Il parere è favorevole. Per la procura di Palermo, Totò Riina e Leoluca Bagarella possono partecipare alla deposizione del Presidente della Repubblica. Vi sono motivi tecnici, vi è la necessità di evitare che possa in seguito la deposizione essere annullata proprio per la mancata partecipazione dei boss. Per fortuna la Corte di Assise deve ancora pronunciarsi in seguito, e ci si può ancora augurare che prevalga almeno il buon senso; ma ha dell’incredibile che dietro l’apparente neutralità di un parere squisitamente tecnico si possa prospettare una scena del genere, con il Presidente della Repubblica sentito in un processo al cospetto dei capimafia. Quale idea abbiano ad un tempo delle istituzioni della Repubblica e del proprio mestiere i magistrati della Procura è difficile a dirsi. Come sia possibile che per costoro nulla strida in un simile accostamento, che sia possibile una lettura così cieca delle norme processuali, è altrettanto complicato a capirsi. Eppure va così, nel nostro Paese. Manca poco che a Riina e a Bagarella venga servita una seggiola sulla quale accomodarsi, mentre il Presidente parla. Che si odano i loro colpi di tosse, o magari qualche risatina, mentre il Presidente risponde ai magistrati.
Il Presidente viene sentito, pur non avendo nulla da aggiungere di rilevante per l’indagine sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia che la Procura di Palermo porta avanti. Avendone, beninteso, tutto il diritto, ma purtroppo non avendo quel minimo di sensibilità istituzionale che sarebbe richiesto, per il decoro e la dignità non della persone ma delle istituzioni che tutti ci rappresentano. C’è davvero qualcosa di malato nel modo in cui la giustizia si accosta ai templi della politica – perché quelli della politica sono davvero i templi della democrazia. E se anche è vero che viviamo da tempo in epoche in cui, come diceva già Kant, neppure la santità dell’altare o la maestà del sovrano possono evitarsi di sottoporre a critiche e censure, né le une né le altre possono mancare del rispetto che è dovuto alle supreme magistrature della Repubblica. Un parere tecnico non può essere l’alibi dietro i quali si maschera una volontà di mortificazione che non somiglia affatto né ad ansia di verità né a spirito di giustizia, ma una cecità ridicola, se non fosse tragica.
(Il Mattino, 8 ottobre 2014)