntando sullo sviluppo (e non sulla competizione al ribasso via dequalificazione del mondo del lavoro, come suona l’accusa), ma ai sindacati sta di assolvere un compito ancor più impegnativo, e cioè di parlare anzitutto della moltitudine di precari costretti nella selva delle mille differenti tipologie contrattuali, di tutti quelli che non solo non hanno un lavoro stabile, ma neppure più lo cercano, della piaga del lavoro nero, del mondo sempre più vasto dell’immigrazione, delle sempre più estese sacche di marginalità sociale ed economica.  L’art. 18 non può fare da paravento a tutto questo.

Il fatto è che la CGIL sta di fronte ad un bivio classico, più volte presentatosi nella storia del movimento operaio, non solo nazionale. Lo si può formulare così: non c’è legge inderogabile, non c’è forza di contrattazione collettiva, non c’è rappresentanza sindacale che possa dare al lavoratore di più di quanto può dargli un posto di lavoro, in termini di tutela della sua dignità, della sua forza e della sua capacità di far valere i propri diritti ed essere presente nella società. È un dilemma (e uno scambio) che il sindacato ha sempre cercato di respingere come falso, così come ha sempre dovuto respingere l’idea che si possa compromettere la dignità del lavoro in cambio di buste paghe più sostanziose, o di più occupazione. Ma il fatto è che senza una prospettiva autenticamente riformista, e innovativa, rifiutare quello scambio somiglia sempre di più ad una mera difesa corporativa dei propri ranghi sempre più serrati ma sempre meno fitti.

Di fronte all’accusa, rivolta alla sinistra europea, di essere ormai una forza conservatrice, Tony Judt replicava: e perché non dovrebbe esser così, quando si ha la sensazione che diritti vengono sottratti? C’è un punto di verità in queste parole. Ma la conservazione finirà con l’apparire residuale, e infine nostalgica e regressiva, se non si saprà unire all’invenzione di nuovi terreni di rivendicazione e di emancipazione. La piazza di ieri, allegra colorata e rumorosa il giusto ma tutta raccolta intorno alla difesa dell’articolo 18 e a una evidente esigenza di autorassicurazione, non sembra pronta a muoversi su nuovi terreni di sfida.

Certo, nessun paese moderno libero e democratico può vivere senza sindacati. È sperabile che anche Renzi lo creda. Ma non bisogna dimenticare che è vero anche il contrario: nessun sindacato può vivere, se non in un paese capace davvero di stare nella modernità.

(Il Mattino, 26 ottobre 2014)

Riforma giustizia, attenti ai passi indietro

riforme-renzi-berlusconi-con-indulto-e-amnistia_65949Uno dei punti qualificanti del programma del governo Renzi è la riforma della giustizia. Data la rilevanza della materia, è comprensibile e salutare che l’attenzione ad essa prestata delle forze politiche e dall’opinione pubblica sia massima. Per questo, dopo qualche burrasca in Commissione Giustizia, si attendeva con apprensione la precisazione giunta ieri, in serata, sulle intenzioni del governo in tema di responsabilità civile dei giudici. Fonti del Ministero parlavano di una «riproposizione pedissequa», negli emendamenti al testo in discussione, di quanto già previsto nel disegno di legge approvato in Consiglio dei Ministri. Si lascia cioè intendere che non è alle viste alcun passo indietro. Mai pedanteria fu più apprezzata. Perché invece il rischio che la riforma si snaturi cammin facendo esiste.

Il tema è ovviamente delicato. Insieme all’obbligatorietà dell’azione penale e alla separazione delle carriere, la responsabilità civile costituisce infatti uno dei pilastri su cui poggia non l’ordinamento giudiziario italiano, ma la posizione di relativo privilegio che in esso occupa la magistratura. Giudizio opinabile, si dirà. Ma non è opinabile che siano state pochissime, nel quarto di secolo trascorso dalla legge Vassalli, le volte in cui un giudice è stato chiamato a rispondere del proprio operato. Così come non è opinabile che il nostro Paese sia stato sul punto richiamato dall’Unione Europea. Questa riforma dunque s’ha da fare, e non può non farsi almeno secondo quanto si era visto nelle linee presentate in agosto dal ministro Orlando: un ampliamento consistente ed effettivo dell’area di responsabilità del giudice, il superamento di ogni ostacolo frapposto all’azione di rivalsa del cittadino nei confronti del giudice, la certezza che lo Stato si rivalga a sua volta nei confronti del magistrato. Bisogna perciò augurarsi che le schermaglie in commissione, gli emendamenti e i subemendamenti non si traducano nell’annacquamento di nessuno di questi punti. Che non sono ispirati da propositi punitivi o intimidatori nei confronti del giudici, ma da principi di civiltà giuridica accolti peraltro già da altri paesi dell’Unione.

Il Presidente del Consiglio, nelle scorse settimane, ha puntato l’indice contro le ferie spropositatamente lunghe dei magistrati. Ha fatto bene. Non solo perché quelle ferie sono effettivamente troppo lunghe e anzi incomprensibilmente lunghe, ma perché bisognava evidentemente sollecitare la forza politica e il consenso necessario per portare a termine la riforma, superando le resistenze corporative dell’associazione dei magistrati. È inutile negarlo, infatti: quelle resistenze ci sono, e sono forti. E non faticano a manifestarsi. Ma vincerle non significa solo accorciare le ferie, bensì tener fermi i punti qualificanti del disegno di riforma. La responsabilità civile è uno di questi.

