Il clima è cambiato le regole ancora no

Immagine3Il passaggio che i giudici dedicano, nella motivazione della sentenza di condanna di Luigi De Magistris, alla maniera in cui furono condotte le indagini dall’allora pubblico ministero, titolare dell’inchiesta «Why Not» – e cioè: la violazione consapevole della legge, e il dispregio delle prerogative parlamentari –, merita di essere letto e sottolineato. Si legge – mette conto di ripeterlo ogni volta – a proposito di una condanna in primo grado, e non è affatto escluso che in appello il verdetto possa essere ribaltato, come i difensori del sindaco di Napoli confidano che accadrà. Ma questo è solo l’aspetto penale della vicenda. Quel che intanto apprendiamo appartiene più in generale a una delle pagine più oscure della nostra storia recente, come dice oggi con amarezza e preoccupazione il Presidente Prodi. Secondo i giudici, è stato infatti possibile non che un pubblico ministero incappasse, quasi per disattenzione, in una brutta disavventura, non che inciampasse nel codicillo di qualche vecchia norma desueta, ma che violasse deliberatamente le disposizioni normative poste a tutela della funzione parlamentare. E le violasse al fine di un esercizio arbitrario delle proprie convinzioni di giustizia: ponendosi cioè al di sopra e non al di sotto della legge. Con tutto ciò, quell’inchiesta è finita miseramente nel nulla. Con tutto che non vi fosse alcuna traccia, nel modus operandi delineato in sentenza, di quanto il codice civile espressamente prevede, che cioè spetti al pubblico ministero di raccogliere prove sia a carico che a discolpa degli indagati: ma quanti magistrati oggi, in Italia, si conducono a questa maniera? Quanti posseggono, e soprattutto vivono di una simile cultura giuridica? Dov’è il pubblico ministero che si preoccupa di discolpare tanto quanto si preoccupa di incolpare? Un’inchiesta che ha prodotto enormi conseguenze politiche, visto che segnò la fine del governo Prodi e della legislatura, e sopra la quale è innegabile che altre fortune politiche si siano costruite, appare oggi solo come espressione di un esercizio discrezionale fino all’arbitrarietà dell’azione penale, ed espressione di una cultura giustizialista fino all’esasperazione. Che ha accompagnato, peraltro, tutti o quasi i momenti decisivi della seconda Repubblica.

Si dice: il clima è, almeno in parte, cambiato. Non si può esserne sicuri: quanti oggi, nel Paese, non continuerebbero ad additare come ingiustificati privilegi le forme di tutela riservate ancora all’esercizio delle prerogative parlamentari, e a simpatizzare quindi con un magistrato che le tenesse in spregio, pur di incastrare il politico di turno (e in realtà di rovinarlo, indipendentemente dalla sua innocenza o colpevolezza)? Di sicuro, però, se anche il clima fosse cambiato, le condizioni di contesto non sono affatto cambiate. Le intercettazioni stanno ancora al punto in cui erano al tempo dell’inchiesta «Why Not»; gli avvisi di garanzia dispiegano ancora effetti politici dirompenti molto più che garantire i destinatari; le parti del processo, l’accusa e la difesa, non stanno affatto sullo stesso piano, come pure dovrebbero; la terzietà del giudice spesso è soltanto un ombra; di separazione delle carriere è impossibile parlare, di rivedere l’obbligatorietà dell’azione penale neanche da morti. Il governo Renzi ha presentato invero una riforma, che il ministro Orlando si sta impegnando a discutere con tutte le parti coinvolte. Ma la discussione è ancora in corso, e sembra disperdersi su questioni di dettaglio, incepparsi a causa di resistenze corporative, nascondersi dietro i mille problemi della macchina della giustizia. E invece bisognerebbe farci su un investimento politico vero: chiaro, inequivoco, coraggioso, perché è in gioco non la seconda edizione di qualche capitolo dei manuali di diritto o di politica, ma la possibilità di scrivere nuove pagine della nostra storia politica, meno buie di quelle in cui finì il governo Prodi. La qualità di una democrazia è inquinata certo, e soprattutto, dal malaffare, ma anche distorta, e non poco, dall’esercizio arbitrario del potere giudiziario.

(Il Mattino, 9 ottobre 2014)

 

 

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