Fin dal discorso al Parlamento dell’aprile scorso, il ministro Orlando aveva insistito su alcuni elementi di efficientazione del servizio giustizia, che promettono, se attuati, un significativo miglioramento del sistema. Aveva illustrato gli interventi previsti per ampliare lo spazio della giurisdizione volontaria,  e il ricorso all’arbitrato. Aveva annunciato provvedimenti  in materia di personale e di riorganizzazione degli uffici.  Aveva insistito sull’implementazione delle nuove tecnologie informatiche nelle differenti fasi processuali e sull’introduzione del processo civile telematico. Passi avanti importanti, per ridurre i tempi e migliorare la qualità dei servizi erogati, per i quali la legge di stabilità stanzia finalmente qualche fondo. Ma è chiaro che l’ambizione riformatrice non può fermarsi all’informatizzazione degli uffici giudiziari o all’introduzione del reato di autoriciclaggio, su cui pure fieramente si discute. Contano certo anche i dettagli, ma conta ancor di più il disegno complessivo. Se alla fine avremo tutti i documenti online e qualche giorno di ferie in meno per i magistrati, ma dovesse rimanere la sostanziale impunità dei magistrati, sarà difficile parlare di riforma sul terreno più importante per il Paese: quello delle libertà e dei diritti fondamentali.

(Il Mattino, 22 ottobre 2014)

Le grida per nascondere il declino

ImmagineSiamo sempre là: tra i Cinque Stelle si leva qualche voce di dissenso, un principio di critica, una richiesta di discussione, e Beppe Grillo risponde con le espulsioni. Questa volta a raffica. Al Circo Massimo era andata in scena l’occupazione del palco da parte di quattro attivisti del movimento, con tanto di striscione e una richiesta di trasparenza nelle procedure e nei metodi usati da Grillo e Casaleggio. Tempo qualche giorno ed è arrivata la risposta che più chiara e netta non si può: i quattro sono stati sbattuti fuori. Con la leggerezza di un twit. Cerchiati di rosso sulla foto e messi senza tanti complimenti alla porta. Qualcuno, commentando sul blog, si affanna ancora a chiedere chi mai abbia preso la decisione, e perché i precedenti provvedimenti di espulsione siano stati votati in rete mentre questa volta si è proceduto per direttissima, senza neppure il paravento del voto online. Ma per dirla col sommo poeta: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare. Quelli tra i pentastellati che faticano ancora ad allinearsi e continuano invece a «dimandare», tra imbarazzo e sconcerto, come se ci fossero ancora dubbi su «chi puote» –  cioè Grillo –, e su quel che vuole – cioè non rispondere a nessuno di ciò che decide – fanno quasi tenerezza. Ma si adegueranno.

Due ordini di considerazioni possono essere proposti a questo punto. Il primo riguarda le difficoltà politiche del movimento. Che sono evidenti, e per la verità pesano dal giorno in cui i grillini sono entrati nelle istituzioni. Del tutto impreparati alla dialettica parlamentare: non (o non solo) per limiti di esperienza o di competenza, ma perché ideologicamente avversi alle forme della mediazione politica. Ve lo vedete un grillino fare la battaglia su un emendamento? Scendere a compromessi, contrattare su una nomina, accettare la logica del «do ut des» e soprattutto rivendicarla? Per un grillino che prova a farlo (qualche volenteroso in realtà c’è), ci saranno almeno dieci utenti della Rete che si indigneranno: da quella parte la strada dunque è preclusa. Però intanto in Parlamento i grillini ci stanno, e da quando Renzi è al governo devono prepararsi a starci a lungo, visto che la legislatura non accenna a finire. I numeri con cui i Cinque Stelle sono entrati in Parlamento facevano sperare loro di riuscire a paralizzarne l’azione. Ma non sta andando così, e dinanzi alla pretesa, gridata in piazza dal giorno del Vaffa Day fino alla festa del Circo Massimo, di fare tabula rasa dei partiti, delle Camere, della stampa, dell’Europa, della casta e di tutto, nessun lavoro in commissione o tra i banchi di Montecitorio può reggere il confronto. Immancabilmente arriva dunque l’ordine di serrare i ranghi e sperare –  che so –  nelle alluvioni o in una nuova ondata di inchieste giudiziarie, ma di fare politica proprio non se ne parla. I grillini non hanno alle spalle una cultura che consenta loro di dialogare con le altre forze parlamentari. Alla spicciolata alcuni fra di essi possono stufarsi dei proclami di Grillo, o Grillo stufarsi di alcuni di loro, ed espellerli, ma, per ora almeno, non sembra proprio che il Movimento sia fatto per un cambio di strategia diverso da una pura e semplice radicalizzazione dello scontro. Anche la parte più ragionante del movimento, che pare faccio capo al vice presidente della Camera, Luigi Di Maio, edifica su un terreno che Grillo impiega due secondi a far franare. Due secondi o un post sul suo sito.

Il secondo ordine di considerazioni riguarda il rapporto fra il movimento e la Rete, perché ci sono quelli che dicono che, tutt’al contrario, grazie alla Rete il movimento attinge una qualità democratica persino superiore a quella che si esprime nella forma della rappresentazione parlamentare. In rete e sul blog (di Grillo) ognuno vale uno. È chiaro però che se vali uno vali niente, e ci vuole un attimo per metterti alla porta. La democrazia diretta si sposa egregiamente con l’espulsione diritta e filata.

Ma sull’equivoco del preteso iperdemocraticismo del movimento ha scritto parole temo definitive uno dei più interessanti studiosi del web, Evgeny Morozov, che alla domanda sulla cultura di internet e sul suo ruolo nei processi politici italiani ha così risposto:

«Ovviamente, Grillo e i suoi luogotenenti non vogliono essere visti come un partito marginale, con programmi ambigui: i paragoni storici, purtroppo, non giocano in loro favore e incuterebbero paura. Così preferiscono giocare la carta di Internet e pretendere di essere solo la naturale e inevitabile conseguenza dell’era di Internet. Ma io penso che tutto questo parlare di ‘era’ –  lo Zeitgeist e lo spirito di internet –  sia in gran parte privo di senso».

Il senso infatti è un altro, e gli scomodi paragoni storici tornano inevitabilmente a mente ogni qual volta Beppe Grillo trova nuovi motivi per espellere qualcuno. E anche se non ne trova.

(Il Mattino, 21 ottobre 2014)

I democrat e le primarie

ImmE così la direzione del partito democratico slitta: slitta la data delle primarie, slitta e svicola dalle difficoltà del suo partito il vicesegretario nazionale Guerini, in trasferta al Sud, e per la verità tutto il Pd campano sembra lentamente ma inesorabilmente slittare. Verso quale deriva non è dato sapere.

Quel che è certo, è che fissare la data delle primarie a gennaio – come pare sia intenzione dell’attuale dirigenza del Pd – significa che non si sa più quali pesci prendere. Perché la sfida delle regionali è prevista per la prossima primavera: spostare in là, il più in là possibile la scelta dello sfidante di Stefano Caldoro significa concedere al governatore uscente un bel vantaggio. E, certo, significa anche provare a indebolire le candidature che si sono già profilate. In ordine di apparizione: Angelica Saggese, Vincenzo De Luca, Andrea Cozzolino. Ora, a parte la prima candidatura, che obiettivamente è debole di suo, le altre due appaiono le uniche candidature forti di cui attualmente il Pd disponga. Quindi, se la logica non è un’opinione, nel Pd stanno giocando a indebolire le sole candidature forti a loro disposizione.

La prima questione che questa sopraffina strategia della lentezza e del rinvio solleva è: che razza di gioco è questo? Il partito democratico è nato con la mistica delle primarie. Si è inventato persino delle improbabili parlamentarie, strette fra Natale e Capodanno, pur di mantenere fermo il principio che bisogna dare agli elettori possibilità di esprimersi anche sulle candidature. E tuttavia le primarie non sono ancora diventate uno strumento fisiologico della vita del partito, visto che ogni volta vengono in discussione non i candidati ma le regole, le firme, i tempi, le date. (E magari, dopo la competizione, i garanti e i probiviri, i ricorsi e le commissioni di garanzia). Così l’annuncio delle primarie è come l’apertura di una ferita, che poi nessuno riesce a chiudere. Rimane aperta, comincia a fare infezione, diventa una piaga. È successo, e forse rischia di succedere daccapo. Per insipienza, difetto di coraggio o eccesso di tatticismo, ma il rischio c’è. Se tenessero a vincere, i democrats la farebbero finita lì: annuncerebbero tempo e luogo, una stretta di mano e via: aprirebbero la sfida. Invece nicchiano, tergiversano, rimandano a data da destinarsi. «Perché è scomparso il piacere della lentezza?», si domandava in un suo romanzo Milan Kundera. Non è scomparso: ha preso casa nel Pd.

La seconda questione è, se possibile, ancora più preoccupante della prima. È evidente che tutta questa manfrina non si farebbe se i candidati in campo raccogliessero unanime soddisfazione, e soprattutto se gli insoddisfatti avessero il coraggio della competizione in campo aperto. Ma così non è; di qui le vie traverse e i tatticismi. Il fatto è che però il loro dispiegamento comporta l’impiego di retoriche ed argomentazioni esiziali per il partito democratico. La prima è la storia del vecchio e del nuovo; la seconda è la storia della buona società civile contrapposta alla cattiva società politica. De Luca e Cozzolino sarebbero il vecchio, il Godot che i democratici aspettano sarebbe invece griffato di nuovo. Oppure De Luca e Cozzolino sarebbero politici di professione; il terzo nome che ci vuole deve essere invece un esponente della società civile. Cosa c’è che non va in questi ragionamenti? Nulla: se non fosse che vanno all’incontrario. E cioè: non deve essere il futuro candidato che toglie le castagne al Pd dal fuoco sbaragliando il campo, ma si leva di mezzo il campo, cioè le primarie, per evitare che il futuro candidato finisca lui con l’essere sbaragliato.

È il solito, funesto errore che i dirigenti campani del Pd vanno ripetendo sin dal primo giorno dopo la sconfitta, in Regione e in città: illudersi che i (necessari, per carità!) processi di rinnovamento possano prodursi altrove che nel fuoco della lotta politica. Illudersi che «nuovo» sia la qualità di una persona, e non piuttosto di una politica. Illudersi, e rassegnarsi. Sperando magari che da Roma qualcuno tolga la città e la Regione dai guai. Ma non andrà così: non a Palazzo Santa Lucia, e neppure a Palazzo San Giacomo. Caldoro, invece, le sue battaglie nel centrodestra le ha fatte: nel Pd, a quanto pare, è dai tempi di Bassolino che non si trova chi le voglia fare davvero.

(Il Mattino – Napoli, 20 ottobre 2014)

Le vie del Cristianesimo. Da Paolo all’Europa

copTutti sanno che sulla via di Damasco, Paolo (Saul) cadde da cavallo. Ma negli Atti degli apostoli di cavalli e di cadute da cavallo non si parla affatto: come mai, allora, la caduta di Paolo è diventata addirittura proverbiale? Certo è colpa (o merito) di Caravaggio, che alla conversione di Paolo di Tarso ha dedicato una delle sue tele più straordinarie. Ma il fatto è che l’idea stessa di una conversione, che la caduta di cavallo rappresenta con grande potenza drammatica, è, testi alla mano, perlomeno problematica. Paolo, infatti, non è un cristiano, per la buona ragione che i cristiani, nel suo tempo, ancora non ci sono: ci saranno dopo, proprio sulle orme di Paolo. Paolo, piuttosto, è ebreo, e in quanto ebreo, in quanto fariseo, cioè dall’interno della sua cultura religiosa diventa seguace di Gesù Cristo. Che cosa significa allora per Paolo che non vi sono più ebrei, come non vi sono più greci, non schiavi né liberi, non uomini né donne, «poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù»? Essere cristiani contiene forse una potenza di negazione nei confronti di tutte le identità particolari, di tutte le appartenenze? Dove sono piantate le radici del cristianesimo? E come è possibile, allora, esseri cristiani oggi senza andare oltre l’identità del cristianesimo storico? Credere in Cristo e credere nel cristianesimo sono la stessa cosa o sono due cose diverse?

A queste domande è dedicato il libro di Gérard Rossé e Vincenzo Vitiello, «Paolo e l’Europa. Cristianesimo e filosofia» (Città Nuova, € 22). Il saggio di Rossé contiene un’agile sintesi della ricerca storica ed ermeneutica intorno alla figura storica di Paolo, alla sua critica della Legge biblica e alla sua opera decisiva: la fondazione dell’universalismo cristiano poggiata sulla nuova roccia della fede nel Crocifisso, morto e resuscitato per tutti gli uomini. Ma è nel saggio di Vitiello che sono affacciate le domande più radicali, che investono il senso stesso dell’esperienza cristiana. Vitiello ha dedicato buona parte delle riflessioni degli ultimi vent’anni al tema del cristianesimo e del suo destino. E il tema del destino del cristianesimo si intreccia con quello del destino dell’Europa, visto che l’Europa è, in tutto e per tutto, una creazione cristiana. Se però è vero che essere europei significa non potersi non dire cristiani, non è vero il contrario: essere cristiani non vuol dire essere europei. Di qui la questione posta dalla filosofa spagnola Maria Zambrano, che da alcuni anni Vincenzo Vitiello riprende e rilancia con ossessione: «ciò che l’Europa ha realizzato non è stato il Cristianesimo, bensì, tutt’al più, una sua versione del Cristianesimo. Ne è dunque possibile un’altra, che sia anch’essa europea e, soprattutto, che sia Cristianesimo?».

Non  a caso, il saggio di Vitiello comincia da una data, segnata non sul calendario religioso ma su quello politico e militare della storia del mondo: il 1945, l’anno zero della storia europea. Se si appende a quella data la storia dell’intera civiltà occidentale, si comprende perché l’interpretazione tradizionale di Paolo non soddisfi più la ricerca filosofica di Vitiello. Quell’interpretazione si è infatti tradotta in una concezione «ottimistica» del tempo storico, e in un robusto plesso filosofico-teologico, a cui si è affidato interamente l’universalismo cristiano. Il suo culmine è in Hegel, nel cristianesimo filosofico di Hegel, nel «Dio con noi>, cioè nell’incontro dell’eterno col tempo, con la storia, con la comunità, in cui si realizza compiutamente l’umanità dell’uomo. Nella catastrofe del ‘900, è allora, la sua smentita più radicale.

Proprio però nel centro di questa catastrofe, se non grazie ad essa, diviene possibile fare nuovamente esperienza di un tratto fondamentale del cristianesimo paolino, del cristianesimo delle origini. Lo storico delle religioni Jonathan Z. Smith ha distinto due tipi di religioni nel mondo tardo antico: le religioni del «qui», cioè della casa, dello spazio domestico, delle divinità familiari, e le religioni del «là», cioè del tempio, del santuario pubblico, della città. Al tramonto di quel mondo compaiono però nuove forme di religiosità, che negano tanto il «qui», quanto il «»: sono le religioni dell’«ovunque» («anywhere») per le quali Dio può essere incontrato in ogni luogo: non in un luogo determinato, privato o pubblico che sia. Ebbene, Paolo sarebbe il testimone di una religione per la quale il culto verso Dio può essere esercitato ormai in qualsiasi luogo.

In qualsiasi luogo come, forse, anche in nessun luogo. Dunque: in una radicale «insecuritas». Per Vitiello è questa: l’incertezza, l’insicurezza, la parola chiave dell’esperienza religiosa cristiana, della sua fede e della sua speranza. Speranza vi è davvero solo là, dove non è possibile vedere, o sapere. Nessun orgoglio cristiano, dunque, come nessun orgoglio di noi, buoni europei: non solo la nostra esistenza individuale, ma anche il nostro destino storico rimane così sospeso e affidato al mistero. La Rivelazione cristiana può offrire, dice in ultimo Vitiello, non il suo svelamento, o addirittura la chiave della sua decifrazione, ma solo la sua intima custodia.

(Il Mattino, 19 ottobre 2014)

Se Francesca Pascale detta la linea politica

Acquisizione a schermo intero 17102014 110141.bmpFrancesca Pascale e il cagnolino Dudù. Francesca Pascale al Gay Village. Francesca Pascale allo stadio. Francesca Pascale a cena con il Cavaliere, ospite d’onore Vladimir Luxuria. Francesca Pascale di qui, Francesca Pascale di là. Magari le battaglie che intende condurre sono le più giuste e le più urgenti; magari hanno torto quelli che non le capiscono. Magari è colpa del sessismo della stampa italiana, che quando si tratta di donne non riesce a evitare il pezzo sulla nuova acconciatura o sul nuovo abito. Oppure è colpa della incapacità di tenere da una parte le notizie di politica, dall’altra il pettegolezzo: sta di fatto che, per un motivo o per l’altro, Silvio Berlusconi sembra ormai la copia immalinconita di se stesso, mentre sulla scena sempre più rifulge l’astro splendente della fidanzata.

Ora, finché si tratta di condurre battaglie animaliste al fianco della Brambilla, passi: nel senso che non c’è bisogno di alcuna precisa legittimazione, né politica né elettorale. E a costo di sembrare insensibile ai diritti degli animali, diciamo pure che è comprensibile che Berlusconi rilasci bonario il suo «nihil obstat». Quando poi si bassa ai diritti civili, pazienza se il Cavaliere e Forza Italia, un tempo tutti allineati e coperti sotto il palco del Family Day in difesa della famiglia tradizionale, si trovino spiazzati dall’attivismo della Pascale, che ha deciso di sposare la causa del matrimonio gay. Dopo tutto, su questi temi si può sempre giocare la carta della libertà di coscienza, ed evitare (a denti stretti) prese di posizione di partito. «Spiazzati» però è solo un eufemismo: è tutto scombussolato, tutto messo a soqquadro. Del resto, se tu inviti a cena Luxuria, e non è un’improvvisata dell’ultima ora, non è uno spaghetto veloce ma una cena lunga e amichevole, è inevitabile che ci scappi il selfie (con Berlusconi che sorride tirato), e pure la dichiarazione. E sei costretto a smentire, a precisare, a rassicurare il partito che l’altra sera – una chiacchiera tira l’altra – si è un po’ esagerato. In realtà, il mix di liberalismo, conservatorismo e populismo in Forza Italia non è mai riuscito fino in fondo, ma gli ingredienti si stanno rimescolando un’altra volta. Di nuovo: passi, se non fosse che tutto sembra accadere per caso anziché secondo una ricetta precisa.

Da ultimo, la Pascale ha detto la sua anche su un tema ancor più delicato: quello delle alleanze. Ha detto che le unioni civili alla tedesca sì, sono una buona cosa, ma di sposarsi un’altra volta con il Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano non se ne parla proprio.

Ora, va’ a capire se si tratta di un’attenta strategia politica, messa a punto dopo riunioni e sondaggi e uffici politici di partito, oppure di un’impuntatura della signora, che al traditore Alfano l’ha giurata. Va’ a sapere se la Pascale si avvale di esperti spin doctor, o parla e va significando così, come le ditta dentro (e, per dirla tutta, non sopporta più quei bacchettoni di Ncd).

Il fatto è che non si capisce in quali stanze queste decisioni, se di decisioni si tratta, vengano prese. Se basti la prossimità fisica all’amato Silvio per trasformare in linea politica le ripicche della Pascale. Che se invece non di ripicche si tratta, ma di ponderate valutazioni, allora non è chiaro nemmeno perché non sia il Cavaliere a prenderle.

Ci sarà pure un pizzico di maschilismo in chi lascia affiorare simili dubbi, ma non sarebbe forse strano che Berlusconi tenesse ancora conto del fatto che popolarità e consenso nel centrodestra sono i suoi, e che alle scorse elezioni non ci è mica andato in coppia. Ma a quanto pare non è facile arginare la giovane compagna napoletana: se ti entra in casa come fidata compagna, lei non ci mette nulla a diventare first lady; se dai un ricevimento, lei non sceglie solo il menù o le decorazioni, ma prende subito in mano la lista degli invitati. E insomma: se le dai un dito, lei si prende tutta la mano. E a pensarci, forse la vera, inconfessabile ragione del patto del Nazareno non sta in chissà quali segreti e supremi interessi, ma in ciò: che almeno, con Renzi, il Cavaliere può provare a trattare, mentre con la giovin signora non si scende a patti.

(Il Mattino, 16 ottobre 2014)

 

Peggio Sabina e Fedez o chi li ascolta?

Acquisizione a schermo intero 16102014 113257.bmpMa tu pensa: Fedez, il rapper che siede tra i giudici del programma X Factor, ha scritto l’inno per la manifestazione del Movimento 5 Stelle al Circo Massimo, e due diconsi due deputati del Pd (uno da solo non se la sarà sentita) hanno preso carta e penna per chiedere a Sky, l’emittente del programma, se non intenda prendere provvedimenti per tutelare l’immagine di imparzialità della rete. Senza tanti giri di parole: se possono far accomodare Fedez fuori dalla trasmissione. La decisione è attesa con qualche trepidazione: se passa la linea dura, neanche Jovanotti e Vasco Rossi saranno più al sicuro, anche se – è vero – le loro canzoni non le hanno scritto apposta per il Pd. Però avranno dato il permesso: imparziali non sono, che se ne stiano alla larga dalla tv!

Federico Gelli ed Ernesto Magorno, così si chiamano i due deputati, hanno voluto in realtà ergersi a paladini delle istituzioni, a palafrenieri della Repubblica, perché la canzone incriminata contiene un passaggio scabroso, che riguarda addirittura il Presidente della Repubblica: un invito a testimoniare nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Visto però che l’udienza è già stata fissata, e che Napolitano, avendo dato la sua disponibilità, sarà senz’altro ascoltato, si fa prima a dire (invece che a proibire) che l’invito è stato già ampiamente superamento dalla cronaca, sebbene non dalla fantasia, sia pure solo per poco: contrariamente infatti al parere della Procura di Palermo, non ci saranno Riina e Bagarella ad ascoltare il Presidente. Ma questa è storia di ieri. La storia di oggi ce la regalano Gelli e Magorno, alle cui orecchie sono giunte le note di Fedez ma mai, evidentemente, il vecchio consiglio dell’abate Talleyrand: «surtout, pas trop de zèle!», mi raccomando, siate meno zelanti! Niente: se uno nasce con un vividissimo senso delle istituzioni, non arretra neanche di fronte alle rime incalzanti di un rapper.

Il quale, a sua volta, non deve averci pensato troppo su, nel mettere in musica il nome del Presidente della Repubblica. Ma non perché sia uno sconsiderato o un picchiatello, al contrario: perché deve essere un ragazzo sin troppo giudizioso ed avveduto. Si sarà detto: dove la trovo un’autorità contro cui scagliarmi? Dove trovo ancora una figura istituzionale contro cui cozzare? A venticinque anni, avrò o no diritto anch’io al mio Edipo? E se la figura del Padre è in crisi dappertutto, permettete che me lo cerchi allora dalle parti del Quirinale? Non è così, che si cresce?

E poi: non c’è anche Sabina? Sabina Guzzanti c’è. Lei, pur di cozzare da qualche parte, si è spinta fino a solidarizzare con i poveri boss mafiosi, ai quali la Corte d’Assise ha negato di stare davanti al Presidente della Repubblica. È parso, a lei, che Riina e Bagarella meritassero più comprensione e rispetto di quanta ne meriti Giorgio Napolitano. E il Paese che Giorgio Napolitano rappresenta.

Paese ben strano, visto che è capace di promuovere in un battibaleno Sabina Guzzanti da attrice ed autrice cinematografica ad analista politico e storica di rango. Come se il fatto che il suo film non sia un film da denuncia – ma forse le sarebbe piaciuto pure a lei, come a Fedez, di esser presa di mira da qualche solerte deputato – lo promuovesse automaticamente a film di denuncia. Eh no, non è così facile.

Anzi: è complicato. Così complicato che neanche Fedez si raccapezza. Non lasciatevi intimorire infatti da Gelli e Magorno, e ascoltate l’inno del rapper. C’è tutta la cultura indignata e populista dei grillini – il che ci sta: si tratta della colonna sonora della manifestazione – ma poi c’è anche una rapida invettiva contro «milioni di elettori addormentati da vent’anni davanti ai televisori». Si tratta di un passo esemplare, davvero mirabile: il coraggio della denuncia sociale, l’analisi critica spietata dell’industria culturale, l’osservazione disincantata della società dei consumi, l’accusa contro il potere di manipolazione dei media. Ma un momento: dov’è che siede Fedez? Ah, già: ad X Factor, trasmissione televisiva di punta di Sky. Fa il giudice colà, senza tema di contraddizione. E senza neppure temere di far addormentare – con le sue parole o con la sua musica: fa lo stesso – i suoi ignari spettatori.

(Il Mattino, 11 ottobre 2014)

Venere e l’insostenibile bellezza del nudo femminile

Man rayLa figura femminile della dea, in uno dei quadri più celebri dell’umanesimo fiorentino, la «Nascita di Venere» di Sandro Botticelli, è nella mente di tutti: i capelli biondi mossi dal vento, il capo inclinato, la gamba lievemente flessa. Poi il mare, e la grande conchiglia aperta da cui Venere nasce. E abbiamo in mente anche le parole per celebrarle: grazia, incanto, proporzione, eleganza, armonia.

Eppure le cose non stanno (solo) così. Di altro il quadro è memoria. A spiegarcelo, è il filosofo francese Georges Didi-Huberman, nel suo saggio «Aprire Venere. Nudità, sogno, crudeltà», che l’editore i meritoriamente ripubblica nella collana «Carte d’artisti», a distanza di più di dieci anni dalla prima edizione Einaudi, e a quindici dalla sua uscita in Francia. Didi-Huberman comincia sì dalla Venere ideale, ma basta dare una scorsa ai titoli dei successivi capitoletti per vedere abbandonata la chiarezza cristallina del simbolo ed essere precipitati in una trama di significati in cui del magnifico nudo della dea si scoprono altri, più inquietanti lati.

La fenomenologia della nudità include infatti, l’una dopo l’altra: la nudità impura, la nudità colpevole, la nudità crudele, la nudità psichica, e infine la nudità aperta, aperta nel suo interno, nel suo rovescio, in cui si cela il mistero della carnalità, il buio del corpo dentro la levigata lucentezza della pelle.

La tesi di Didi-Huberman è semplice: la separazione moraleggiante di una Venere ideale e di una Venere naturale, carnale, non si tiene, così come non si tiene la separazione che un grande storico dell’arte, Kenneth Clark, aveva cercato di stabilire fra la «nakedness», ossia la nudità del corpo denudato, inerme, umiliato, e il «nude», il nudo del corpo «armonioso, fiorente, e fiducioso», consegnato alla grande storia dell’arte. Cosa più interessante, tale distinzione non si tiene sul piano teorico, dopo Nietzsche e Freud, ma non si tiene neppure in relazione al capolavoro di Botticelli, a meno di non isolarlo dal suo contesto di senso, rimuovendo le associazioni di idee più o meno imbarazzanti che riportano l’immagine del nudo botticelliano nei territori della sensualità, dell’informe, della crudeltà.

Guardiamo infatti davvero il quadro, lasciando perdere i nostri scipiti ricordi scolastici. Quel che Didi-Huberman ci aiuta a vedere, sulla scorta di Aby Warburg e di Walter Benjamin, sono gli elementi «patetici» e «dialettici» chiusi nell’immagine: la scena umana del desiderio, spostata e quasi nascosta nel tocco del vento che agita i capelli, e la «sfera di crudeltà strutturale» evocata dalla spuma marina, segno della castrazione di Urano, dal cui seme e sangue fiorisce la dea. Il carattere quasi minerale con cui Botticelli scolpisce la figura di Venere (la tempera magra dei colori quasi vitrei, il suo nitore quasi tagliente) valgono dunque come un operazione di isolamento; una rimozione, per dirla con Freud.

Quale lezione se ne può trarre? Che è una pia illusione – e insieme il costrutto ideologico

della storia dell’arte, umanisticamente intesa – pretendere di separare «il tocco di eros» dal «tocco di thanatos», il pudore dall’orrore, la bellezza dall’effrazione e dalla crudeltà, il desiderio di vedere da quello di toccare, e forse anche di colpire. Detto altrimenti, l’uomo non riesce mai a placare, guardando, gli scompigli del desiderio.

Per questo l’ultima Venere raccontata nel saggio di Didi Huberman è quella del Marchese de Sade. Che raccontò del suo viaggio in Italia e delle educate bellezze viste a Firenze, salvo però rievocarle poi nella «Histoire de Juliette». E lì di educato non c’è più nulla, e non c’è immagine attraente che non riveli il suo lato immondo.

Per questo, infine, dalla lettura di queste pagine ricaviamo forse una piccola istruzione anche sul dominio odierno dell’immagine. Sulla non troppo segreta solidarietà fra la rappresentazione patinata della bellezza femminile, proposta da Hollywood, e il suo rovescio, il suo doppio osceno, ossia la dilagante pornografia online.

(Il Messaggero, 12 ottobre 2014)

Il clima è cambiato le regole ancora no

Immagine3Il passaggio che i giudici dedicano, nella motivazione della sentenza di condanna di Luigi De Magistris, alla maniera in cui furono condotte le indagini dall’allora pubblico ministero, titolare dell’inchiesta «Why Not» – e cioè: la violazione consapevole della legge, e il dispregio delle prerogative parlamentari –, merita di essere letto e sottolineato. Si legge – mette conto di ripeterlo ogni volta – a proposito di una condanna in primo grado, e non è affatto escluso che in appello il verdetto possa essere ribaltato, come i difensori del sindaco di Napoli confidano che accadrà. Ma questo è solo l’aspetto penale della vicenda. Quel che intanto apprendiamo appartiene più in generale a una delle pagine più oscure della nostra storia recente, come dice oggi con amarezza e preoccupazione il Presidente Prodi. Secondo i giudici, è stato infatti possibile non che un pubblico ministero incappasse, quasi per disattenzione, in una brutta disavventura, non che inciampasse nel codicillo di qualche vecchia norma desueta, ma che violasse deliberatamente le disposizioni normative poste a tutela della funzione parlamentare. E le violasse al fine di un esercizio arbitrario delle proprie convinzioni di giustizia: ponendosi cioè al di sopra e non al di sotto della legge. Con tutto ciò, quell’inchiesta è finita miseramente nel nulla. Con tutto che non vi fosse alcuna traccia, nel modus operandi delineato in sentenza, di quanto il codice civile espressamente prevede, che cioè spetti al pubblico ministero di raccogliere prove sia a carico che a discolpa degli indagati: ma quanti magistrati oggi, in Italia, si conducono a questa maniera? Quanti posseggono, e soprattutto vivono di una simile cultura giuridica? Dov’è il pubblico ministero che si preoccupa di discolpare tanto quanto si preoccupa di incolpare? Un’inchiesta che ha prodotto enormi conseguenze politiche, visto che segnò la fine del governo Prodi e della legislatura, e sopra la quale è innegabile che altre fortune politiche si siano costruite, appare oggi solo come espressione di un esercizio discrezionale fino all’arbitrarietà dell’azione penale, ed espressione di una cultura giustizialista fino all’esasperazione. Che ha accompagnato, peraltro, tutti o quasi i momenti decisivi della seconda Repubblica.

Si dice: il clima è, almeno in parte, cambiato. Non si può esserne sicuri: quanti oggi, nel Paese, non continuerebbero ad additare come ingiustificati privilegi le forme di tutela riservate ancora all’esercizio delle prerogative parlamentari, e a simpatizzare quindi con un magistrato che le tenesse in spregio, pur di incastrare il politico di turno (e in realtà di rovinarlo, indipendentemente dalla sua innocenza o colpevolezza)? Di sicuro, però, se anche il clima fosse cambiato, le condizioni di contesto non sono affatto cambiate. Le intercettazioni stanno ancora al punto in cui erano al tempo dell’inchiesta «Why Not»; gli avvisi di garanzia dispiegano ancora effetti politici dirompenti molto più che garantire i destinatari; le parti del processo, l’accusa e la difesa, non stanno affatto sullo stesso piano, come pure dovrebbero; la terzietà del giudice spesso è soltanto un ombra; di separazione delle carriere è impossibile parlare, di rivedere l’obbligatorietà dell’azione penale neanche da morti. Il governo Renzi ha presentato invero una riforma, che il ministro Orlando si sta impegnando a discutere con tutte le parti coinvolte. Ma la discussione è ancora in corso, e sembra disperdersi su questioni di dettaglio, incepparsi a causa di resistenze corporative, nascondersi dietro i mille problemi della macchina della giustizia. E invece bisognerebbe farci su un investimento politico vero: chiaro, inequivoco, coraggioso, perché è in gioco non la seconda edizione di qualche capitolo dei manuali di diritto o di politica, ma la possibilità di scrivere nuove pagine della nostra storia politica, meno buie di quelle in cui finì il governo Prodi. La qualità di una democrazia è inquinata certo, e soprattutto, dal malaffare, ma anche distorta, e non poco, dall’esercizio arbitrario del potere giudiziario.

(Il Mattino, 9 ottobre 2014)

 

 

Se i pm umiliano lo Stato di fronte ai boss

Acquisizione a schermo intero 08102014 113209.bmpIl parere è favorevole. Per la procura di Palermo, Totò Riina e Leoluca Bagarella possono partecipare alla deposizione del Presidente della Repubblica. Vi sono motivi tecnici, vi è la necessità di evitare che possa in seguito la deposizione essere annullata proprio per la mancata partecipazione dei boss. Per fortuna la Corte di Assise deve ancora pronunciarsi in seguito, e ci si può ancora augurare che prevalga almeno il buon senso; ma ha dell’incredibile che dietro l’apparente neutralità di un parere squisitamente tecnico si possa prospettare una scena del genere, con il Presidente della Repubblica sentito in un processo al cospetto dei capimafia. Quale idea abbiano ad un tempo delle istituzioni della Repubblica e del proprio mestiere i magistrati della Procura è difficile a dirsi. Come sia possibile che per costoro nulla strida in un simile accostamento, che sia possibile una lettura così cieca delle norme processuali, è altrettanto complicato a capirsi. Eppure va così, nel nostro Paese. Manca poco che a Riina e a Bagarella venga servita una seggiola sulla quale accomodarsi, mentre il Presidente parla. Che si odano i loro colpi di tosse, o magari qualche risatina, mentre il Presidente risponde ai magistrati.

Il Presidente viene sentito, pur non avendo nulla da aggiungere di rilevante per l’indagine sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia che la Procura di Palermo porta avanti. Avendone, beninteso, tutto il diritto, ma purtroppo non avendo quel minimo di sensibilità istituzionale che sarebbe richiesto, per il decoro e la dignità non della persone ma delle istituzioni che tutti ci rappresentano. C’è davvero qualcosa di malato nel modo in cui la giustizia si accosta ai templi della politica – perché quelli della politica sono davvero i templi della democrazia. E se anche è vero che viviamo da tempo in epoche in cui, come diceva già Kant, neppure la santità dell’altare o la maestà del sovrano possono evitarsi di sottoporre a critiche e censure, né le une né le altre possono mancare del rispetto che è dovuto alle supreme magistrature della Repubblica. Un parere tecnico non può essere l’alibi dietro i quali si maschera una volontà di mortificazione che non somiglia affatto né ad ansia di verità né a spirito di giustizia, ma una cecità ridicola, se non fosse tragica.

(Il Mattino, 8 ottobre 2014)

Solo con il voto si evita lo sfascio

Acquisizione a schermo intero 06102014 190613.bmpUna città senza sindaco. E non una città qualunque. Che si debba fare punto e a capo è scritto non in una sentenza, o nella legge, ma ormai nei fatti: Napoli non può restare per diciotto mesi senza sindaco. Non può misurarsi coi suoi grandi problemi, né può esprimere l’esigenza, sempre più indifferibile, di richiamare la politica nazionale ad una nuova e diversa attenzione per il Mezzogiorno in condizioni politicamente assai precarie, con un sindaco sospeso e un futuro gravido di incertezze. Non c’è tempo, non si può rimanere sospesi in un limbo, non si può fare come se nulla fosse successo: nel rapporto con il governo, nella collaborazione con gli altri livelli istituzionali, nell’interlocuzione con le forze economiche e sociali, nei riguardi della città intera la figura del primo cittadino, nel pieno dei suoi poteri e nell’interezza del suo mandato, è indispensabile. Come una squadra di calcio non può permettersi, nella fase più delicata della stagione, di giocare senza l’allenatore in panchina, così Napoli non può permettersi di giocare la sua difficile partita senza sindaco. E non può bastare finire il campionato accontentandosi dell’allenatore in seconda, o di quello della Primavera.

Nel corso della seconda Repubblica, la continuità dell’esperienza politica e amministrativa municipale ha rappresentato, anche grazie alla legge sull’elezione diretta dei sindaci, un punto di ancoraggio per cittadini ed elettori: quanto più i partiti politici apparivano in crisi, in cerca di un’identità e di una funzione, tanto più si disegnava con nettezza la figura del primo cittadino, interprete molto più autorevole del ceto politico di partito delle istanze della propria comunità. Ancora adesso, comunque se ne giudichi l’azione, i sindaci di Roma, di Milano, di Torino, di Genova, di Bari si stagliano una spanna sopra il contesto locale. E costituiscono la carta che le città giocano per rendere riconoscibile il proprio profilo dinanzi al Paese intero. Si passa da loro, insomma. Anche a Napoli, in fondo, è andata così. Con in più, però, la singolarità di un’esperienza politica priva di una vera proiezione nazionale. All’inizio, questo è stato un motivo di forza per il sindaco con la bandana che «scassava» il quadro politico locale; poi, però, è divenuto un elemento di debolezza, un fattore di fragilità, di isolamento. Che la sospensione naturalmente aggrava, spinge anzi oltre un punto di non ritorno. Se infatti è scritto in tutta la vicenda politica della seconda Repubblica che le città – individuate addirittura, con la riforma del titolo V della Costituzione tra gli enti sui quali poggia la stessa formazione della Repubblica – si riconoscano anzitutto nella figura del sindaco, non è pensabile che Napoli resti con il volto sfigurato.

E le forze politiche non possono non farsene consapevoli: ora tocca nuovamente (sarebbe bello se si potesse anche dire: finalmente) a loro. Il senso di responsabilità impone a tutti, alla maggioranza come alle minoranze presenti in Consiglio, di provare a superare l’impasse che si è determinato con il provvedimento di sospensione. Basta, del resto, dare un’occhiata alla proliferazione di liste e gruppi consiliari per capire che la crisi, precipitata a seguito del provvedimento prefettizio, può essere superata solo con una nuova composizione del quadro politico.  E questa via passa inevitabilmente per le urne: altra fonte di legittimazione non v’è.

A meno che non si voglia lasciare che un’altra scena venga allestita, e un’altra partita giocata: con il consiglio e la giunta a Palazzo San Giacomo, e il sindaco «sospeso» in giro per le strade, a lucrare su una pericolosa contrapposizione populistica tra la politica ufficiale e la città reale, la giustizia sostanziale contro la legalità formale. Altro che scassare: significherebbe giocare allo sfascio. Travestirsi da pescivendolo come Ferdinando, il re lazzarone, per pescare nel torbido dell’anima plebea della città. Ma Napoli può permetterselo?

(Il Mattino, 2 ottobre 2014)